sabato 27 novembre 2010

FAZIO E SAVIANO: LA VANITA' E LA VERGOGNA


Ieri sera, intervistato dal Tg3, Fabio Fazio ha speso molte parole per dire di nuovo «no» ai malati e alle loro famiglie. E ha spiegato che «alle storie (dei coniugi Welby e di Beppino Englaro) non si replica con opinioni». Infatti. Noi di Avvenire non abbiamo chiesto, raccogliendo le voci negate dei malati e dello loro famiglie di «replicare» con «opinioni», ma di far parlare altre storie. Storie di malattia, di lotta e di vita non suggellate da una richiesta di morte procurata. Quelle che Fazio, anche a nome di Saviano, continua a non considerare degne della sua narrazione televisiva di successo. Nel nome, dice, della «libertà autorale». Ma quale libertà è quella che giudica «inaccettabile» la verità?  (M. Tarquinio)



26 novembre 2010
Quelli che non ammettono. Quelli che non sono ammessi
Inaccettabili
Gli uomini davvero liberi sono quelli che quando si rendono conto di aver commesso un errore, lo riconoscono. Quelli che non hanno bisogno di un’intimazione per rimediare a uno sbaglio. Quelli che non fanno finta di sentire solo gli applausi. Quelli che dall’alto di uno straordinario successo – frutto di mestiere e di fortuna, del potente mezzo usato e di un antico inusuale coraggio – sanno chinarsi sulle storie e sulle voci degli impresentabili e dei politicamente scorretti. E le ascoltano. Anche se non sono quelle che a loro piacciono e che hanno deciso di raccontare davanti alle telecamere della Rai, cioè della tv che dovrebbe essere di tutti, che è tenuta a essere e a farsi «servizio pubblico».

Fabio Fazio ne sa qualcosa di «quelli che». E anche Roberto Saviano. Sanno di vittorie e di sconfitte, loro. Sanno di presunti vincitori e di presunti sconfitti. Sanno di speranza e di disperazione. E sanno come raccontare, come elencare. Bene, benissimo. Male, malissimo. Perché della vita che si fa malata, ma malata per davvero, duramente malata, fingono di aver saputo solo la disperazione e il rifiuto. Fingono di aver incontrato e riconosciuto solo storie di guerra, battaglie lunghe e amare e controverse per abbandonare e per finire. Fingono, cioè,di non sapere di Mario e di Fulvio, di Max e di mamma Lucrezia e papà Ernesto, di Maria Pia e di suo marito. Fingono di non aver mai sentito di Stefano e Chantal, di Moira, di Angelo, di Simone, di Rosy e di Susi con un’intera famiglia adottiva. Ma se per avventura loro, e gli autori di "Vieni via con me", nulla avessero saputo o sentito o anche solo intuito di tutta questa vita in lotta da chiamare e rispettare per nome, in questi giorni – sulle nostre pagine – hanno certo avuto occasione di incontrarla e conoscerla. Eppure non l’hanno riconosciuta.

E ora che pure il Consiglio di amministrazione della Rai, ha detto: «Fateli parlare»? Ora niente, dicono, Fazio e Saviano. Per loro è «inaccettabile». Quelle voci – e già temevano di averlo capito – sono inaccettabili. Beh, non si somigliano proprio Fazio e Saviano quando mostrano l’audience e voltano la testa, con aria – loro – da vittime (o, forse, non somigliano all’immagine di sé che ci avevano dato). E non si somiglia nemmeno Paolo Ruffini, direttore di Raitre e intellettuale limpido e rigoroso, quando afferma che niente di «non detto» e di negato c’è stato nel programma che sulla sua rete ha avuto il maggior successo di sempre.

Ma che cosa hanno fatto i non-Englaro e i non-Welby per meritare questo bavaglio e queste umiliazioni, questo puntiglioso sussiego? Sono forse troppi? Sì, sono tantissimi. Sono praticamente tutti quelli che si sono ritrovati arruolati loro malgrado nelle battaglie con la distrofia, la sclerosi multipla, la Sla... Sono quelli che conoscono o hanno conosciuto il coma, quelli che vengono definiti in stato vegetativo. Sono quelli che si sono risvegliati. E quelli che stanno ancora chiusi dentro. Sono quelli che stanno accanto, quelli che non indietreggiano, quelli che fanno spazio nelle loro case e nelle loro vite a queste altre vite inchiodate e tempestose. Sono quelli che magari credono in Gesù Cristo e non hanno paura della morte, ma non ci stanno a dire che l’amore e la scienza servono a niente. Sono quelli che magari non credono in Dio, ma non rinunciano a ogni respiro e a ogni pensiero. Quelli che accanirsi mai, ma eutanasia mai.

Non hanno bisogno di «par condicio», perché la sfida per loro è comunque dispari. Hanno diritto a un po’ di verità. E la tv non è necessariamente e sempre altra dalla verità, altra dalla vita vera.
Marco Tarquinio
da Avvenire

mercoledì 24 novembre 2010

LUTTO NELLA FAMIGLIA PONTIFICIA

Sull'Osservatore Romano il necrologio del Papa per Manuela ed il cordoglio di chi le ha voluto bene
   NECROLOGIO

Sua Santità Benedetto XVIaddolorato per l'improvvisa scomparsa della collaboratrice

Signorina

Manuela Camagni

eleva preghiere di suffragio al Signore e rimane spiritualmente vicino alla Comunità delle Memores Domini e ai familiari della compianta defunta.
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Appresa la notizia della tragica morte della

Signorina Manuela Camagni
in servizio presso l'Appartamento Pontificio
il Cardinale Segretario di Stato, i Superiori e gli Officiali tutti della Segreteria di Stato esprimono vivo cordoglio ai parenti, all'Associazione Memores Domini, e sono loro uniti nella preghiera di suffragio.
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Il Comandante e tutto il Corpo della Guardia Svizzera Pontificia partecipano al dolore della famiglia Camagni e della Comunità delle Memores Domini ed esprimono le più sentite condoglianze per la morte di

Manuela Camagni

e si uniscono ai familiari nella preghiera e nella speranza della risurrezione.

Città del Vaticano, 24 novembre 2010
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Giovanni Maria Vian, colpito e commosso per la tragica scomparsa di

Manuela Camagni

prende parte al dolore di Benedetto xvi, della famiglia pontificia, di tutta la comunità dei Memores Domini e dei familiari, in unione di preghiera.

Città del Vaticano, 24 novembre 2010
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La morte improvvisa della nostra amica
Manuela Camagni

delle Memores Domini della famiglia pontificia, è la modalità misteriosa con la quale il Signore ci costringe a pensare a Lui, rinnovando la certezza che «neanche un capello del vostro capo andrà perduto», come ci ha detto la Liturgia di oggi. Stringiamoci ancora più intensamente nell'abbraccio del Santo Padre, come figli che vogliono condividere in tutto la sua umanità ferita.

«Nessuno ha un amore più grande di colui che dà la vita per i suoi amici».

Il suo dare la vita si è manifestato in modo evidente e sorprendente sia attraverso la disponibilità di Manuela alla missione, nell'esperienza di Tunisi, sia nel servizio al Santo Padre. Il suo sacrificio rinnovi in tutti noi la verità del nostro «sì», perché la vittoria di Cristo si affermi sempre di più nei nostri cuori.

Don Giussani ottenga dalla Madonna il dono della felicità eterna per la nostra amica e quello della consolazione per il Papa.

Per tutta Comunione e Liberazione e i Memores Domini, don Julián Carrón.

Milano, 24 novembre 2010
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(©L'Osservatore Romano - 25 novembre 2010)

Lutto nella famiglia pontificia

La morte di Manuela Camagni

Manuela Camagni, una delle Memores Domini dell'appartamento pontificio, è morta all'alba di stamane, mercoledì 24 novembre, a Roma, in seguito alle gravissime ferite riportate in un incidente stradale.
Aveva 56 anni, e dal maggio 2005, poco dopo l'elezione in conclave del cardinale Joseph Ratzinger, collaborava nell'appartamento del Santo Padre.
Questa mattina, appresa con dolore la notizia della morte di Manuela, il Papa ha pregato in suffragio della sua anima durante la messa celebrata con la famiglia pontificia nella cappella privata. Subito dopo i monsignori Georg Gänswein, segretario particolare di Benedetto XVI, e Alfred Xuereb, della segreteria particolare, si sono recati con le altre Memores all'obitorio del policlinico Umberto i.
Nata il 16 agosto 1954 a San Piero in Bagno di Romagna, aveva lavorato per diversi anni nella segreteria amministrativa di istituzioni scolastiche in Forlì. Entrata nel 1980 nella comunità Memores Domini - che riunisce uomini e donne di Comunione e Liberazione e che nel 1988 è stata riconosciuta dalla Santa Sede come "Associazione ecclesiale privata universale" - Manuela aveva tra l'altro prestato servizio nel vescovado di Tunisi dal 1996 al 2001.
Nella serata di ieri, martedì 23 novembre, Manuela si trovava in compagnia di alcune Memores Domini quando, nei pressi di via Nomentana, è stata investita da un'auto, riportando un gravissimo trauma cranico. Subito soccorsa da un medico, è stata ricoverata al vicino policlinico Umberto i e operata d'urgenza. È spirata alle 5 di stamattina.
Proprio nel libro Luce del mondo, appena pubblicato, il Papa confidando all'intervistatore Peter Seewald alcuni momenti di vita privata, affermava: con la famiglia pontificia, quattro donne della comunità delle Memores Domini e i due segretari, viviamo momenti di distensione e di preghiera; momenti particolarmente importanti nei quali "a partire dal Signore siamo insieme in modo molto intenso".

(©L'Osservatore Romano - 25 novembre 2010)



martedì 23 novembre 2010

LUCE DEL MONDO / UN'ANTOLOGIA


ESCE OGGI IL LIBRO
Benedetto XVI, "Luce del mondo. Il Papa, la Chiesa e i segni dei tempi. Una conversazione con Peter Seewald", Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2010, pp. 284, euro 19,50.
ECCO UNA ANTOLOGIA TRATTA DAL BLOG DI SANDRO MAGISTER


"LUCE DEL MONDO" / UN'ANTOLOGIA   

di Benedetto XVI



La gioia del cristianesimo

Tutta la mia vita è sempre stata attraversata da un filo conduttore, questo: il cristianesimo dà gioia, allarga gli orizzonti. In definitiva un'esistenza vissuta sempre e soltanto "contro" sarebbe insopportabile.

Un mendicante

Per quel che riguarda il papa, anche lui è un povero mendicante davanti a Dio, ancora più degli altri uomini. Naturalmente prego innanzitutto sempre il Signore, al quale sono legato, per così dire, da antica amicizia. Ma invoco anche i santi. Sono molto amico di Agostino, di Bonaventura e di Tommaso d'Aquino. A loro quindi dico: "Aiutatemi"! La Madre di Dio, poi, è sempre e comunque un grande punto di riferimento. In questo senso, mi inserisco nella comunione dei santi. Insieme a loro, rafforzato da loro, parlo poi anche con il Dio buono, soprattutto mendicando, ma anche ringraziando; o contento, semplicemente.

Le difficoltà

L'avevo messo nel conto. Ma innanzitutto bisognerebbe essere molto cauti con la valutazione di un papa, se sia significativo o meno, quando è ancora in vita. Solo in un secondo momento si può riconoscere quale posto, nella storia nel suo insieme, ha una determinata cosa o persona. Ma che l'atmosfera non sarebbe stata sempre gioiosa era evidente in considerazione dell'attuale costellazione mondiale, con tutte le forze di distruzione che ci sono, con tutte le contraddizioni che in essa vivono, con tutte le minacce e gli errori. Se avessi continuato a ricevere soltanto consensi, avrei dovuto chiedermi se stessi veramente annunciando tutto il Vangelo.

Lo shock degli abusi

I fatti non mi hanno colto di sorpresa del tutto. Alla congregazione per la dottrina della fede mi ero occupato dei casi americani; avevo visto montare anche la situazione in Irlanda. Ma le dimensioni comunque furono uno shock enorme. Sin dalla mia elezione al soglio di Pietro avevo ripetutamente incontrato vittime di abusi sessuali. Tre anni e mezzo fa, nell'ottobre 2006, in un discorso ai vescovi irlandesi avevo chiesto loro di "stabilire la verità di ciò che è accaduto in passato, prendere tutte le misure atte ad evitare che si ripeta in futuro, assicurare che i principi di giustizia vengano pienamente rispettati e, soprattutto, guarire le vittime e tutti coloro che sono colpiti da questi crimini abnormi". Vedere il sacerdozio improvvisamente insudiciato in questo modo, e con ciò la stessa Chiesa cattolica, è stato difficile da sopportare. In quel momento era importante però non distogliere lo sguardo dal fatto che nella Chiesa il bene esiste, e non soltanto queste cose terribili.

I media e gli abusi

Era evidente che l'azione dei media non fosse guidata solamente dalla pura ricerca della verità, ma che vi fosse anche un compiacimento a mettere alla berlina la Chiesa e, se possibile, a screditarla. E tuttavia era necessario che fosse chiaro questo: sin tanto che si tratta di portare alla luce la verità, dobbiamo essere riconoscenti. La verità, unita all'amore inteso correttamente, è il valore numero uno. E poi i media non avrebbero potuto dare quei resoconti se nella Chiesa stessa il male non ci fosse stato. Solo perché il male era dentro la Chiesa, gli altri hanno potuto rivolgerlo contro di lei.

Il progresso

Emerge la problematicità del termine "progresso". La modernità ha cercato la propria strada guidata dall'idea di progresso e da quella di libertà. Ma cos'è il progresso? Oggi vediamo che il progresso può essere anche distruttivo. Per questo dobbiamo riflettere sui criteri da adottare affinché il progresso sia veramente progresso.

Un esame di coscienza

Al di là dei singoli piani finanziari, un esame di coscienza globale è assolutamente inevitabile. E a questo la Chiesa ha cercato di contribuire con l'enciclica "Caritas in veritate". Non dà risposte a tutti i problemi. Vuole essere un passo in avanti per guardare le cose da un altro punto di vista,  che non sia soltanto quello della fattibilità e del successo, ma dal punto di vista secondo cui esiste una normatività dell'amore per il prossimo che si orienta alla volontà di Dio e non soltanto ai nostri desideri. In questo senso dovrebbero essere dati degli impulsi perché realmente avvenga una trasformazione delle coscienze.

La vera intolleranza

La vera minaccia di fronte alla quale ci troviamo è che la tolleranza venga abolita in nome della tolleranza stessa. C'è il pericolo che la ragione, la cosiddetta ragione occidentale, sostenga di avere finalmente riconosciuto ciò che è giusto e avanzi così una pretesa di totalità che è nemica della libertà. Credo necessario denunciare con forza questa minaccia. Nessuno è costretto ad essere cristiano. Ma nessuno deve essere costretto a vivere secondo la "nuova religione", come fosse l'unica e vera, vincolante per tutta l'umanità.

Moschee e burqa

I cristiani sono tolleranti ed in quanto tali permettono anche agli altri la loro peculiare comprensione di sé. Ci rallegriamo del fatto che nei paesi del Golfo arabo (Qatar, Abu Dhabi, Dubai, Quwait) ci siano chiese nelle quali i cristiani possono celebrare la messa e speriamo che così accada ovunque. Per questo è naturale che anche da noi i musulmani possano riunirsi in preghiera nelle moschee.

Per quanto riguarda il burqa, non vedo ragione di una proibizione generalizzata. Si dice che alcune donne non lo portino volontariamente ma che in realtà sia una sorta di violenza imposta loro. È chiaro che con questo non si può essere d'accordo. Se però volessero indossarlo volontariamente, non vedo perché glielo si debba impedire.

Cristianesimo e modernità

L'essere cristiano è esso stesso qualcosa di vivo, di moderno, che attraversa, formandola e plasmandola, tutta la modernità, e che quindi in un certo senso veramente la abbraccia. Qui è necessaria una grande lotta spirituale, come ho voluto mostrare con la recente istituzione di un "Pontificio consiglio per la nuova evangelizzazione". È importante che cerchiamo di vivere e di pensare il cristianesimo in modo tale che assuma la modernità buona e giusta, e quindi al contempo si allontani e si distingua da quella che sta diventando una contro-religione.

Ottimismo

Se si osserva con più attenzione – ed è quello che mi è possibile fare grazie alle visite dei vescovi di tutto il mondo  e  anche  ai  tanti  altri  incontri – si  vede che il cristianesimo in questo momento sta sviluppando anche una creatività del tutto nuova [...] La burocrazia è consumata e stanca. Sono iniziative che nascono dal di dentro, dalla gioia dei giovani. Il cristianesimo forse assumerà un volto nuovo,  forse anche un aspetto culturale diverso. Il cristianesimo non determina l'opinione pubblica mondiale, altri ne sono alla guida. E tuttavia il cristianesimo è la forza vitale senza la quale anche le altre cose non potrebbero continuare ad esistere. Perciò, sulla base di quello che vedo e di cui riesco a fare personale esperienza, sono molto ottimista rispetto al fatto che il cristianesimo si trovi di fronte ad una dinamica nuova.

La droga

Tanti vescovi, soprattutto quelli dell'America Latina, mi dicono che là dove passa la strada della coltivazione e del commercio della droga – e questo avviene in gran parte di quei paesi – è come se un animale mostruoso e cattivo stendesse la sua mano su quel paese per rovinare le persone. Credo che questo serpente del commercio e del consumo di droga che avvolge il mondo sia un potere del quale non sempre riusciamo a farci un'idea adeguata. Distrugge i giovani, distrugge le famiglie, porta alla violenza e minaccia il futuro di intere nazioni. Anche questa è una terribile responsabilità dell'Occidente: ha bisogno di droghe e così crea paesi che gli forniscono quello che poi finirà per consumarli e distruggerli. È sorta una fame di felicità che non riesce a saziarsi con quello che c'è; e che poi si rifugia per così dire nel paradiso del diavolo e distrugge completamente l'uomo.

Nella vigna del Signore

In effetti avevo una funzione direttiva, però non avevo fatto nulla da solo e ho lavorato sempre in squadra; proprio come uno dei tanti operai nella vigna del Signore che probabilmente ha fatto del lavoro preparatorio, ma allo stesso tempo è uno che non è fatto per essere il primo e per assumersi la responsabilità di tutto. Ho capito che accanto ai grandi papi devono esserci anche pontefici piccoli che danno il proprio contributo. Così in quel momento ho detto quello che sentivo veramente [...] Il Concilio Vaticano II ci ha insegnato, a ragione, che per la struttura della Chiesa è costitutiva la collegialità; ovvero il fatto che il papa è il primo nella condivisione e non un monarca assoluto che prende decisioni in solitudine e fa tutto da sé.

L'ebraismo

Devo dire che sin dal primo giorno dei miei studi teologici mi è stata in qualche modo chiara la profonda unità fra Antica e Nuova Alleanza, tra le due parti della nostra Sacra Scrittura. Avevo compreso che avremmo potuto leggere il Nuovo Testamento soltanto insieme con ciò che lo ha preceduto, altrimenti non lo avremmo capito. Poi naturalmente quanto è accaduto nel Terzo Reich ci ha colpito come tedeschi e tanto più ci ha spinto a guardare al popolo d'Israele con umiltà, vergogna e amore.

Nella mia formazione teologica queste cose si sono intrecciate ed hanno segnato il percorso del mio pensiero teologico. Dunque era chiaro per me – ed anche qui in assoluta continuità con Giovanni Paolo II – che nel mio annuncio della fede cristiana doveva essere centrale questo nuovo intrecciarsi, amorevole e comprensivo, di Israele e Chiesa, basato sul rispetto del modo di essere di ognuno e della rispettiva missione [...]

Anche nella antica liturgia mi è sembrato necessario un cambiamento. Infatti, la formula era tale da ferire veramente gli ebrei e di certo non esprimeva in modo positivo la grande, profonda unità fra Vecchio e Nuovo Testamento. Per questo motivo ho pensato che nella liturgia antica fosse necessaria una modifica, in particolare in riferimento al nostro rapporto con gli amici ebrei. L'ho modificata in modo tale che vi fosse contenuta la nostra fede, ovvero che Cristo è salvezza per tutti. Che non esistono due vie di salvezza e che dunque Cristo è anche il salvatore degli ebrei, e non solo dei pagani. Ma anche in modo tale che non si pregasse direttamente per la conversione degli ebrei in senso missionario, ma perché il Signore affretti l'ora storica in cui noi tutti saremo uniti. Per questo gli argomenti utilizzati da una serie di teologi polemicamente contro di me sono avventati e non rendono giustizia a quanto fatto.

Pio XII

Pio XII ha fatto tutto il possibile per salvare delle persone. Naturalmente ci si può sempre chiedere: "Perché non ha protestato in maniera più esplicita"? Credo che abbia capito quali sarebbero state le conseguenze di una protesta pubblica. Sappiamo che per questa situazione personalmente ha sofferto molto. Sapeva che in sé avrebbe dovuto parlare, ma la situazione glielo impediva. Ora, persone più ragionevoli ammettono che Pio XII ha salvato molte vite ma sostengono che aveva idee antiquate sugli ebrei e che non era all'altezza del Concilio Vaticano II. Il problema tuttavia non è questo. L'importante è ciò che ha fatto e ciò che ha cercato di fare, e credo che bisogna veramente riconoscere che è stato uno dei grandi giusti e che, come nessun altro, ha salvato tanti e tanti ebrei.

La sessualità

Concentrarsi solo sul profilattico vuol dire banalizzare la sessualità, e questa banalizzazione rappresenta proprio la pericolosa ragione per cui tante e tante persone nella sessualità non vedono più l'espressione del loro amore, ma soltanto una sorta di droga, che si somministrano da sé. Perciò anche la lotta contro la banalizzazione della sessualità è parte del grande sforzo affinché la sessualità venga valutata positivamente e possa esercitare il suo effetto positivo sull'essere umano nella sua totalità. Vi possono essere singoli casi giustificati, ad esempio quando un prostituto [ein Prostituierter] utilizza un profilattico, e questo può essere il primo passo verso una moralizzazione, un primo atto di responsabilità per sviluppare di nuovo la consapevolezza del fatto che non tutto è permesso e che non si può far tutto ciò che si vuole. Tuttavia, questo non è il modo vero e proprio per vincere l'infezione dell'HIV. È veramente necessaria una umanizzazione della sessualità.

La Chiesa

Paolo dunque non intendeva la Chiesa come istituzione, come organizzazione, ma come organismo vivente, nel quale tutti operano l'uno per l'altro e l'uno con l'altro, essendo uniti a partire da Cristo. È un'immagine, ma un'immagine che conduce in profondità e che è molto realistica anche solo per il fatto che noi crediamo che nell'eucaristia veramente riceviamo Cristo, il Risorto. E se ognuno riceve il medesimo Cristo, allora veramente noi tutti siamo riuniti in questo nuovo corpo risorto come il grande spazio di una nuova umanità. È importante capire questo, e dunque intendere la Chiesa non come un apparato che deve fare di tutto – pure l'apparato le appartiene, ma entro dei limiti – bensì come organismo vivente che proviene da Cristo stesso.

L'enciclica "Humanae vitae"

Le prospettive della "Humanae vitae" restano valide, ma altra cosa è trovare strade umanamente percorribili. Credo che ci saranno sempre delle minoranze intimamente persuase della giustezza di quelle prospettive e che, vivendole, ne rimarranno pienamente appagate così da diventare per altri affascinante modello da seguire. Siamo peccatori. Ma non dovremmo assumere questo fatto come istanza contro la verità, quando cioè quella morale alta non viene vissuta. Dovremmo cercare di fare tutto il bene possibile, e sorreggerci e sopportarci a vicenda. Esprimere tutto questo anche dal punto di vista pastorale, teologico e concettuale nel contesto dell'attuale sessuologia e ricerca antropologica è un grande compito al quale bisogna dedicarsi di più e meglio.

Le donne

La formulazione di Giovanni Paolo II è molto importante: "La Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l'ordinazione sacerdotale". Non si tratta di non volere ma di non potere. Il Signore ha dato una forma alla Chiesa con i Dodici e poi con la loro successione, con i vescovi ed i presbiteri (i sacerdoti). Non siamo stati noi a creare questa forma della Chiesa, bensì è costitutiva a partire da lui. Seguirla è un atto di obbedienza, nella situazione odierna forse uno degli atti di obbedienza più gravosi. Ma proprio questo è importante, che la Chiesa mostri di non essere un regime dell'arbitrio. Non possiamo fare quello che vogliamo. C'è invece una volontà del Signore per noi, alla quale ci atteniamo, anche se questo è faticoso e difficile nella cultura e nella civiltà di oggi. Tra l'altro, le funzioni affidate alle donne nella Chiesa sono talmente grandi e significative che non può parlarsi di discriminazione. Sarebbe così se il sacerdozio fosse una specie di dominio, mentre al contrario deve essere completamente servizio. Se si dà uno sguardo alla storia della Chiesa, allora ci si accorge che il significato delle donne – da Maria a Monica sino a Madre Teresa – è talmente eminente che per molti versi le donne definiscono il volto della Chiesa più degli uomini.

I novissimi

È una questione molto seria. La nostra predicazione, il nostro annunzio effettivamente è ampiamente orientato, in modo unilaterale, alla creazione di un mondo migliore, mentre il mondo realmente migliore quasi non è più menzionato. Qui dobbiamo fare un esame di coscienza. Certo, si cerca di venire incontro all'uditorio, di dire loro quello che è nel loro orizzonte. Ma il nostro compito è allo stesso tempo sfondare quest'orizzonte, ampliarlo, e di guardare alle cose ultime. I novissimi sono come pane duro per gli uomini di oggi. Appaiono loro irreali. Vorrebbero al loro posto risposte concrete per l'oggi, soluzioni per le tribolazioni quotidiane. Ma sono risposte che restano a metà se non permettono anche di presentire e riconoscere che io mi estendo oltre questa vita materiale, che c'è il giudizio, e che c'è la grazia e l'eternità. In questo senso dobbiamo anche trovare parole e modi nuovi, per permettere all'uomo di sfondare il muro del suono del finito.

La venuta di Cristo

È importante che ogni epoca stia presso il Signore. Che anche noi stessi, qui ed ora, siamo sotto il giudizio del Signore e ci lasciamo giudicare dal suo tribunale. Si discuteva di una duplice venuta di Cristo, una a Betlemme ed una alla fine dei tempi, sino a quando san Bernardo di Chiaravalle parlò di un "Adventus medius", di una venuta intermedia, attraverso la quale sempre egli periodicamente entra nella storia. Credo che abbia preso la tonalità giusta. Noi non possiamo stabilire quando il mondo finirà. Cristo stesso dice che nessuno lo sa, nemmeno il Figlio. Dobbiamo però rimanere per così dire sempre presso la sua venuta, e soprattutto essere certi che, nelle pene, egli è vicino. Allo stesso tempo dovremmo sapere che per le nostre azioni siamo sotto il suo giudizio.

L'INGANNO CULTURALE DI FAZIO E SAVIANO

PANDOLFI CORRADI E SOCCI



C’è un inganno culturale dietro i discorsi di questi giorni su Fazio, Saviano, malati, disabili, Welby ed Englaro, vero o presunto fine vita, par condicio.
Già, la par condicio. Adesso sembra quasi che il problema vero sia quello di bilanciare l’imbarazzante e vergognoso spot pro eutanasia lanciato lunedì scorso da Fazio e Saviano con la presenza in studio, a ‘Vieni via con me’, di persone malate o disabili che la pensino diversamente da Fazio, Saviano, Mina Welby o Beppino Englaro.
Come dire: loro credono che sia giusto fare A, sentiamo anche chi vuole fare B. Cioè: si mettono sullo stesso piano A e B, la morte e la vita. E’ l’apoteosi della deriva nichilistica, è la vittoria dei cultori (anche in buona fede, per carità) della morte: non esiste una verità, esistono solo le opinioni, tutte rispettabili. Invece no, una verità c’è.
E non lo scrivo da presuntuoso e intollerante ‘ultra’ della vita. Lo scrivo da povero e dubbioso mendicante che ogni giorno, di fronte al mistero di due occhi che possono chiedere aiuto, pietà, compassione e condivisione, compagnia e misericordia, non sa quasi mai cosa fare, come comportarsi, Ma prova a starci dentro quel mistero, non si tappa gli occhi, prova a viverlo quel mistero.
Ecco, lo scrivo: hanno torto marcio Fazio, Saviano, Mina Welby ed Englaro. E’ un fatto, non un’opinione. Non vanno soltanto bilanciate le loro dichiarazioni pro eutanasia. Vanno cancellate, dall’umanità che c’è in ogni essere umano, nel mio cuore e nel tuo che leggi, confusi e un po’ smarriti di fronte a questa ideologia che fa sembrare buono ciò che buono non è. Perché se un malato o un disabile grave (mettiamo Pier Giorgio Welby ed Eluana Englaro, con i rispettivi familiari) a un certo punto non ce la fa più, dice che non ha più senso vivere così, vuole farla finita, chiede che lo Stato consenta loro di farla finita, anzi metta pure un timbro di legalità su questa sua volontà, la risposta vera di una società civile, la risposta vera di un uomo, la risposta vera di ognuno di noi, è semplice: dobbiamo cercare di aiutare chi non ce la fa più, trovare la maniera di dar a lui un senso, un significato a un’esistenza che ad un certo punto sembra solo piena di nebbia, inutile.
Dobbiamo restituirgli il sole, non diventare i notai di una volontà, quasi che l’uomo, quasi che ognuno di noi, sia sempre certo di tutto e di tutti e non ci sia mai consentito cambiare idea. Cambiare idea perché qualcuno sta con noi, ci sorride, ci accarezza, oppure piange, oppure… chissà perché ma la vita è fatta così: si cambia idea. Questa è una testimonianza ragionevole che può e deve fare chiunque, non soltanto un prete.
Non è questa una partita fra preti e laici. E’ una partita fra uomini.
Perché se tanti testimoni (e allora sì che in questa ottica è giusto dar voce a loro: non come contraltari, ma come testimoni, appunto!) dimostrano che si può vivere ed essere felici anche in situazioni estreme, ecco dobbiamo partire da loro per contagiare tutti, col sorriso fra le labbra, senza puntare l’indice contro nessuno, ma sporcandoci le mani alla ricerca di una chiave che può restituire a chiunque (sì, a chiunque!) il gusto della vita. Anche se sei attaccato a un respiratore 24 ore su 24, anche se non parli più, anche se sei paralizzato, anche se mi guardi negli occhi e sei un Mistero. Un uomo è fatto così.
di Massimo Pandolfi
Tratto dal sito Cultura Cattolica.it il 21 novembre 2010

Leggi anche:
Socci lettera a Saviano
Marina Corradi "Lo Scandalo e i Tabù"

venerdì 19 novembre 2010

AD HOC 47/2010 (199)


PERCHÉ IL DIALOGO E LA COMUNICAZIONE SIANO EFFICACI

BENEDETTO XVI: UDIENZA AI PARTECIPANTI ALLA PLENARIA DEL PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA CULTURA, 13.11.2010

(…) Pastori e i fedeli avvertono con preoccupazione alcune difficoltà nella comunicazione del messaggio evangelico e nella trasmissione della fede, all’interno della stessa comunità ecclesiale. Come ho scritto nell’Esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini: “tanti cristiani hanno bisogno che sia loro riannunciata in modo persuasivo la Parola di Dio, così da poter sperimentare concretamente la forza del Vangelo” (n. 96). (…)

L’incapacità del linguaggio di comunicare il senso profondo e la bellezza dell’esperienza di fede può contribuire all’indifferenza di tanti, soprattutto giovani; può diventare motivo di allontanamento, come affermava già la Costituzione Gaudium et spes, rilevando che una presentazione inadeguata del messaggio nasconde più che manifestare il genuino volto di Dio e della religione (cfr n. 19).  La Chiesa vuole dialogare con tutti, nella ricerca della verità; ma perché il dialogo e la comunicazione siano efficaci e fecondi è necessario sintonizzarsi su una medesima frequenza, in ambiti di incontro amichevole e sincero (…).

Oggi non pochi giovani, storditi dalle infinite possibilità offerte dalle reti informatiche o da altre tecnologie, stabiliscono forme di comunicazione che non contribuiscono alla crescita in umanità, ma rischiano anzi di aumentare il senso di solitudine e di spaesamento.

Dinanzi a tali fenomeni, ho parlato più volte di emergenza educativa, una sfida a cui si può e si deve rispondere con intelligenza creativa, impegnandosi a promuovere una comunicazione umanizzante, che stimoli il senso critico e la capacità di valutazione e di discernimento. Anche nell’odierna cultura tecnologica, è il paradigma permanente dell’inculturazione del Vangelo a fare da guida, purificando, sanando ed elevando gli elementi migliori dei nuovi linguaggi e delle nuove forme di comunicazione. Per questo compito, difficile e affascinante, la Chiesa può attingere allo straordinario patrimonio di simboli, immagini, riti e gesti della sua tradizione.

In particolare il ricco e denso simbolismo della liturgia deve splendere in tutta la sua forza come elemento comunicativo, fino a toccare profondamente la coscienza umana, il cuore e l’intelletto. La tradizione cristiana, poi, ha sempre strettamente collegato alla liturgia il linguaggio dell’arte, la cui bellezza ha una sua particolare forza comunicativa. (…)

Tuttavia, più incisiva ancora dell’arte e dell’immagine nella comunicazione del messaggio evangelico è la bellezza della vita cristiana. Alla fine, solo l’amore è degno di fede e risulta credibile. La vita dei santi, dei martiri, mostra una singolare bellezza che affascina e attira, perché una vita cristiana vissuta in pienezza parla senza parole. Abbiamo bisogno di uomini e donne che parlino con la loro vita, che sappiano comunicare il Vangelo, con chiarezza e coraggio, con la trasparenza delle azioni, con la passione gioiosa della carità.

LA PROPAGANDA EUTANASICA


Un salotto privato dal quale diffondere e inculcare quelli che ritiene «valori» e «princìpi di civiltà» ma che per la gran parte degli italiani sono disvalori gravissimi
di Lucia Bellaspiga
da Avvenire del 17 novembre 2010
Se a parlare è Roberto Saviano, le «orazioni» sono «civili» e i monologhi «potentissimi»: lo asseriscono i comunicati di Rai 3 e tutte le agenzie di stampa devotamente rimbalzano. E chi oserebbe dissentire? Nemmeno chi non ha mai letto una sola riga di Saviano se la sentirebbe più di mettere in dubbio le sue verità assolute: perché Saviano è Saviano, un po’ come Sanremo. E così, di guru in guru, se un Saviano e un Fazio uniscono le sapienze, il risultato non può che essere indiscutibile.
La tecnica è antichissima, valida ai tempi delle Catilinarie come a quelli del tivucolor: se passa l’assunto che l’oratore non solo non può mentire ma nemmeno sbagliare, ciò che dice è sempre «indiscutibilmente» vero e chiunque lo metta in dubbio sarà esposto al pubblico ludibrio. Raggiunto tale risultato, non sarà più nemmeno necessario fingere di rispettare le regole minime del dibattito e della ricerca di una verità: largo ai tribuni e ai loro monologhi, senza mai un contraddittorio. E il pubblico (del foro come del piccolo schermo) si berrà tutto come vero: «L’ha detto la tivù!».
Anche la Rai di Fabio Fazio è (o dovrebbe essere) servizio pubblico, anche la sua è pagata da tutti gli italiani (almeno quelli che versano il canone), eppure l’uso che ne fa, in compagnia dei suoi ospiti, è di un salotto privato dal quale diffondere e inculcare quelli che ritiene «valori» e «princìpi di civiltà» (è suo diritto), ma che per la gran parte degli italiani sono disvalori gravissimi (e tener conto di questo è invece suo preciso dovere).
Anche l’altra sera, com’è suo costume, la tribuna l’ha quindi concessa, senza contraddittorio alcuno, oltre che a Saviano anche a Beppino Englaro e a Mina Welby, chiamati a recitare ognuno il suo 'elenco' di verità inoppugnabili. Nessuno toglie loro il diritto di avere certezze e convinzioni, più o meno fondate, ma nessuno può nemmeno imporle a noi come fossero Vangelo, eppure questo è stato fatto ancora una volta ai milioni di telespettatori seduti davanti a 'Vieni via con me'.
Togliere la vita a Eluana è stata cosa buona e giusta? Basta che lo dicano Fazio, e Saviano, ed Englaro che è pure suo padre (come potrebbe sbagliare?), non occorre ascoltare con onestà intellettuale le voci opposte. Nessuno spazio alla sacralità della vita e al rifiuto di una pratica spaventosa come l’eutanasia, sebbene questa agiti ancora nella nostra coscienza memorie recenti e colpe incancellabili, e nel nostro Paese sia un reato punito alla stregua di un omicidio.
Si gioca con le parole, si evita accuratamente di pronunciare il termine 'eutanasia' (salvo invocarla in altre sedi e occasioni), la si sostituisce con «principio di diritto sancito dalla Cassazione in seguito alla vicenda Englaro». Non si dice, però, che dal giorno in cui la Cassazione stessa spianò la strada all’eutanasia di Eluana, e quindi di chiunque volesse seguire le orme di quel padre, nessuno lo ha fatto.
Né si racconta la verità su Eluana, perché farlo lascerebbe attoniti gli italiani, ancora convinti che fosse malata, che fosse terminale, che vivesse attaccata a macchine, che soffrisse, e magari pure che la sua volontà fosse morire. E come mai ne sono convinti? Lo raccontarono all’epoca i Saviano e i Fazio... Di una Eluana condannata a «farsi tenere in vita per decenni dalle macchine» scrisse Saviano nel febbraio 2009, alimentando l’errore (speriamo in buona fede, forse non conosceva la materia); di lei parlò come di un «viso deformato, smunto, gonfio, le orecchie callose» e addirittura «senza capelli» (di nuovo lo giustifichiamo: a differenza nostra, la descriveva senza averla vista). E Fazio?
Prima e dopo la morte della giovane invitò Englaro nel suo salotto privato di Rai 3, senza confronto, senza dibattito.
Eluana fu spenta il 9 febbraio 2009, il 21 febbraio Fazio in diretta abbracciava Englaro: «Grazie a nome di tutti gli italiani per ciò che ha fatto». Di tutti gli italiani. È questo il suo stile, questo il giornalismo dei Fazio e dei Saviano. «Il giornalista non deve omettere fatti o dettagli essenziali alla completa ricostruzione dell’avvenimento. Non deve intervenire sulla realtà per creare immagini artificiose» (Carta dei doveri del giornalista, 8 luglio 1993).

mercoledì 17 novembre 2010

FAZIO E SAVIANO RETORICA E GAIO NICHILISMO


Un altro bel risultato per il dg Mauro Masi, ineffabilmente e pervicacemente intento ad abbaiare alla luna, come il coyote spelacchiato dei cartoni animati. Ha intimato alla banda Fazio-Saviano di rispettare la par condicio senza che ce ne fossero gli estremi formali, e questi se ne sono fatti ovviamente un baffo.

Ma il problema non è stata certamente la presenza di Fini e Bersani, i cui interventi hanno costituito uno dei momenti più mosci dello spettacolo. Il problema è consistito piuttosto nella glorificazione del relativismo etico come di una religione laica che va difesa e proclamata in tv con la voce tremante con la convinzione di svolgere un grande compito di impegno civile e realizzare a un tempo la vera missione del servizio pubblico.

Sommo sacerdote del relativismo televisivo era Fabio Fazio, che ha accarezzato, abbracciato, baciato, benedetto i suoi correligionari, celando spesso a fatica un mezzo ghigno mascherato da mezzo sorriso mentre pensava: “Tiè! Ora beccatevi questa…”.

A inizio trasmissione si mangia in un sol boccone Masi facendo l’elenco dei segretari di partito che, se fossero una tribuna politica, dovrebbero invitare; e cita i rappresentanti di oltre settanta sigle, mentre lui, poverino, ha davanti solo due puntate…

Così si autoassolve: per far rappresentare i valori di sinistra invita Bersani e per i valori di destra Fini, mentre il centrodestra - che secondo lui valori non ne ha - viene rappresentato da Cetto La Qualunque (il sempre bravo Albanese) che interpreta il solito politico amante delle furbizie e delle maggiorate…e chi ha orecchio per intendere…

Sicché questa non sarebbe una trasmissione politica, ma un programma di approfondimento culturale, come soavemente sostiene l’ineffabile capostruttura di Raitre Loris Mazzetti? Per la verità loro in Rai hanno sempre comandato, anche aiutati dagli editti bulgari (così hanno potuto “chiagnere e fottere”). E ieri sera hanno fatto capire che si possono permettere qualsiasi cosa. Anche la fiera delle più assolute banalità servite sull’altare della dignità televisiva da campioni del moralismo di sinistra come Michele Serra e Bersani. “La sinistra è l’idea che se guardi il mondo con gli occhi dei più deboli puoi fare davvero un mondo migliore per tutti”. “L’economia non gira se pochi hanno troppo e troppi hanno poco”. “Chi si ritiene progressista deve tenere vivo il sogno di un mondo in pace, senza odio e violenza, combattere contro la pena di morte e ogni sopraffazione, contro l’aggressività che ci abita dentro, quella del più forte sul più debole”. Ma no, ma davvero?

Ma Fini non è da meno: “L’Italia che ha fiducia nel futuro perché ha fiducia in se stessa”. “Essere di destra vuol dire innanzi tutto amare l’Italia, avere fiducia negli italiani, nella loro capacità di sacrificarsi, lavorare onestamente e pensare al futuro dei figli, essere solidali e generosi”. Ah però! Seguono una quantità di altri elenchi e di altri ospiti, tutti a base di ovvie banalità, mezze verità, ma tutto rivenduto come vibrante testimonianza al valor civile. (dal sussidiario.net)


martedì 16 novembre 2010

BIFFFI . L'IDEOLOGIA DELL'OMOSESSUALITÀ

Tra due giorni uscirà nelle librerie italiane la nuova edizione ampliata delle memorie del cardinale Giacomo Biffi, 82 anni, milanese, arcivescovo di Bologna dal 1984 al 2003.

La prima edizione del libro, uscita nel 2007, ebbe una forte risonanza. Nella Quaresima di quello stesso anno Benedetto XVI aveva chiamato Biffi a predicare gli esercizi spirituali in Vaticano.

Di quel primo volume colpirono i giudizi con cui il cardinale criticava l'ingenuità di Giovanni XXIII, i frutti negativi del Concilio Vaticano II, i silenzi sul comunismo, i "mea culpa" di Giovanni Paolo II, e tante altre cose ancora.

Anche questa nuova edizione farà sicuramente rumore. Nel ripercorrere la sua vita, Biffi ha aggiunto nuovi capitoli e nuove riflessioni. Sempre col suo stile pungente, ironico, anticonformista.

Le pagine in più sono un centinaio, delle quali sono anticipati più sotto tre brani: sulle aberrazioni del dopoconcilio, sulla Chiesa e gli ebrei, sull'ideologia dell'omosessualità.

Ecco una anteprima


L'IDEOLOGIA DELL'OMOSESSUALITÀ

Riguardo al problema oggi emergente dell’omosessualità, la concezione cristiana ci dice che bisogna sempre distinguere il rispetto dovuto alle persone, che comporta il rifiuto di ogni loro emarginazione sociale e politica (salva la natura inderogabile della realtà matrimoniale e familiare), dal rifiuto di ogni esaltata “ideologia dell’omosessualità”, che è doveroso.

La parola di Dio, come la conosciamo in una pagina della lettera ai Romani dell’apostolo Paolo, ci offre anzi un’interpretazione teologica del fenomeno della dilagante aberrazione culturale in questa materia: tale aberrazione – afferma il testo sacro – è al tempo stesso la prova e il risultato dell’esclusione di Dio dall’attenzione collettiva e dalla vita sociale, e della renitenza a dargli la gloria che gli spetta (cfr. Romani 1, 21).

L’estromissione del Creatore determina un deragliamento universale della ragione: "Si sono perduti nei loro vani ragionamenti e la loro mente ottusa si è ottenebrata. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti" (Romani 1, 21-22). In conseguenza di questo accecamento intellettuale, si è verificata la caduta comportamentale e teorica nella più completa dissolutezza: "Perciò Dio li ha abbandonati all’impurità secondo i desideri del loro cuore, tanto da disonorare fra loro i propri corpi" (Romani 1, 24).

E a prevenire ogni equivoco e ogni lettura accomodante, l’apostolo prosegue in un’analisi impressionante, formulata con termini del tutto espliciti:

"Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami; infatti le loro femmine hanno cambiato i rapporti naturali in quelli contro natura. Egualmente anche i maschi, lasciando il rapporto naturale con la femmina, si sono accesi di desiderio gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi maschi con maschi, ricevendo cos. in se stessi la retribuzione dovuta al loro traviamento. E poiché non ritennero di dover conoscere Dio adeguatamente, Dio li ha abbandonati alla loro intelligenza depravata ed essi hanno commesso azioni indegne" (Romani 1, 26-28).

Infine san Paolo si premura di osservare che l’abiezione estrema si ha quando “gli autori di tali cose… non solo le commettono, ma anche approvano chi le fa” (cfr. Romani 1, 32).

È una pagina del libro ispirato, che nessuna autorità terrena può costringerci a censurare. E neppure ci è consentita, se vogliamo essere fedeli alla parola di Dio, la pusillanimità di passarla sotto silenzio per la preoccupazione di apparire non “politicamente corretti”.

Dobbiamo anzi far notare il singolare interesse per i nostri giorni di questo insegnamento della Rivelazione: ciò che san Paolo rilevava come avvenuto nel mondo greco-romano, si dimostra profeticamente corrispondente a ciò che si è verificato nella cultura occidentale in questi ultimi secoli. L’estromissione del Creatore – fino a proclamare grottescamente, qualche decennio fa, la “morte di Dio” – ha avuto come conseguenza (e quasi come intrinseca punizione) un dilagare di una visione sessuale aberrante, ignota (nella sua arroganza) alle epoche precedenti.

L’ideologia dell’omosessualità – come spesso capita alle ideologie quando si fanno aggressive e arrivano a essere politicamente vincenti – diventa un’insidia alla nostra legittima autonomia di pensiero: chi non la condivide rischia la condanna a una specie di emarginazione culturale e sociale.

Gli attentati alla libertà di giudizio cominciano dal linguaggio. Chi non si rassegna ad accogliere la “omofilia” (cioè l’apprezzamento teorico dei rapporti omosessuali), viene imputato di “omofobia” (etimologicamente la “paura dell’omosessualità). Deve essere ben chiaro: chi è reso forte dalla luce della parola ispirata e vive nel “timore di Dio”, non ha paura di niente, se non della stupidità nei confronti della quale, diceva Bonhoeffer, siamo senza difesa. Adesso si leva talvolta contro di noi addirittura l’accusa incredibilmente arbitraria di “razzismo”: un vocabolo che, tra l’altro, non ha niente a che vedere con questa problematica; e in ogni caso è del tutto estraneo alla nostra dottrina e alla nostra storia.

Il problema sostanziale che si profila è questo: è ancora consentito ai nostri giorni essere discepoli fedeli e coerenti dell’insegnamento di Cristo (che da millenni ha ispirato e arricchito l’intera civiltà occidentale), o dobbiamo prepararci a una nuova forma di persecuzione, promossa dagli omosessuali faziosi, dai loro complici ideologici e anche da coloro che avrebbero il compito di difendere la libertà intellettuale di tutti, perfino dei cristiani?

Una domanda rivolgiamo in particolare ai teologi, ai biblisti e ai pastoralisti. Perché mai in questo clima di esaltazione quasi ossessiva della Sacra Scrittura il passo paolino di Romani 1, 21-32 non è mai citato da nessuno? Come mai non ci si preoccupa un po’ di più di farlo conoscere ai credenti e ai non credenti, nonostante la sua evidente attualità?
(pp. 609-612)

IL MORALISMO DELLA BINDI

RENATO FARINA SU "TEMPI"

Il moralismo della Bindi è un virus che uccide i peccatori, cioè tutti
Rosy e Silvio (e Nichi)
di Renato Farina
Se uno attacca il moralismo, subito si pensa in giro, e lo si dice pure, che costui mette tra parentesi la morale. È vero il contrario. Il moralismo sta alla morale come la polmonite ai polmoni. Li infiamma, li soffoca, impedisce di respirare. Allo stesso modo il moralismo non difende la morale, come vorrebbero far credere i moralisti, ma la trasforma in arma immorale per uccidere il prossimo e aggiunge un’altra palata di male (chiamiamolo così) a quello che già domina il mondo.

Il caso è quello ovvio: Berlusconi. Non c’è in questo periodo uno, specie se cattolico, che possa sottrarsi a questa compiaciuta domanda: come fai a essere berlusconiano, se poi lui eccetera? Ho un sacco di risposte a questa domanda. Ma vorrei prima soffermarmi su chi la pone e come. E ho in mente un caso visto in tivù: Rosy Bindi che cerca di mettere in difficoltà Maurizio Lupi. Giovanni Floris li ha chiamati a Ballarò apposta: due noti cattolici. Una che difende la morale, l’altro che è costretto a sostenere Indovina-chi. La Bindi a un certo punto domanda a Lupi: «Ma tu in privato glielo dici a Berlusconi? Che cosa gli dici?». Sembra una domanda fatta apposta per incastrare la persona. L’idea che ha in mente la Bindi è di sorprendere un Lupi che: o tace e dunque acconsente a una vita libertina; oppure lo rimprovera, ma non viene ascoltato, e dunque è un perdente lui e un impunito B.
Io penso che l’immoralità consista invece proprio in questa domanda. La quale ha una violenza bestiale. L’intimità non è solo quella che si pratica sotto le lenzuola. L’amicizia e l’affetto hanno sfere inviolabili. Lupi ha risposto benissimo: si vedeva che vuol bene a Berlusconi, ha detto che lui è se stesso sempre, testimonia quello che dà senso alla sua vita. Ed egli vede in B. la tensione all’ideale. Lupi non ha violato il segreto di qualcosa che appartiene al novero delle cose che non si trascinano in piazza.

Poi Lupi ha chiesto se mai nessuno tra i presenti al dibattito avesse telefonato a un carabiniere, a qualcuno in alto per aiutare una persona in difficoltà. Tutti hanno fatto gli ipocriti, la Bindi, Italo Bocchino: noi?-Mai…-Noi-pensiamo-alla-collettività,-non-ad-aiutare-una-Ruby-che-è-in-questura-o-Giuseppino-che-è-in-sala-d’attesa-e-sta-male… Spero che non sia vero, che sia stata pura ipocrisia. Ma moralismo è questo: amare il popolo in teoria, in pratica detestare la popolazione. Non vedere che il bisogno del paese è sì misurato dalle statistiche ma ha anche la voce singhiozzante di uno che ti telefona disperato. E fare qualcosa, quello che si può.

Invece questi moralisti dipingono un mondo dove non esiste pietà, non esiste altro che la regola. Un mondo di regole. Io penso che la morale sia quella che ho imparato: tendere all’ideale, servire e rispondere al bisogno che si incontra. Morale è non sentirsi in nulla migliore o meno peccatore di nessun altro. Non giudicare il prossimo e nemmeno se stessi. Di certo, non va assolutamente bene – come fanno alcuni – chiedere il consenso o vantare il libertinismo come modello di vita. Ma io preferisco Carlo Magno e avrei combattuto per lui, pur avendo egli avuto una decina di concubine, mentre il suo rivale era astemio e molto casto. Aveva dalla sua i fatti, Carlo Magno: con i suoi difetti, le sue debolezze (anche se lui se ne vantava), ha permesso la costruzione di un’Europa cristiana.

A proposito. Ecco una cosa che non chiederò a Rosy Bindi: ma lei che cosa dice a Nichi Vendola in privato ma anche in pubblico? Gli dice che la convivenza more uxorio con un uomo è – secondo la morale cristiana – incoerente e pure un cattivo esempio? O dirlo sarebbe omofobia?

 11 Novembre 2010

domenica 14 novembre 2010

FINI NON CONVINCE AVVENIRE

FINI: Non voglio parificare matrimonio e unioni ma far incontrare le diverse etiche
Caro Direttore,
ho letto con attenzione la risposta con cui lei ha condiviso, dalle pagine del suo giornale, il contenuto di una breve lettera, a firma di Fabio Russo, che (lo dico senza alcuna vena polemica) denota la mancanza di una piena conoscenza di quanto da me affermato domenica scorsa a Bastia Umbra, a proposito della necessità di tutelare la dignità di qualsiasi persona, prescindendo da distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche e di condizioni personali e sociali.


Mi dispiace, pertanto, che non si sia voluto cogliere nel mio intervento tutto lo sforzo, che da molto tempo compio, per far maturare nell’opinione pubblica quel sentimento di umana disponibilità nei confronti di tutti coloro, italiani e stranieri, che versano in situazioni di forte disagio causato dall’assenza di adeguate politiche di integrazione e di difesa dei diritti.

Al riguardo, sono convinto che il rapido mutamento della struttura delle nostre società, e più in generale delle società occidentali, accelerato da fenomeni epocali, quali soprattutto la globalizzazione e l’immigrazione, deve indurre tutti ad una profonda riflessione sui valori fondanti e sullo stesso sistema di relazioni che collega tra loro i cittadini e i gruppi sociali.

E’ in questo contesto che si colloca peraltro il tema democratico, e centrale nel dibattito politico, dell’inclusione dei nuovi diritti che scaturiscono da reali situazioni di fatto e che non possono essere disconosciuti a priori se si mantengono aperti i luoghi del dialogo e del confronto.

Da uomo politico e delle istituzioni ho sempre riconosciuto il valore fondante della famiglia, così come garantita dall’articolo 29 della Costituzione, e mi sono sempre opposto ad ogni ipotesi di parificazione di trattamento tra matrimonio e unioni di fatto, specie di quelle omosessuali. Ma non per questo ritengo giusto, di fronte all’insufficienza di forme ed istituti giuridici, ignorare alcune legittime esigenze che meritano di essere prese in considerazione dal nostro ordinamento in virtù di quella idea di “laicità positiva” intesa come punto di incontro tra diverse concezioni etiche presenti nella società.
Del resto, compito dello Stato di diritto è quello di favorire approdi normativi lungimiranti basati sull’unico criterio possibile da adottare, vale a dire quello della “ragionevolezza” delle leggi e della tutela dei diritti dei cittadini.

Questo, a mio avviso, è l’unico antidoto per debellare ogni pericolosa e strisciante forma di indifferenza umana e sociale che tende a minare la convivenza civile. 
Da questo punto di vista, sono profondamente convinto che il nostro Paese sia molto più avanti, in termini di scelte e di orientamenti culturali, di quanto, talvolta, non lo sia la classe politica italiana troppo spesso dilaniata da odiose ed improduttive contrapposizioni di “schmittiana” memoria.
Non credo, quindi, che un invito alla riflessione sulla necessità di impedire l’emarginazione delle differenze possa essere liquidato come un qualcosa di strutturalmente ed ideologicamente vecchio.
Al contrario, ritengo che l’idea di giungere ad una nuova “dimensione etica e morale” della società possa essere perseguita con il contributo fattivo ed intelligente di tutti i grandi “attori” che operano nel nostro territorio, a cominciare dalla Chiesa cattolica che, per ragioni storiche e per la sua forte e radicata presenza, rappresenta un autentico caposaldo nella cultura della solidarietà e della giustizia sociale.
Gianfranco Fini

La risposta del direttore di Avvenire a Fini
TARQUINIO: Parole non convincenti ma utili
Caro Presidente,
dopo aver letto con grande attenzione il discorso da lei tenuto domenica scorsa a Bastia Umbra, ho letto con altrettanta attenzione le messe a punto contenute nella lettera, che ha avuto la cortesia di inviarmi e che volentieri pubblichiamo qui sopra.

Avevo, allora, preso buona nota non solo delle significative e condivisibili affermazioni da lei fatte sulle situazioni di disagio riguardanti cittadini italiani e stranieri immigrati in Italia, ma anche delle rischiose argomentazioni (e proiezioni programmatiche) a proposito di novazioni ordinamentali in materia familiare. Su queste ultime – oltre che su certo “ronzio radicaleggiante”, su ben note vicende parlamentari e su alcune sconcertanti accentuazioni anticlericali che hanno accompagnato la gestazione e la nascita del suo partito – mi sono soffermato martedì scorso (e nel frattempo ho dovuto registrare che uno dei più alacri laicisti di Fli, l’onorevole Della Vedova, si è addirittura fatto dipingere sul primo quotidiano italiano come un cattolico doc…). 

Oggi devo prendere atto di altre importanti affermazioni, in particolare del passaggio in cui lei esclude «ogni ipotesi di parificazione di trattamento tra matrimonio e unioni di fatto, specie di quelle omosessuali», e di alcune sorprendenti interpretazioni (su cui non qui non mi soffermo). Ma devo soprattutto sottolineare che lei torna a parlare della «insufficienza di forme e istituti giuridici» in materia familiare, evocandone una pluralità che sia specchio di «diverse concezioni etiche». Temo che la strada sia scivolosa e rischi di finire da un lato nel burrone giuridico dei «matrimoni di serie b» (pacs e dintorni) e dall’altro di sfiorare quello  dei «matrimoni a tempo» pure giustificati da qualche etica per noi esotica (nonché dai fautori del divorzio–lampo alla Zapatero). Mi auguro che non sia così, ma questo s’intravvede. Ed è abbastanza.


E, per quanto ci riguarda, su un punto così decisivo non può darsi uno «Stato neutrale». 
Si chiedeva, proprio lunedì scorso il presidente della Cei, cardinal Bagnasco: «Se uno Stato, in nome di un’ipotetica neutralità o di altri pregiudizi, non si allarmasse a fronte di un prosciugamento dei presupposti etico–culturali cui deve invece attingere se vuole prosperare, come potrà rispondere con solidarietà e giustizia a situazioni e sfide emergenti?». Trovo che questa sia una delle domande–chiave nel tempo che viviamo. E nella sua cortese e utile lettera, per la quale la ringrazio, onorevole presidente Fini, non c’è purtroppo una risposta convincente e chiara.
Marco Tarquinio
Come sa, gentile presidente Fini, e come sanno assai bene (e affermano) anche non pochi parlamentari a lei vicini, l’idea di famiglia che i cattolici – ma non solo i cattolici – considerano un valore non negoziabile è quella naturale, fondata sul matrimonio di un uomo e una donna e aperta ai figli. Questo è un bene civile (sul sacramento le norme dello Stato non intervengono di certo) da «ragionevolmente» preservare, fonte di duratura solidarietà interpersonale e di tenuta nella rete delle relazioni sociali. Su questo uno Stato dovrebbe puntare e investire. Per questo fare leggi.

venerdì 12 novembre 2010

AD HOC 46/2010 (198)

LA BELLEZZA E' LA VERITA' CHE SI FA IMMAGINE


BENEDETTO XVI: OMELIA NELLA DEDICAZIONE DELLA CHIESA E DELL’ALTARE DELLA SAGRADA FAMILÍA A BARCELONA, 7 .11.2010

 (…) In questo ambiente, Gaudí volle unire l’ispirazione che gli veniva dai tre grandi libri dei quali si nutriva come uomo, come credente e come architetto: il libro della natura, il libro della Sacra Scrittura e il libro della liturgia. Così unì la realtà del mondo e la storia della salvezza, come ci è narrata nella Bibbia e resa presente nella liturgia. Introdusse dentro l’edificio sacro pietre, alberi e vita umana, affinché tutta la creazione convergesse nella lode divina, ma, allo stesso tempo, portò fuori i 'retabli'(*), per porre davanti agli uomini il mistero di Dio rivelato nella nascita, passione, morte e resurrezione di Gesù Cristo.

 (…) In questo modo, collaborò in maniera geniale all’edificazione di una coscienza umana ancorata nel mondo, aperta a Dio, illuminata e santificata da Cristo. E realizzò ciò che oggi è uno dei compiti più importanti: superare la scissione tra coscienza umana e coscienza cristiana, tra esistenza in questo mondo temporale e apertura alla vita eterna, tra la bellezza delle cose e Dio come Bellezza. Antoni Gaudí non realizzò tutto questo con parole, ma con pietre, linee, superfici e vertici. In realtà, la bellezza è la grande necessità dell’uomo; è la radice dalla quale sorgono il tronco della nostra pace e i frutti della nostra speranza. La bellezza è anche rivelatrice di Dio perché, come lui, l’opera bella è pura gratuità, invita alla libertà e strappa dall’egoismo.
           
(…) Il Signore Gesù è la pietra che sostiene il peso del mondo, che mantiene la coesione della Chiesa e che raccoglie in ultima unità tutte le conquiste dell’umanità. In Lui abbiamo la Parola e la Presenza di Dio, e da Lui la Chiesa riceve la propria vita, la propria dottrina e la propria missione. La Chiesa non ha consistenza da se stessa; è chiamata ad essere segno e strumento di Cristo, in pura docilità alla sua autorità e in totale servizio al suo mandato. L’unico Cristo fonda l’unica Chiesa; Egli è la roccia sulla quale si fonda la nostra fede.

            Basati su questa fede, cerchiamo insieme di mostrare al mondo il volto di Dio, che è amore ed è l’unico che può rispondere all’anelito di pienezza dell’uomo. Questo è il grande compito, mostrare a tutti che Dio è Dio di pace e non di violenza, di libertà e non di costrizione, di concordia e non di discordia. In questo senso, credo che la dedicazione di questa chiesa della Sacra Famiglia, in un’epoca nella quale l’uomo pretende di edificare la sua vita alle spalle di Dio, come se non avesse più niente da dirgli, è un avvenimento di grande significato. Gaudí, con la sua opera, ci mostra che Dio è la vera misura dell’uomo, che il segreto della vera originalità consiste, come egli diceva, nel tornare all’origine che è Dio. Lui stesso, aprendo in questo modo il suo spirito a Dio, è stato capace di creare in questa città uno spazio di bellezza, di fede e di speranza, che conduce l’uomo all’incontro con colui che è la verità e la bellezza stessa.

(*) retabli: pale dell'altare


martedì 9 novembre 2010

FUTURISMO SENZA FUTURO

Il direttore di Avvenire risponde ad una lettera e formula un giudizio senza appello sull'opportunismo finiano

Un rischioso futurismo familiare
Il direttore risponde
di Marco Tarquinio

Caro direttore, le cito un passaggio dal discorso di Fini a Bastia Umbra: «...Bianchi e neri; cattolici, ebrei e musulmani; uomini e donne; eterosessuali ed omosessuali; italiani e stranieri: qualsiasi persona, la persona umana, senza distinzioni e discriminazioni, deve essere al centro dell’azione della politica e avere la tutela dei propri diritti...».

Poi, a seguire: «...In Italia dobbiamo colmare il divario e allinearci agli standard europei sulla tutela tra le famiglie di fatto e quelle tradizionali...». E infine: «... Non c’è in nessuna parte dell’Europa, e lo dico a ragion veduta, un movimento politico come il Pdl che sui diritti civili sia così arretrato...». Nel novero dei diritti civili da tutelare va certamente ricompreso, per Fini, il diritto delle coppie omosessuali ad adottare figli. Perché le coppie eterosessuali sì e quelle omosessuali no? Anche questo è un sacrosanto diritto! In nome degli standard europei bisogna poi equiparare in tutto e per tutto le famiglie di fatto alle vecchie, tradizionali e scontate famiglie fondate sul matrimonio. Che cosa aspettiamo ad adeguarci a questi standard?

Credere ancora nella famiglia fondata sul matrimonio è un chiaro sintomo di arretratezza culturale...

Fabio Russo, Roma

Capisco la sua amara ironia, gentile avvocato. E condivido la sua profonda perplessità: il «partito moderno» anzi «futurista» di Gianfranco Fini, ultima evoluzione della destra post-fascista faticosamente nata dalle ceneri del Msi-Dn, sta rivelando di portare nel suo Dna qualcosa di strutturalmente e – per quanto ci riguarda – di inaccettabilmente vecchio: la pretesa radicaleggiante di dividere il mondo in buoni e cattivi, in arretrati e progrediti culturalmente, sulla base di una premessa e di un pregiudizio ideologico. Il ronzio di fondo che accompagna le dichiarazioni del leader ricorda, poi, le sicumere dell’anticlericalismo proprio, con le sue ambizioni e le sue miserie, di una certa Italia liberale in tutto e con tutti tranne che nei confronti dei cattolici. L’accattivante elenco finiano di differenze da comporre in giusta armonia – che lei opportunamente cita, caro amico – culmina per di più in affermazioni che con il rispetto delle diversità nulla hanno a che vedere e che teorizzano, piuttosto, l’ingiusto annullamento delle diversità. Un retorico elogio della confusione, all’insegna del più piacione dei relativismi.

Nonostante l’ostentato (e sarkoziano) richiamo all’idea di una «laicità positiva».

Spiace, infatti, constatare che il primo a fare le spese lessicali e programmatiche del riproporsi di un Fini-pensiero purtroppo già noto sia stato l’istituto della famiglia costituzionalmente definita (articolo 29), cioè quella unita regolarmente in matrimonio e composta da un uomo e una donna e dai figli che hanno messo al mondo o accolto in adozione. Il neoleader di Fli e attuale presidente della Camera si mostra, insomma, pronto a ridurre la «famiglia tradizionale» a una possibilità, a una mera variabile in un catalogo di desideri codificati, manco a dirlo, secondo gli «standard europei». Bizzarro, deludente e rischioso argomentare che si somma all’altrettanto pericolosa scelta di campo che l’ha indotto a osteggiare una legge – quella sul «fine vita», approvata in prima lettura al Senato e ferma alla Camera – tesa a scongiurare la surrettizia e anti-umana introduzione di pratiche eutanasiche nel nostro ordinamento. Come potremmo non annotare e tenere in debita considerazione tutto
questo? E, proprio guardando al futuro oltre che al presente, come potrebbero non tenerne conto con lucidità i potenziali interlocutori politici di Fini?

CONFERENZA NAZIONALE DELLA FAMIGLIA

Dal Sussidiario.net un intervento di Pierpaolo Donati.
in coda il link per il forum delle famiglie su "Formula Famiglia"

PIERPAOLO DONATI SULLA CONFERENZA NAZIONALE DELLA  FAMIGLIA

martedì 9 novembre 2010

Le posizioni di Fli hanno influenzato anche la Conferenza nazionale della famiglia in corso a Milano. Ieri il ministro Sacconi ha criticato l’equiparazione sostenuta da Fini tra coppie di fatto e famiglia fondata sul matrimonio. «Senza nulla togliere al rispetto che meritano tutte le relazioni affettive che però riguardano una dimensione privatistica - ha detto Sacconi -, le politiche pubbliche che si realizzano con benefici fiscali sono tarate sulla famiglia naturale fondata sul matrimonio». Apriti cielo: “Aiuti solo agli sposi con figli” hanno subito titolato i quotidiani online.
Discusse anche le posizioni del sottosegretario Giovanardi, per il quale «la rottura della diga costituita dalla legge 40 aprirebbe la porta ad inquietanti scenari, tornando ad un vero e proprio far west della provetta dove fina dal primo momento il concetto costituzionale di famiglia andrebbe irrimediabilmente perduto». Ma secondo Pierpaolo Donati, sociologo e relatore alla Conferenza, Sacconi ha ragione.

Professore, è giusto - per usare le parole di Sacconi - che le politiche pubbliche siano tarate sulla famiglia naturale fondata sul matrimonio?

In tutti i sistemi fiscali non c’è un regime di agevolazione delle famiglie se non c’è una “legalizzazione” del rapporto attraverso il matrimonio. Quindi l’affermazione di Sacconi mi sembra pienamente giustificata. Diverso è se parliamo di servizi agli individui: quelli verso i figli non richiedono necessariamente il matrimonio tra i genitori, ma il trattamento fiscale della famiglia richiede, come dice la Costituzione, che questa venga intesa come famiglia naturale fondata sul matrimonio.

In tutto questo è significativo che agenzie e giornali abbiano fatto titoli come: «Sacconi, aiuto solo a sposi che procreano». C’è chi ha parlato di logica razzista.

C’è dietro il pregiudizio ideologico di chi vuole che per famiglia si intenda solo un qualunque aggregato di individui. In ogni caso Sacconi non ha detto: aiuti solo a quelle con figli, ma ha voluto dire che c’è un trattamento che deve essere equo nei confronti della famiglia con figli. Come ho mostrato nella mia relazione, a stare male in Italia - e solo in Italia - è la famiglia con figli.
  
Vuole dire che il fattore che porta una famiglia nella povertà è il fatto di avere figli?
Sì. Tutte le statistiche dimostrano che in Italia le famiglie monogenitoriali, comparate con gli altri paesi europei, stanno meglio delle famiglie con figli. Vale perfino per gli anziani soli. Se guardiamo la distribuzione della povertà per tipologia familiare nei paesi europei, vediamo che diversamente da quanto accade per Germania, Spagna, Francia, Svezia e Regno Unito in Italia i nuclei familiari senza figli, al pari di quelli monoparentali, hanno un indice di concentrazione di povertà che è il più basso d’Europa. Ma quando si passa alle famiglie con figli, l’indice Ocse è il più alto.  

Quali spunti sono emersi ieri nella Conferenza a favore di un sostegno fiscale alle famiglie?

Dalla conferenza viene unanime la richiesta di una riforma fiscale a favore della famiglia. Non vuol dire accordare privilegi, ma ispirarsi a principi di equità come giustizia: le famiglie devono essere trattate allo stesso modo. Il problema è che oggi quelle che hanno più figli sono penalizzate rispetto a quelle che non ne hanno. E questa è una grave ingiustizia.

Quali sono le ipotesi di riforma sul tappeto?

Una è quella nota del quoziente familiare. Il quoziente alla francese somma i redditi di tutti i membri della famiglia, e anziché tassare questo reddito complessivo lo divide per un coefficiente dato dal numero degli adulti, dalle loro condizioni di salute e dal numero di figli. In questo modo la tassazione viene molto diminuita. Si tratta di un sistema di redistribuzione, cioè che tassa i redditi familiari e ridistribuisce alle famiglie a seconda dei carichi famigliari.

Può fare un esempio?

Se una famiglia con un reddito di 50mila euro ha tre figli, e ogni figlio vale 0,7, tre figli valgono 2,1 e sommati ai due genitori danno un coefficiente di 4,1. Quello che viene tassato è il reddito di 50mila euro diviso 4,1: vuol dire che si tassano poco più di 12mila euro. Questa è l’ipotesi invalsa fino ad oggi per tutti coloro che parlano di quoziente familiare.

E l’altra strada?
L’altra ipotesi che sta emergendo ha una filosofia molto diversa, basata sul principio di sussidiarietà alla tedesca. C’è una sentenza della Corte suprema tedesca che dice che non va tassato il reddito minimo che serve ad una famiglia per vivere dignitosamente. Non entro qui in ulteriori dettagli tecnici. Questo vuol dire che se una famiglia è composta da due componenti e sappiamo che il reddito minimo è di, supponiamo, mille euro, quei mille euro non vanno tassati. Si tassano solo i redditi da mille euro in su. Questo sistema è basato sulla creazione di una no tax area.

E dove sta la differenza?

Sta nel fatto che questo sistema non è basato su di un principio di redistribuzione equitativa: non si tassano le famiglie per poi ridistribuire a seconda dei carichi familiari, ma si parte lasciando il reddito alla famiglia. Non si tassa la famiglia avendo come riferimento il minimo necessario per la sua sussistenza e si comincia invece a tassare solo al di sopra di quel livello. Questo sistema costituisce il punto di forza di una proposta che non si chiama quoziente familiare ma “fattore famiglia”.

Quest’ipotesi è candidata a prevalere su quella del quoziente?

Ha due indubbi vantaggi. Il primo è di essere graduabile: è vero che il costo complessivo della riforma, se fatta in maniera completa, sarebbe di 16 miliardi di euro, però si potrebbe cominciare con due miliardi, poi passare a cinque miliardi, e portarla a regime, in ipotesi, nel giro di cinque anni. Il quoziente familiare invece può essere fatto solo in toto.

E il secondo vantaggio?

La seconda ragione è legata all’area di non tassabilità delle famiglie. Mentre con il quoziente familiare le famiglie incapienti non hanno vantaggi, con il “fattore famiglia” se le famiglie incapienti stanno sotto il reddito minimo hanno diritto a quella che si chiama tassa negativa sul reddito: prendono dallo Stato quello che manca per arrivare al livello “minimo” di vita.

C’è una grossa differenza nel modo di intendere il ruolo dello Stato, par di capire.
Sì, perché il “fattore famiglia” mette molto meno l’accento sulle redistribuzione statale - prelievo dalle famiglie e redistribuzione - e nel fare questo evidenzia gli svantaggi del quoziente familiare: primo, l’enorme costo di una grande macchina burocratica che per fare la redistribuzione spende una gran quantità di soldi; secondo, non è detto che arrivi là dove c’è più bisogno. Il fattore famiglia invece non richiede alcuna macchina redistributiva, lasciando i soldi nelle famiglie. È un sistema che sta piacendo a sindacati e Confindustria.

Prima ha detto che in Italia le famiglie con figli sono svantaggiate e più povere. Nel nostro paese la natalità è in calo perché il governo non aiuta la famiglia?

È una questione complessa. Nell’ultimo rapporto Cisf da me coordinato (Il costo dei figli. Quale welfare per le famiglie?, ndr)e condotto su un campione rappresentativo della popolazione italiana, abbiamo avuto modo di appurare che anche i fattori soggettivi sono importanti, se non determinanti. Innanzitutto, sappiamo che le coppie italiane hanno meno figli di quelli che desiderano. Vorrebbero in media un figlio in più, e il fatto che non ce l’abbiano dipende da molti fattori: alcuni sono economici, oggettivi, come il reddito, l’abitazione, o altri problemi di tipo materiale. Ma i fattori più importanti, che danno conto di una percentuale molto elevata - all’incirca il 60 percento - delle cause che inducono a rinunciare ad un altro figlio, sono di carattere soggettivo e fanno leva sul rischio, sull’incertezza del destino della famiglia, sulla paura per il futuro dei figli, sul timore di non essere all’altezza di educarli. Tutti motivi non economici.

Quali conseguenze ne trae?

Diciamo che le coppie giovani hanno ricevuto poco o nulla dai genitori in termini di capacità di fare famiglia sotto il profilo culturale. Si sposano, ma non sanno cosa voglia dire educare. C’è stata una grande perdita in termini di trasmissione culturale tra le generazioni. È chiaro che un sistema economico che rendesse favorevole l’avere figli, potrebbe incidere anche sotto l’aspetto psicologico. Ma non c’è una causalità lineare e non si può certamente dar la colpa solo all’elemento economico.

Il problema di un fisco a misura di famiglia riguarda solo il mondo cattolico?

Assolutamente no e nella conferenza sta emergendo molto chiaramente: chiedere un fisco a misura di famiglia non è una questione “cattolica” ma di laicità matura, positiva, che non necessariamente coincide con il punto di vista cattolico, ma che rispetta i valori naturali, i valori di una tradizione che non può essere cancellata se non vogliamo accelerare il passo verso il nostro stesso suicidio demografico e culturale.