venerdì 31 dicembre 2010

FA CHE SIAMO LIBERI


Nel libro sulla vita di Marija Judina, la prodigiosa pianista russa, è inclusa una preghiera.

Era pronunziata assieme da chi frequentava con lei i "circoli di discussione" in quei primi anni di repressione sovietica.

Il fermento di idee nuove, di scoperta della scienza, della musica, della poesia, di Dio era guidato da parole come queste.

Siano queste parole guida anche per noi in questo anno che viene, in questo tempo che viene. 

Ti chiediamo Cristo, Maestro,
di purificare i nostri cuori
da ogni timore umano;
nel timore infatti non c'è verità.
Fa che siamo liberi secondo la Tua volontà.
Fa che siamo liberi nel Tuo amore.
Liberi in tutte le nostre vie che portano a Te.
Donaci un cuore saldo, energia di vita,
un ardire coraggioso fino alla morte.
Inviaci l'amore perfetto che scaccia il timore,
donaci la tua carità, Signore,
speranza e letizia di pace.
Signore, aiutaci,
tendila mano a ciascuno di noi
e non permettere che perisca quanto hai iniziato.
Rafforza la nostra unione,
forgia più salda la nostra catena,
così che niente possa spezzarla.
Guidaci dove Tu sai,
e non abbandonarci nel deserto.
Insegnaci a vivere in Te, a servire Te,
e per Te morire.
Insegnaci, o Signore, ad affidarti
noi stessi, gli uni gli altri e tutta la nostra vita.

giovedì 30 dicembre 2010

IN MEMORIA DI AUGUSTO DEL NOCE

Oggi 30 Dicembre, nel 21° anniverario della morte, ricordiamo Augusto Del Noce, uno dei filosofi che più acutamente hanno indagato i fenomeni della contemporaneità e in modo particolare l'esito nichilistico e ateistico del pensiero moderno.
Nato a Pistoia nel 1910 e scomparso a Roma il 30 Dicembre 1989, Augusto Del Noce si formò nell’ambiente culturale torinese, laureandosi nel 1932 con una tesi su Malebranche e aderendo all’antifascismo insieme ad altri esponenti della sinistra cristiana, come Felice Balbo, dalle posizioni del quale poi si distinse nettamente, soprattutto sulla base della convinzione dell’inconciliabilità tra cristianesimo e marxismo.



IL GAIO NICHILISMO
lettera a Rodolfo Quadrelli
Nel testo compare un’espressione che sarebbe diventata familiare a tanti di noi: «nichilismo gaio», vero e proprio j’accuse ai maestri di un’epoca. Ecco il brano della lettera in cui il filosofo spiega che cosa intende con quella espressione
Carissimo Quadrelli, ho ricevuto con estremo ritardo la tua cara lettera: porta la data del 12 dicembre; è vero però che il bollo è del 3 gennaio. In questi giorni di festa, per me i peggiori dell’anno non foss’altro perché i più sconsacrati, il ritardo, per la seconda data, è normale.
Quanto mi dici sul nichilismo presente, mi trova perfettamente consenziente. Non è più il nichilismo tragico di cui forse si potevano trovare le ultime tracce nel terrorismo.
Questo nichilismo doveva portare a una soluzione rivoluzionaria più o meno confusamente intravista o meglio confusamente ricordata; un qualche elemento di rabbia c’era ancora e questo gli conferiva una sembianza lontanamente umana.
Ma il nichilismo oggi corrente è il nichilismo gaio, nei due sensi che è senza inquietudine (forse si potrebbe addirittura definirlo per la soppressione dell’inquietum cor meum agostiniano) e che ha il suo simbolo nell’omosessualità (si può infatti dire che intende sempre l’amore omosessualmente, anche quando mantiene il rapporto uomo-donna).
Non per nulla trova i suoi rappresentanti in ex-cattolici, corteggiati ancora da cattolici che riconoscono in loro qualcosa che trovano sul loro fondo. Tale nichilismo è esattamente la riduzione di ogni valore a “valore di scambio”; l’esito borghese massimo, nel peggiore dei sensi, del processo che comincia con la Prima Guerra mondiale.
Il peggior annebbiamento che il nichilismo genera è la perdita del senso dell’interdipendenza dei fattori nella storia presente; infatti, a ben guardare, non è che l’altra faccia dello scientismo e della sua necessaria autodissoluzione da ogni traccia di valori che non siano strumentali. (…)

Con viva amicizia,
tuo Augusto Del Noce
Roma, 8 gennaio 1984


per un approfondimento consiglio l'articolo di Massimo Borghesi su "Tracce" del gennaio 2007


http://www.tracce.it/?id=266&id2=260&id_n=7678&ricerca=augusto+del+noce&autore=massimo+borghesi
 

LA NOSTALGIA DEI CONSERVATORI DI SINISTRA

di ANGELO PANEBIANCO.
C’ è qualcosa che accomuna l'opposizione della Fiom all'accordo Fiat-sindacati su Miraflori e quella del Partito democratico alla riforma Gelmini dell'Università, appena varata dalla maggioranza di governo. Sono le due più recenti manifestazioni di quella strenua difesa dello statu quo in qualunque ambito della vita sociale, politica, istituzionale, che è ormai da tempo la più evidente caratteristica della sinistra italiana, nella sua espressione sindacale come in quella politico-parlamentare.
Si tratti di scuola, di rapporti di lavoro, di magistratura, di revisioni costituzionali o quant'altro, non c'è un settore importante della vita associata in cui il conservatorismo della sinistra non si manifesti con forza. Forse ciò aiuta a spiegare una circostanza che sarebbe altrimenti incomprensibile: il fatto che l'opposizione di sinistra non si sia minimamente avvantaggiata in questi anni, stando ai sondaggi, delle gravi difficoltà di un governo che ha dovuto fronteggiare le conseguenze della crisi mondiale e che è stato inoltre investito da scandali e furibonde divisioni. Tanto è vero che tutti continuano a prevedere, in caso di elezioni, una vittoria (quanto meno alla Camera) del centrodestra.
La domanda che la sinistra italiana dovrebbe porsi è la seguente: perché nemmeno la forte disillusione di tanti italiani nei confronti di Berlusconi, il fatto che ormai più nessuno creda nella «rivoluzione liberale» sempre promessa e mai attuata spostano a sinistra l'asse politico del Paese? Può essere che la risposta giusta sia la seguente: dovendo scegliere fra ciò che ritiene un male (Berlusconi) e ciò che ritiene un male ancora maggiore (la sinistra), il grosso degli italiani continua a optare per la minimizzazione del danno, per il male minore.
Una delle ragioni, forse, è che, tolta una cospicua ma minoritaria area di conservatori a oltranza, la maggioranza relativa degli italiani pensa che stare fermi condannerebbe il Paese alla decadenza economica e sociale e che risposte magari insufficienti, o anche sbagliate, ai problemi collettivi, siano comunque preferibili alle non risposte.
Ci sono due modi per fare opposizione a un governo. Il primo consiste nel contrapporre ai progetti governativi di modifica più o meno profonda dell'esistente, proposte diverse, che ovviamente si giudicano migliori, di modifica altrettanto o anche più profonda. Il secondo consiste nel difendere l'esistente. Quest'ultima è stata la scelta della sinistra in quasi tutti i campi di interesse collettivo. Ne è derivata una paurosa mancanza di idee nuove sul che fare, una mancanza di idee che ha fatto subito appassire la rosa appena sbocciata del Partito democratico.
Non è facile ricostruire le cause del conservatorismo della sinistra. Forse, una delle più importanti, è l'evidente nostalgia per la cosiddetta Prima Repubblica, che poi altro non è se non nostalgia per i tempi in cui la sinistra era rappresentata da un grande partito (il Pci), rispettato e temuto da tutti, capace, pur dalla opposizione, di influenzare potentemente la vita pubblica e i costumi collettivi. Non avendo mai fatto davvero i conti con la storia comunista, la sinistra italiana, o ciò che ne resta, non ha saputo nemmeno fare i conti con tutto ciò che non andava nella Prima Repubblica. Ha finito per idealizzarla.
 Solo così si spiega il fatto che la sua opposizione alla destra sia sempre stata improntata al seguente ritornello: sono arrivati i barbari, i quali stanno distruggendo tutto ciò che di buono avevamo. Ma davvero era così buono ciò che avevamo? No, non lo era. Quasi tutti i problemi che ci attanagliano oggi (ne cito tre: debito pubblico, cattiva qualità dell'istruzione, cattivo funzionamento della giustizia) sono il frutto di pessime scelte della troppo mitizzata classe politica della Prima Repubblica, almeno dagli anni Settanta in poi.
Il punto è che quella mal riposta nostalgia ha finito per alimentare una ideologia conservatrice, che si traduce nella pura e semplice difesa (dalle minacce portate dai barbari) di ciò che la Prima Repubblica ci ha lasciato in eredità C'è poi, certamente, a spiegazione del conservatorismo, una ragione più generale. Fronteggiare i nuovi problemi, dall'invecchiamento della popolazione alla immigrazione, alla accresciuta competizione internazionale, significa dare risposte creative che rimettano in discussione molte soluzioni del XX secolo che si ritenevano (a torto) definitivamente acquisite.
Non essendo in grado di trovare risposte creative, la sinistra si è ridotta a giocare solo sulla difensiva C'è chi pensa che il conservatorismo della sinistra venga da lontano, sia una eredità di quella incapacità di fare i conti con la modernità che caratterizzava il vecchio Partito comunista: fu proprio in polemica col Pci, oltre che con la Dc, che i socialisti craxiani si appellarono allora a una idea di modernità che avrebbe dovuto far circolare in Italia aria nuova. Ma è vero che ci sono stati anche momenti (diverse importanti decisioni del primo governo Prodi ne sono un esempio) in cui la sinistra ha saputo, sia pure con fatica, uscire dal recinto della conservazione sociale. E, comunque, non ha mai potuto perseguire la vocazione conservatrice, sua o del suo elettorato, senza pagare il prezzo dì aspri conflitti interni. Ciò forse spiega anche la sua nota schizofrenia: finché si tratta di gestire, assieme alla maggioranza, nel chiuso delle commissioni parlamentari, certi provvedimenti, la sinistra può anche esibire fervore riformista.
E’ costretta però a metterlo da parte (il caso della riforma Gelmini è esemplare) non appena deve fare i conti con le sollecitazioni della parte più chiusa e conservatrice del suo elettorato. Forse il discorso di Walter Veltroni al Lingotto, con il quale si inaugurò la segreteria del neonato Partito democratico, è stato l'ultimo tentativo, poi fallito (come a suo tempo falli il tentativo craxiano), di disegnare i contorni di una sinistra non conservatrice. Dopo di che, il nulla. In altri Paesi, sinistre messe alle corde sono state capaci di reagire e di rinnovarsi, di inventarsi idee nuove e proposte. La sinistra italiana ne sembra incapace e Continua a denunciare i barbari per evitare di parlare a se stessa e al Paese di progetti per il futuro.

Corriere della Sera di mercoledì 29 dicembre 2010,

SE L'AVVERSARIO È SEMPRE FASCISTA

I tic della sinistra: da De Gasperi a Craxi, le accuse ai leader dello schieramento contrario nei momenti di svolta.
 Se il decisionismo dell'avversario è sempre fascista
di PIERLUIGI BATTISTA
A Mirafiori rinasce «il complesso dei tiranno». La paura della democrazia post fascista, fin dai primordi, di consegnarsi impotente nelle mani di chi decide troppo e che, decidendo troppo, avrebbe finito per assomigliare troppo a un nuovo duce. Il terrore del nuovo «fascismo», del nuovo «autoritarismo». Che in questi giorni prende le sembianze di Sergio Marchionne.
Il nuovo volto di una vecchia proiezione psico-politica. Il nuovo bersaglio di un antico tic della sinistra, che vedeva e vede nuovi «fascismi» sempre e dappertutto.
Il più esplicito nell'accostamento è stato Giorgio Cremaschi, che ha letto nell'accordo di Mirafiori sottoscritto da Cisl e Uil (ma per lui soltanto un odioso e antidemocratico diktat) i germi del «fascismo», appunto. Susanna Camusso è stata più tenue, ma sostanzialmente nella cornice di un'analoga denuncia: «autoritario e illiberale». Di Pietro, come al solito ignaro di ogni prudenza lessicale, ha prodotto la sintesi: Marchionne come esempio di «autoritarismo fascista». Il pericolo di una «deriva autoritaria» alla Marchionne unisce figure della sinistra che non sempre hanno condiviso negli ultimi anni scelte e parole d'ordine, da Sergio Cofferati a Mario Tronti, da Fausto Bertinotti a Rossana Rossanda. Sempre Il fascismo alle porte, sia pur in nuove forme. La fobia del comando. Il decisionismo come vizio autoritario. Il pericolo di una «sterzata», di una «deriva», di una «svolta» come cemento emotivo per la costruzione demonizzante del nemico, vissuto ogni volta come minaccia, come rottura traumatica di una consuetudine democratica. O di un rito consociativo. O di un tavolo concertativo dove non prevale mai nessuno, e la decisione è per sua natura «condivisa».
Ma è vero? Oppure è il retaggio di una sindrome molto diffusa nella cultura della sinistra che nel richiamo all'«unità antifascista» contro i nuovi tiranni ha fondato una parte decisiva del suo modo d'essere e di ragionare, anche a costo di un conservatorismo mentale e culturale duro a morire? Fu accusato di essere responsabile di una nuova stagione «fascista» addirittura Alcide De Gasperi, quando, di ritorno dal famoso viaggio negli Stati Uniti, all'alba della guerra fredda scaricò dal governo comunisti e socialisti rompendo per sempre la coesione delle forze che avevano fatto insieme la Resistenza. Ed era abitudine per i paladini della «nuova Resistenza» fischiare nelle cerimonie del 25 aprile gli esponenti della Dc accusata di non arginare lo scivolamento verso un nuovo «fascismo».
«Fanfascista» era bollato sarcasticamente Amintore Fanfani, espressione di una vocazione «autoritaria» che avrebbe voluto (vanamente, come è noto) scalare il Quirinale per trovare formale compimento. Divenne «autoritario», agli occhi della sinistra che si riconosceva nel Pci, Bettino Craxi artefice e motore di una «Grande Riforma» istituzionale che avesse il presidenzialismo come suo cardine. Perché questo era considerato ogni modello di Repubblica presidenziale: golpismo allo stato puro, modello autoritario, eccesso decisionista e dunque para-dittatoriale.
Del resto, era diffusa nella cultura di sinistra che la matrice primaria di un nuovo fascismo nell'Europa post-bellica fosse il presidenzialista De Gaulle. Un paradosso: un nuovo fascista l'unico francese di rilievo che nel giugno del '4o, nei giorni della Francia umiliata e sbaragliata dai nazisti, chiamò alla lotta and-hitleriana nel nome della dignità nazionale dal suo esilio londinese.
Ma il paradosso è l'anima della sindrome del «pericolo fascista» alle porte. Una coazione a ripetere che offre innumerevoli repliche alla stessa trama politica e mentale, pur nel cambiare delle circostanze e dei protagonisti. Gli stivali mussoliniani che la satira politica aveva fatto indossare a Crasi si trasformarono nel fez che la più agguerrita stampa di sinistra aveva fatto calcare a Silvio Berlusconi nell'autunno del '93, prima ancora della formale «discesa in campo» dell'uomo che, bizzarria della storia, si trovava già in odore di fascismo per il suo sostegno al «fascista» Gianfranco Fini nella corsa a sindaco di Roma. Poi il decisionista Berlusconi divenne nella mentalità corrente della sinistra un «fascista», «autoritario» e «cesarista» per suoi esclusivi demeriti e non più per interposta persona. Ma anche Cossiga, nell'epoca della sua massima foga esternatoria, venne accusato di usare il piccone per demolire il sistema ereditato dalla Resistenza e spianare la strada a un nuovo «modello autoritario».
Una sindrome, appunto. Un'attitudine a leggere ogni rottura del quadro consolidato con gli stessi occhiali deformanti del passato. L'ossessione anti-decisionista che liquida come tendenzialmente «fascista» o comunque «autoritaria» ogni scelta che non si sottoponga alla liturgia paralizzante della co-decisione. Ecco perché l'«americano» Sergio Marchionne viene indicato con il più europeo ed italiano degli epiteti, indipendentemente dal merito, ovviamente discutibile, delle sue proposte. Decide, e dunque cova in sé una malattia «autoritaria». La sinistra ha perduto spesso, per colpa di questa sindrome paralizzante. Ma gli insegnamenti della storia quasi mai vengono ascoltati.

Corriere della Sera di mercoledì 29 dicembre 2010, pagina 1

SCIENZA E MORTE

La popstar inglese Elton John e il suo compagno sono diventati "genitori" grazie a un "utero in affitto".

Il loro connazionale inglese Aldous Huxley aveva immaginato, come pietra angolare dell'incubo totalitario del "Mondo Nuovo" (1932), la sparizione della madre, sostituita da operazioni di laboratorio e incubatrici.

La melassa politicamente corretta trasforma una madre in "utero in affitto" per fingere che due uomini possano davvero fare un figlio.

IN INGHILTERRA SERVE UN CHRISTIAN PRIDE



In un procedimento legale nel Regno Unito conviene di più lasciarsi andare a effusioni lesbiche che farsi il segno della croce in pubblico. Tutta colpa dello Human Right Act del 1998
di Valentina Fizzotti
Tratto da Il Foglio del 28 dicembre 2010

Nel Regno Unito i gay sono più tutelati dei cristiani. Tutta colpa, secondo il vescovo di Winchester Michael Scott-Joynt, dell’analfabetismo religioso che dilaga fra quelli che contano, dai politici ai giornalisti e soprattutto ai giudici, e di una legge che piace poco a David Cameron ma molto a Nick Clegg. Domenica, nella trasmissione The World This Weekend in onda su Bbc Radio, il vescovo ha commentato il caso di Gary McFarlane, lo psicoterapeuta di coppia che ha perso il suo lavoro (e poi anche il suo ricorso in tribunale) per non aver voluto fornire i suoi consigli in materia di sesso a una coppia gay in crisi.
Uscito sconfitto dall’aula, McFarlane ha detto che la sua storia era “senza dubbio un esempio di come i cristiani sono perseguitati nella Gran Bretagna di oggi”. “Un giudice d’appello – ha detto il vescovo alla Bbc – ha sancito che quelle che riguardano la fede cristiana sono soltanto questioni di opinione e la legge può benissimo non tenerne conto quando si tratta di decidere che cosa è giusto o sbagliato sul luogo di lavoro. Probabilmente per la prima volta nella nostra storia c’è una diffusa carenza di alfabetizzazione religiosa fra chi detiene potere”. Il rischio è che per i professionisti che sono anche credenti devoti, diventi troppo difficile “lavorare in alcuni ambiti di servizio pubblico, compreso il Parlamento”.
Scott-Joynt, che si era già espresso molte volte contro l’equiparazione delle coppie omosessuali ai matrimoni etero e soprattutto contro l’ordinazione di preti gay, ha poi accusato il Parlamento di essersi comportato in maniera “alquanto tirannica” nei confronti delle agenzie di adozioni cattoliche, alle quali con il Sexual Orientation Regulation è stato imposto di assumere gay e non cristiani perché le coppie omosessuali siano prese in considerazione come possibili genitori adottivi. Così quest’anno una pediatra cristiana, Sheila Matthews, è stata esclusa dal comitato locale per le adozioni in cui lavorava (non aveva intenzione di perorare la causa di due padri o due madri).
Per lo stesso regolamento, a marzo la proprietaria (cristiana) di un bed&breakfast a Cookham è stata citata per discriminazione dalla coppia gay a cui non voleva dare in affitto una camera matrimoniale. L’ultima frontiera del cristianamente scorretto all’inglese resta però il crocifisso: un’infermiera cinquantenne è stata rimossa dai suoi compiti perché rifiutava di togliersi il crocifisso che portava al collo. La signora, Shirley Chaplin, ha fatto ricorso per discriminazione e l’ha perso.
L’ex arcivescovo di Canterbury, Lord Carey, si è così arrabbiato da aver promosso per dicembre la campagna “I’m not ashamed”, in cui invita tutti i credenti a scriversi sulla maglietta e sul cruscotto “Io sono cristiano e non me ne vergogno”. Alla base di quello che i vescovi chiamano “lo squilibrio di diritti fra le minoranze sessuali e i cristiani”, il motivo per cui in un procedimento legale in Inghilterra conviene di più lasciarsi andare a effusioni lesbiche che farsi il segno della croce in pubblico, c’è il Human Right Act del 1998, una legge che servì a recepire nel diritto britannico i principi sanciti dalla Convenzione europea per i diritti dell’uomo. Grazie a quella legge un cittadino britannico può rivolgersi a un tribunale locale se crede che i suoi diritti siano stati violati, senza passare dalla Corte di Strasburgo. In campagna elettorale l’attuale premier Cameron propose di cancellarla e rimpiazzarla con una legge fatta su misura sull’Inghilterra e le sue tradizioni (e non scopiazzata, com’è ora, da quella europea). I Libdem, invece, di tutt’altro avviso, si sono limitati a promettere l’istituzione di una commissione che si occupi di capire se è possibile integrare i diritti all’inglese con quelli all’europea.
Ma se in Gran Bretagna sono costretti a inneggiare al Christian Pride, anche in Francia i cristiani non sono messi meglio. Anzi, a sentire il vescovo della diocesi di Saint-Etienne, Dominique Labrun, lì i cattolici sono maltrattati. “Per esempio in un’Università o in un liceo – ha detto il vescovo nella sua intervista sul Natale al quotidiano Le Progrès, – se un ragazzo dice di essere cristiano lo prendono in giro”. Per i ragazzi musulmani invece tutto fila liscio, sarà per il principio di laicità alla francese: “La laicità – spiega il vescovo – serve soltanto come pretesto per impedire ai credenti di esprimere la loro fede”.

mercoledì 29 dicembre 2010

ATEA ROSSA E CRUDELE: QUESTA E' LA CINA DI OGGI


di Filippo FacciTratto da Libero del 27 dicembre 2010
La Cina resta quella coi funzionari statali che affogano i neonati secondogeniti nelle risaie: cosicché la diplomazia è finita, la battaglia è persa, la Cina resta la Cina.
Resta la nazione, cioè, in cui vengono giustiziati più individui che in tutti i Paesi del mondo messi insieme; la nazione - atea, e non laica - della disgraziatissima politica del figlio unico, la nazione che pratica l’aborto sino al nono mese (a calci, se necessario) con le autorità che estraggono il collagene dai feti per produrre cosmetici destinati al mercato europeo.
Se il Papa aveva taciuto su tutte queste cose, per anni, è perché si stava giocando una partita delicatissima: milioni di cattolici cinesi rischiano persecuzioni ogni giorno, questo in un Paese dove la libertà religiosa in fin dei conti non c’è e dove segnatamente viene negata la riapertura della nunziatura apostolica chiusa nel 1949: il regime comunista, infatti, nel 1951 costrinse la chiesa cattolica cinese a tagliare i rapporti con il Vaticano e la trasformò in un culto autonomo dalla sovranità papale e ufficialmente consentito solo nelle chiese approvate dal governo.
È su questo che si giocava la partita ormai perduta: i cinesi cattolici fedeli al Papa sarebbero ormai sessanta milioni - tre volte il numero di quelli affiliati alla chiesa riconosciuta dal governo - ma non c’è verso che possano passarsela meglio.
Perché in Cina, va ricordato, essere cattolici non autorizzati è proibito, pregare è proibito e preti e monache spesso finiscono male. Il fatto che il Papa non abbia voluto incontrare il Dalai Lama apparteneva ancora alla fase diplomatica: «Ci sono molte relazioni ed è bene che continuino», scrisse l’Osservatore Romano. Ma ora basta.
È per questo che Ratzinger l’altro giorno ha parlato apertamente della «discriminazione e persecuzione» dei cristiani della Cina continentale, i quali «non si perdano d’animo per le limitazioni alla loro libertà di religione e di coscienza, e mantengano viva la fiamma della speranza». Ed è per questo che il governo di Pechino ha oscurato immediatamente la Bbc che stava riferendo del discorso del Papa.
L’ultimo diaframma diplomatico era caduto in novembre, quando la chiesa cattolica cinese aveva comunicato che avrebbe proceduto alla nomina dei suoi vescovi anche senza l’approvazione del Vaticano. Il New York Times in quei giorni scrisse che negli ultimi anni le relazioni tra la chiesa cinese e il Vaticano erano migliorate e che molte nomine decise in Cina erano state accettate dal Papa. Ma erano eccezioni, e Benedetto XVI fece sapere di essere «molto infastidito». Il processo di riconciliazione, fece capire, poteva arrestarsi bruscamente. Infatti.
Ora di certi orrori si potrà ricominciare a parlare più liberamente. Parlare di quando, in occasione della visita di Bush in Cina, il governo si premurò di far «sparire» vescovi e sacerdoti non sottomessi alla chiesa ufficiale; di quando - lo raccontò Asia news in più occasioni - morti e sparizioni dei cattolici non allineati furono all’ordine del giorno.
Cosicchè non è eccezionale che sedici suore francescane, tempo fa, siano state pestate a sangue con pugni e bastoni perché ostacolavano la demolizione di una scuola diocesana: è eccezionale che lo siamo venuti a sapere. Altri racconti li ha fatti Harry Wu, cinese fuggito negli Usa e presidente della Laogai Research Foundation: è lui ad aver raccontato come nei laogai - campi di rieducazione voluti da Mao in cui si viene rinchiusi senza neanche un processo - le scariche elettriche, i pestaggi manuali o con i manganelli, l’utilizzo doloroso di manette ai polsi e alle caviglie, la sospensione per le braccia e la privazione del cibo e del sonno non risparmino, oltre ai soliti monaci tibetani, neanche preti e vescovi cattolici.
Accade nella nazione in cui i familiari delle vittime di Tienanmen sono ancor oggi perseguitate, e i sindacati proibiti, i minori deceduti sul lavoro impressionanti per numero, per non dire dei cosiddetti morti accidentali: prigionieri che precipitano dai piani alti degli edifici detentivi e che solo il racconto di pochi scampati ha potuto testimoniare.
A Reporter senza frontiere e ad Amnesty International è invece toccato il compito di raccontare della rinnovata abitudine di rinchiudere i dissidenti negli ospedali psichiatrici, spesso imbottiti di psicofarmaci senza che le ragioni degli internamenti fossero state ufficialmente stabilite: accade nel Paese che per un anno e mezzo riuscì e celare l’epidemia Sars, giacché i dirigenti cinesi temevano che potesse scoraggiare gli investimenti occidentali. Il Paese che censura un Papa che osi lamentarsi.

GIANFRANCO ZAR DEL PARLAMENTO


Ieri abbiamo appreso che in Italia esiste una carica istituzionale sulla quale il Parlamento non può aprire una libera discussione: il presidente della Camera Gianfranco Fini


di Mario Sechi
Tratto da Il Tempo del 24 dicembre 2010
I titoli di coda del 2010 stanno cominciando a scorrere, ma il film continua e i colpi di scena nella nostra commedia nazionale non finiscono di stupire. Ieri abbiamo appreso che in Italia esiste una carica istituzionale sulla quale il Parlamento non può aprire una libera discussione: il presidente della Camera Gianfranco Fini. Si può sindacare su tutto, dire che il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi è il dittatore Noriega e deve andare in galera (Di Pietro dixit), si può discettare sulla vita e i suoi misteri, sulla fede e l’ateismo, ma su Fini no, il dibattito non si può fare e a dirlo è lo stesso Gianfranco con una lettera dal tono zarista. Invece di fare la mossa democratica e illuminata, invece di dire alla Lega «prego, si apra una discussione, decida il Parlamento sovrano», Fini si trincera dietro una terzietà che ha perso da tempo. Il presidente della Camera e leader di Fli ha buttato un’altra occasione per recuperare un po’ di coerenza. Ma qualsiasi richiamo al bon ton istituzionale sembra cadere nel vuoto.
Siamo di fronte a un caso da manuale, un dottor Jekyll e Mister Hyde in chiave politica che si presenta così:
1. la mattina si sveglia e tuona contro il cesarismo e il partito proprietario;
2. la sera esce da casa e fonda un partitino che si chiama come il titolo di un suo libro e ha il suo nome in primo piano;
3. la mattina vota una legge elettorale che gli consente di scegliere i suoi parlamentari e vincolarli ai suoi piani;
4. la sera va in giro a dire che quella legge fa schifo e ora bisogna cambiarla;
5. la mattina ordina ai suoi ministri di dimettersi dall’incarico di governo;
6. la sera dichiara che per la sua poltrona la parola dimissioni non esiste;
7. la mattina dice che non può fare campagna elettorale per le elezioni regionali del Lazio perché lui è super partes;
8. la sera prende la macchina va a Bastia Umbra e da leader di partito chiede le dimissioni del premier;
9. la mattina s’affaccia alla finestra e dice: sono presidenzialista;
10. la sera chiude la finestra e proclama: sono parlamentarista. Mi fermo qui, sono giorni di festa e mi sento più buono anch’io. Cari lettori, Buon Natale.

martedì 28 dicembre 2010

MESSAGGIO NATALIZIO DEL SANTO PADRE REGISTRATO PER IL PROGRAMMA "THOUGHT FOR THE DAY" DELLA BBC, 24.12.2010

La mattina del 24 dicembre la BBC di Londra ha trasmesso un radiomessaggio, registrato mercoledì scorso dal Santo Padre Benedetto XVI per il programma "Thought for the Day", con il quale - nel ricordo della visita compiuta nello scorso mese di settembre - il Papa invia gli auguri di Natale agli abitanti del Regno Unito ed a tutti gli ascoltatori.

 

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE

Ricordando con grande tenerezza la mia visita di quattro giorni nel Regno Unito nel settembre scorso, sono lieto di avere l’opportunità di rivolgere nuovamente a voi il mio saluto, e anzi di rivolgere i miei auguri agli ascoltatori dovunque si trovino, mentre ci prepariamo a celebrare la nascita di Cristo.

I nostri pensieri ritornano a un momento della storia in cui il popolo scelto da Dio, i figli di Israele, vivevano un’attesa intensa. Aspettavano il Messia che Dio aveva promesso di inviare, e lo descrivevano come un grande leader che li avrebbe riscattati dal dominio straniero e avrebbe restaurato la loro libertà.

Dio è sempre fedele alle sue promesse, ma spesso ci sorprende nel modo di compierle. Il bimbo nato a Betlemme ha portato sì la liberazione, ma non solo per le persone di quel tempo e di quel luogo – egli sarebbe stato il Salvatore di tutti, in ogni luogo del mondo e in ogni tempo della storia. E la liberazione che egli ha portato non era politica, attuata con mezzi militari: al contrario, Cristo ha distrutto la morte per sempre e rinnovato la vita per mezzo della sua morte obbrobriosa sulla croce.

E benché sia nato nella povertà e nel nascondimento, lontano dai centri del potere terreno, egli era lo stesso Figlio di Dio. Per amore nostro egli ha preso su di sé la nostra condizione umana, la nostra fragilità, la nostra vulnerabilità, e ha aperto per noi la via che porta alla pienezza della vita, alla partecipazione alla vita stessa di Dio. Mentre meditiamo nei nostri cuori su questo grande mistero in questo Natale, ringraziamo Dio per la sua bontà verso di noi, e annunciamo con gioia a chi è intorno a noi la buona notizia che Dio ci offre la libertà da tutto ciò che ci opprime: ci dona speranza, ci porta vita.

Cari amici della Scozia, dell’Inghilterra, del Galles, e di ogni parte del mondo di lingua inglese, desidero che sappiate che vi tengo tutti molto presenti nelle mie preghiere in questo tempo santo. Prego per le vostre famiglie, per i vostri figli, per i malati, per tutti coloro che soffrono per qualsiasi difficoltà in questo tempo. Prego specialmente per gli anziani e coloro che si avvicinano alla fine dei loro giorni. Chiedo a Cristo, luce delle nazioni, di allontanare ogni oscurità dalle vostre vite e di donare a ognuno di voi la grazia di un Natale di pace e di gioia. Il Signore vi benedica tutti.

IL COMMENTO DI MASSIMO INTROVIGNE

Tratto da La Bussola Quotidiana il 27 dicembre 2010
Al termine del Canto di Natale in prosa di Charles Dickens (1812-1870), riproposto di recente anche da alcune affascinanti versioni cinematografiche, il piccolo Tim – il bambino malato che ha contribuito a redimere il vecchio avaro Scrooge – esclama: «Il Signore vi benedica tutti».
Con queste stesse parole notissime a ogni inglese, che ha studiato a scuola almeno una volta il Canto di Natale di Dickens, Benedetto XVI ha concluso, il 24 dicembre, uno dei suoi più singolari messaggi.
C'era una volta la BBC, la radio-televisione inglese che attaccava la Chiesa Cattolica e il Papa a ogni pié sospinto. E c'è ancora. Ma dal viaggio del Papa in Gran Bretagna del settembre 2010, un successo straordinario e del tutto imprevisto, qualcosa è cambiato. Ed ecco l'invito della BBC al Papa per tre minuti di messaggio radiofonico in lingua inglese, il 24 dicembre.
Tre minuti che hanno stupito le decine di milioni di ascoltatori della BBC in tutto il mondo anglofono. Nessuna polemica, ma il messaggio di Gesù Cristo senza sconti per nessuno. Si potrebbe dire che ci sono il Catechismo della Chiesa Cattolica e il suo Compendio. E che ora ci sono i tre minuti della BBC, il compendio del compendio, la storia della salvezza raccontata in tre battute.
Primo minuto: il mondo, ricorda il Papa, è sempre in attesa di qualcosa. È fatto così. L’attesa, in un certo senso, lo costituisce, almeno dopo il peccato originale. Ma spesso il mondo sbaglia attesa. Succede oggi. E succedeva ai tempi di Gesù, quando «il popolo scelto da Dio, i figli di Israele, vivevano un’attesa intensa. Aspettavano il Messia che Dio aveva promesso di inviare, e lo descrivevano come un grande leader che li avrebbe riscattati dal dominio straniero e avrebbe restaurato la loro libertà». In questa attesa c'era qualche cosa di giusto: la fiducia nelle promesse di Dio, la speranza della libertà. Ma anche qualcosa di sbagliato: l'idea che la liberazione sarebbe arrivata per via materiale e soltanto politica.
Secondo minuto: il Papa spiega che «Dio è sempre fedele alle sue promesse, ma spesso ci sorprende nel modo di compierle». Gli ebrei attendevano la liberazione. L’attesa non è andata delusa. «Il bimbo nato a Betlemme ha portato la liberazione». Ma una liberazione diversa da quella che molti ebrei aspettavano: «la liberazione che egli ha portato non era politica […]: al contrario, Cristo ha distrutto la morte per sempre e rinnovato la vita per mezzo della sua morte obbrobriosa sulla croce. E benché sia nato nella povertà e nel nascondimento, lontano dai centri del potere terreno, egli era lo stesso Figlio di Dio. Per amore nostro egli ha preso su di sé la nostra condizione umana, la nostra fragilità, la nostra vulnerabilità, e ha aperto per noi la via che porta alla pienezza della vita, alla partecipazione alla vita stessa di Dio». Gli ebrei aspettavano la liberazione nel senso di fine del dominio romano. È venuto qualcosa di molto più grande, la redenzione universale ci tutti – non degli ebrei soltanto – per mezzo della povertà e della sofferenza dello stesso Figlio di Dio.
Terzo minuto: Dio ci ha dunque dato molto, più di quanto aspettavamo. in effetti, ci ha dato tutto nel Figlio Suo che ci ha redento. Ma si attende da noi una duplice risposta: che accogliamo con fede il Figlio suo e che annunciamo agli altri la Buona Novella che abbiamo ricevuto. «Mentre meditiamo nei nostri cuori su questo grande mistero in questo Natale, ringraziamo Dio per la sua bontà verso di noi, e annunciamo con gioia a chi è intorno a noi la buona notizia che Dio ci offre la libertà da tutto ciò che ci opprime: ci dona speranza, ci porta vita».

IL PERDENTE DELL'ANNO


Quando era “person of the year” tutto pareva possibile. Cambiare l’America, superare la crisi, pacificare il pianeta. Ma non si può comandare un impero senza farsi molti nemici. Diario della stagione che ha riportato Obama sulla terra
di Mattia Ferraresi

A guardarla oggi, la copertina del Time che celebra Barack Obama “person of the year” 2008 sembra un documento storico, un reperto uscito dalla polvere degli archivi, da conservare per la manualistica alla stregua di un Kennedy con il vento che scompiglia i capelli e del Nixon malmenato che finisce nella polvere facendo il gesto della vittoria. La stilizzazione pop rossa e blu di Shepard Fairey appare come un ricordo sbiadito in cui la carica politica e passionale è stata neutralizzata, come se le iniezioni di eroismo che hanno accompagnato la stupefacente incarnazione democratica di Obama fossero improvvisamente venute meno, annullate dai terremoti della realtà.


Il dottor Fileno partorito dalla mente di Pirandello aveva trovato una ricetta infallibile per consolare se stesso e gli altri da ogni male: «Legger da mane a sera libri di storia e veder nella storia anche il presente, cioè come già lontanissimo nel tempo e impostato negli archivi del passato». I giorni gloriosi di Obama, messi su carta e inchiostro dall’onorificenza del Time, sembrano visti attraverso il “cannocchiale rovesciato” di Fileno, come se due anni fossero stati velocemente fermati nell’ambra del ricordo, e le complicazioni dell’oggi fossero parte di una storia radicalmente diversa. Non è soltanto un calo di popolarità, una involontaria cospirazione di circostanze avverse, dalla situazione in Afghanistan alle elezioni di midterm perse come spesso accade al partito del presidente.
Il deterioramento politico di Obama ha l’aria di una nemesi in stile mitologico, come se l’inerzia della partita si fosse ribaltata: quando era “person of the year” tutto riusciva facile e immediato, la chiusura del carcere speciale di Guantanamo era a un passo, il ritiro delle truppe dall’Afghanistan era questione di mesi, il mondo arabo poteva essere conquistato con una pacificante “mano tesa”, la riforma sanitaria era la kennediana “nuova frontiera” dell’assistenza statale, la crisi finanziaria era grave ma con la guida di princìpi solidi poteva essere superata, il processo di pace su cui tutti i presidenti avevano fallito poteva essere una specie di benedizione supplementare; a Obama hanno dato il Nobel per la pace nel 2009, riconoscimento che risultava già vagamente farsesco all’epoca dei fatti e che ora, nell’impietoso paragone con il dissidente cinese Liu Xiabao, risulta esplicitamente grottesco. A un’uscente “person of the year” non si negava nulla, nemmeno un tre su tre a canestro in una pausa dei lavori al G8 a L’Aquila; ora il presidente prende colpi duri anche nell’analogia cestistica.

«La politica presidenziale è una questione di narrativa», ha scritto John Harris del quotidiano Politico, «nessuno lo sa meglio di Barack Obama e del suo team, che nel 2008 hanno vinto le elezioni anche perché erano narratori migliori rispetto agli avversari». Certo, Obama era una “person of the year” in conto vendita: sulla base di una narrazione perfettamente costruita l’opinione pubblica aveva comprato l’intero pacchetto, ma non si sapeva se il contenuto sarebbe stato venduto con esiti accettabili sul mercato presidenziale.
La campagna elettorale si fa in poesia, il governo in prosa, dice un adagio molto noto in politica, specialmente in quella americana, dove le probabilità per un presidente di essere sfiduciato, sottoposto a impeachment ed eventualmente sollevato sono molto basse, extrema ratio in un sistema di governo in cui la stabilità è il valore indiscusso e il calo di popolarità per un presidente è caratteristica strutturale, inevitabile condizione per un commander in chief che nel comandare non può che scontentare. Nondimeno, la narrazione di quello che un tempo era stato “person of the year” ha avuto una serie di ricadute così pesanti da farlo apparire come l’antieroe dell’anno, un re mida che s’accorge che anche il cibo che dovrebbe ingoiare si trasforma in oro. «Farebbe meglio a governare la trama dei suoi anni alla Casa Bianca», suggeriva la perfida editorialista del New York Times Maureen Dowd, toccando le corde profonde di un disagio obamiano che non è soltanto dovuto al fatto che così è stato per tutti i presidenti, così sempre sarà e lui non fa eccezione.

Con i Tea Party alle calcagna

Innanzitutto, c’è l’economia. La politica di stimolo promossa da Obama non ha dato i risultati che il presidente sperava e – soprattutto – non è riuscita a dare una scossa al mercato del lavoro. Se a luglio Obama diceva che sì, la disoccupazione era preoccupante ma «ci stiamo muovendo nella direzione giusta» e a settembre i numeri erano «positivi, ma non ancora abbastanza» il dato di dicembre (39 mila posti di lavoro guadagnati nel settore privato, con un tasso di disoccupazione che cresce dal 9,6 per cento al 9,8) chiude l’anno al ribasso; con il risultato di un compromesso politico – forzato, certo, dai nuovi assetti al Congresso – che prolunga i tagli fiscali approvati da Bush per altri due anni per tutte le fasce di reddito, ricchi e ricchissimi compresi. In pratica, significa accettare la ricetta per la crescita con cui i repubblicani hanno alimentato una campagna elettorale tanto spettacolare quanto inaspettatamente semplice, tanto era chiara la debolezza dell’avversario.

Da un punto di vista elettorale, Obama è stato letteralmente assediato dalla destra libertaria dei Tea Party, sintesi inedita di passioni intimamente radicate nel corpus americano. Soprattutto, Obama è stato sconfitto non sul terreno prevedibilmente ostico del governo, ma su quello relativamente più agevole della campagna elettorale, il suo terreno. Nell’autunno rovente Obama ha tentato di sfidare la destra libertaria che da mesi in piazza chiedeva la testa dell’Amministrazione: «La sfida per il movimento del Tea Party è identificare in modo specifico questo punto: che cosa vuole?». La risposta assomigliava a quella di Tony Montana in Scarface: «Voglio il mondo e tutto ciò che c’è dentro».

Il risultato è stata la più grande sconfitta di midterm dal Dopoguerra, condita da un paradossale surplus di sfortuna per Obama: perdere il controllo soltanto della Camera e conservare il Senato, cosa che avrebbe reso più semplice il passaggio dei repubblicani da opposizione urlante a rispettabile forza di governo, quindi chiamata a prendersi le responsabilità di decisioni ispirate a un bene giocato su terreni comuni. Ci sarebbe stato meno spazio per giochi trasversali e guerre di posizione e anche il presidente avrebbe potuto far valere la sua naturale inclinazione a operazioni bipartisan, immagine di leader etereo che si è coltivato negli anni che furono, quando era ancora “person of the year”.

In politica estera, l’annus horribilis di Obama è stato reso un po’ meno amaro dal fatto che l’economia ha commissariato l’interesse degli americani per l’estero (specialità degli anni di Bush) e l’America si è scoperta centripeta, orientata agli affari di casa, perfino neoisolazionista nelle sue manifestazioni più radicali. Quand’era “person of the year”, Obama ha promesso di chiudere il carcere di Guantanamo; lo ha fatto il giorno dopo essersi insediato alla Casa Bianca, con un ordine esecutivo che era un piccolo gesto per significare la fine di un’epoca buia. Ma Guantanamo non si riesce a (e forse non si può) chiudere; i trasferimenti dei detenuti danno buoni risultati, ma il cortocircuito legislativo sembra insanabile e il primo dei detenuti processati davanti a una corte civile a Manhattan (Ahmed Ghailani, responsabile degli attentati alle ambasciate americane in Kenya e Tanzania nel 1998) è stato riconosciuto perseguibile soltanto per uno delle centinaia di capi d’imputazione mossi: niente omicidio, niente strage, niente specifiche sul terrorismo internazionale. Gli uomini di Obama che si occupano del carcere speciale dicono ormai in modo chiaro che la chiusura è un miraggio.

Questa settimana il presidente ha presentato la review strategica sull’Afghanistan. Ottimismo decisamente modesto in assoluto, ancora peggio se si considera il calibro della promessa obamiana: ritiro delle truppe a partire dal 2011. «Nei nostri obiettivi principali stiamo vedendo progressi significativi», dice Obama, ma intanto negli ultimi tre mesi la data del 2014 è stata sdoganata anche nel dibattito pubblico.

Fra droni e burocrati

I droni della Cia martellano sulle zone tribali, sconfinando senza problemi nel territorio dell’infido alleato pachistano. Mentre Obama cerca di ottenere il massimo dal documento del Pentagono sull’Afghanistan, le agenzie di intelligence fanno sapere – come spesso accade, tramite il New York Times – che il National Intelligence Estimate, supremo documento di valutazione delle 16 principali agenzie dei servizi, dà un giudizio molto più duro sullo scenario afghano. Una situazione in cui soltanto il ravvedimento del Pakistan può generare qualche sincera speranza di vittoria per la Coalizione.
Nell’anno orribile Obama ha perso un generale a quattro stelle, Stanley McChrystal, e si è rivolto all’unico candidato possibile per guidare le forze in Afghanistan, David Petraeus, creazione di Gorge W. Bush ai tempi del surge in Iraq; poi il presidente è stato “woodwardato”, cioè sottoposto al trattamento giornalistico del mitologico Bob Woodward, che in Obama’s Wars ha offerto un ritratto impietosamente realistico della politica estera dell’amministrazione, fatta di burocrati scivolosi e personalità ingombranti sempre sul confine di uno scontro finale, dove Obama è un mediatore inesperto, non sempre in grado di gestire faide ancestrali. Obama non sentiva davvero nessun bisogno di Julian Assange per meditare sulla propria crisi di popolarità e leadership. Le rivelazioni diplomatiche dell’attivista australiano non spostano snodi sostanziali nei rapporti americani, ma se letti nell’ottica della narrativa presidenziale danno un messaggio di incapacità del potere nell’arginare l’anarchia della trasparenza mediatica.

Nel declino la salvezza?

L’anno che Obama vorrebbe dimenticare, però, è un delicato intreccio di paradossi. Certo, paragonato alle promesse, il 2010 del presidente si riduce a un prontuario di fallimenti, interrotto da brevi segmenti di felicità; ma in senso strategico al declino di Obama è ancorata la sua possibilità di salvezza politica. Il presidente si è trasformato – suo malgrado – da sognatore senza tempo e oratore parareligioso in smagato pragmatico, capace di raffinate mediazioni e anche di forzature istituzionali. Le elezioni hanno infierito sulla sua perdita dell’aureola e ne è uscito malconcio numericamente ma sollevato da una pressione politica insostenibile anche per il più osannato dei presidenti.
Sceso dal piedistallo, Obama ha iniziato a giocare con le stesse regole degli avversari e ha immediatamente realizzato che avere un partito all’opposizione – anche se soltanto in una camera – è un naturale dissipatore di malumori interni, un fattore di coesione e un modo per scaricare le colpe all’esterno. Alla Casa Bianca si è aperto da tempo il turnover, strumento naturale per adeguare i meccanismi del potere, e la falange scelta si è stabilita a Chicago per lavorare al capitolo forte della narrativa obamiana, la campagna presidenziale. Con un misto di tattica e rilancio di promesse appena appena potate del loro impeto iniziale, Obama cerca di chiudere un anno da presidente in cerca d’autore

L'UOMO "NUOVO" EUROPEO E' UN MOSTRO IDEOLOGICO

Che vergogna l’Europa: i crimini staliniani pesano meno della Shoah
·                                                                                                                               
L’Unione Europea ha risposto no

alla richie­sta di sei Paesi
 membri usciti dal passato comunista

di equi­parare il negazionismo

dei crimini staliniani

a quello (punito per legge)

dello sterminio degli ebrei da parte dei nazisti

LEGGI L'ARTICOLO DI SOLINAS


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