martedì 28 dicembre 2010

IL PERDENTE DELL'ANNO


Quando era “person of the year” tutto pareva possibile. Cambiare l’America, superare la crisi, pacificare il pianeta. Ma non si può comandare un impero senza farsi molti nemici. Diario della stagione che ha riportato Obama sulla terra
di Mattia Ferraresi

A guardarla oggi, la copertina del Time che celebra Barack Obama “person of the year” 2008 sembra un documento storico, un reperto uscito dalla polvere degli archivi, da conservare per la manualistica alla stregua di un Kennedy con il vento che scompiglia i capelli e del Nixon malmenato che finisce nella polvere facendo il gesto della vittoria. La stilizzazione pop rossa e blu di Shepard Fairey appare come un ricordo sbiadito in cui la carica politica e passionale è stata neutralizzata, come se le iniezioni di eroismo che hanno accompagnato la stupefacente incarnazione democratica di Obama fossero improvvisamente venute meno, annullate dai terremoti della realtà.


Il dottor Fileno partorito dalla mente di Pirandello aveva trovato una ricetta infallibile per consolare se stesso e gli altri da ogni male: «Legger da mane a sera libri di storia e veder nella storia anche il presente, cioè come già lontanissimo nel tempo e impostato negli archivi del passato». I giorni gloriosi di Obama, messi su carta e inchiostro dall’onorificenza del Time, sembrano visti attraverso il “cannocchiale rovesciato” di Fileno, come se due anni fossero stati velocemente fermati nell’ambra del ricordo, e le complicazioni dell’oggi fossero parte di una storia radicalmente diversa. Non è soltanto un calo di popolarità, una involontaria cospirazione di circostanze avverse, dalla situazione in Afghanistan alle elezioni di midterm perse come spesso accade al partito del presidente.
Il deterioramento politico di Obama ha l’aria di una nemesi in stile mitologico, come se l’inerzia della partita si fosse ribaltata: quando era “person of the year” tutto riusciva facile e immediato, la chiusura del carcere speciale di Guantanamo era a un passo, il ritiro delle truppe dall’Afghanistan era questione di mesi, il mondo arabo poteva essere conquistato con una pacificante “mano tesa”, la riforma sanitaria era la kennediana “nuova frontiera” dell’assistenza statale, la crisi finanziaria era grave ma con la guida di princìpi solidi poteva essere superata, il processo di pace su cui tutti i presidenti avevano fallito poteva essere una specie di benedizione supplementare; a Obama hanno dato il Nobel per la pace nel 2009, riconoscimento che risultava già vagamente farsesco all’epoca dei fatti e che ora, nell’impietoso paragone con il dissidente cinese Liu Xiabao, risulta esplicitamente grottesco. A un’uscente “person of the year” non si negava nulla, nemmeno un tre su tre a canestro in una pausa dei lavori al G8 a L’Aquila; ora il presidente prende colpi duri anche nell’analogia cestistica.

«La politica presidenziale è una questione di narrativa», ha scritto John Harris del quotidiano Politico, «nessuno lo sa meglio di Barack Obama e del suo team, che nel 2008 hanno vinto le elezioni anche perché erano narratori migliori rispetto agli avversari». Certo, Obama era una “person of the year” in conto vendita: sulla base di una narrazione perfettamente costruita l’opinione pubblica aveva comprato l’intero pacchetto, ma non si sapeva se il contenuto sarebbe stato venduto con esiti accettabili sul mercato presidenziale.
La campagna elettorale si fa in poesia, il governo in prosa, dice un adagio molto noto in politica, specialmente in quella americana, dove le probabilità per un presidente di essere sfiduciato, sottoposto a impeachment ed eventualmente sollevato sono molto basse, extrema ratio in un sistema di governo in cui la stabilità è il valore indiscusso e il calo di popolarità per un presidente è caratteristica strutturale, inevitabile condizione per un commander in chief che nel comandare non può che scontentare. Nondimeno, la narrazione di quello che un tempo era stato “person of the year” ha avuto una serie di ricadute così pesanti da farlo apparire come l’antieroe dell’anno, un re mida che s’accorge che anche il cibo che dovrebbe ingoiare si trasforma in oro. «Farebbe meglio a governare la trama dei suoi anni alla Casa Bianca», suggeriva la perfida editorialista del New York Times Maureen Dowd, toccando le corde profonde di un disagio obamiano che non è soltanto dovuto al fatto che così è stato per tutti i presidenti, così sempre sarà e lui non fa eccezione.

Con i Tea Party alle calcagna

Innanzitutto, c’è l’economia. La politica di stimolo promossa da Obama non ha dato i risultati che il presidente sperava e – soprattutto – non è riuscita a dare una scossa al mercato del lavoro. Se a luglio Obama diceva che sì, la disoccupazione era preoccupante ma «ci stiamo muovendo nella direzione giusta» e a settembre i numeri erano «positivi, ma non ancora abbastanza» il dato di dicembre (39 mila posti di lavoro guadagnati nel settore privato, con un tasso di disoccupazione che cresce dal 9,6 per cento al 9,8) chiude l’anno al ribasso; con il risultato di un compromesso politico – forzato, certo, dai nuovi assetti al Congresso – che prolunga i tagli fiscali approvati da Bush per altri due anni per tutte le fasce di reddito, ricchi e ricchissimi compresi. In pratica, significa accettare la ricetta per la crescita con cui i repubblicani hanno alimentato una campagna elettorale tanto spettacolare quanto inaspettatamente semplice, tanto era chiara la debolezza dell’avversario.

Da un punto di vista elettorale, Obama è stato letteralmente assediato dalla destra libertaria dei Tea Party, sintesi inedita di passioni intimamente radicate nel corpus americano. Soprattutto, Obama è stato sconfitto non sul terreno prevedibilmente ostico del governo, ma su quello relativamente più agevole della campagna elettorale, il suo terreno. Nell’autunno rovente Obama ha tentato di sfidare la destra libertaria che da mesi in piazza chiedeva la testa dell’Amministrazione: «La sfida per il movimento del Tea Party è identificare in modo specifico questo punto: che cosa vuole?». La risposta assomigliava a quella di Tony Montana in Scarface: «Voglio il mondo e tutto ciò che c’è dentro».

Il risultato è stata la più grande sconfitta di midterm dal Dopoguerra, condita da un paradossale surplus di sfortuna per Obama: perdere il controllo soltanto della Camera e conservare il Senato, cosa che avrebbe reso più semplice il passaggio dei repubblicani da opposizione urlante a rispettabile forza di governo, quindi chiamata a prendersi le responsabilità di decisioni ispirate a un bene giocato su terreni comuni. Ci sarebbe stato meno spazio per giochi trasversali e guerre di posizione e anche il presidente avrebbe potuto far valere la sua naturale inclinazione a operazioni bipartisan, immagine di leader etereo che si è coltivato negli anni che furono, quando era ancora “person of the year”.

In politica estera, l’annus horribilis di Obama è stato reso un po’ meno amaro dal fatto che l’economia ha commissariato l’interesse degli americani per l’estero (specialità degli anni di Bush) e l’America si è scoperta centripeta, orientata agli affari di casa, perfino neoisolazionista nelle sue manifestazioni più radicali. Quand’era “person of the year”, Obama ha promesso di chiudere il carcere di Guantanamo; lo ha fatto il giorno dopo essersi insediato alla Casa Bianca, con un ordine esecutivo che era un piccolo gesto per significare la fine di un’epoca buia. Ma Guantanamo non si riesce a (e forse non si può) chiudere; i trasferimenti dei detenuti danno buoni risultati, ma il cortocircuito legislativo sembra insanabile e il primo dei detenuti processati davanti a una corte civile a Manhattan (Ahmed Ghailani, responsabile degli attentati alle ambasciate americane in Kenya e Tanzania nel 1998) è stato riconosciuto perseguibile soltanto per uno delle centinaia di capi d’imputazione mossi: niente omicidio, niente strage, niente specifiche sul terrorismo internazionale. Gli uomini di Obama che si occupano del carcere speciale dicono ormai in modo chiaro che la chiusura è un miraggio.

Questa settimana il presidente ha presentato la review strategica sull’Afghanistan. Ottimismo decisamente modesto in assoluto, ancora peggio se si considera il calibro della promessa obamiana: ritiro delle truppe a partire dal 2011. «Nei nostri obiettivi principali stiamo vedendo progressi significativi», dice Obama, ma intanto negli ultimi tre mesi la data del 2014 è stata sdoganata anche nel dibattito pubblico.

Fra droni e burocrati

I droni della Cia martellano sulle zone tribali, sconfinando senza problemi nel territorio dell’infido alleato pachistano. Mentre Obama cerca di ottenere il massimo dal documento del Pentagono sull’Afghanistan, le agenzie di intelligence fanno sapere – come spesso accade, tramite il New York Times – che il National Intelligence Estimate, supremo documento di valutazione delle 16 principali agenzie dei servizi, dà un giudizio molto più duro sullo scenario afghano. Una situazione in cui soltanto il ravvedimento del Pakistan può generare qualche sincera speranza di vittoria per la Coalizione.
Nell’anno orribile Obama ha perso un generale a quattro stelle, Stanley McChrystal, e si è rivolto all’unico candidato possibile per guidare le forze in Afghanistan, David Petraeus, creazione di Gorge W. Bush ai tempi del surge in Iraq; poi il presidente è stato “woodwardato”, cioè sottoposto al trattamento giornalistico del mitologico Bob Woodward, che in Obama’s Wars ha offerto un ritratto impietosamente realistico della politica estera dell’amministrazione, fatta di burocrati scivolosi e personalità ingombranti sempre sul confine di uno scontro finale, dove Obama è un mediatore inesperto, non sempre in grado di gestire faide ancestrali. Obama non sentiva davvero nessun bisogno di Julian Assange per meditare sulla propria crisi di popolarità e leadership. Le rivelazioni diplomatiche dell’attivista australiano non spostano snodi sostanziali nei rapporti americani, ma se letti nell’ottica della narrativa presidenziale danno un messaggio di incapacità del potere nell’arginare l’anarchia della trasparenza mediatica.

Nel declino la salvezza?

L’anno che Obama vorrebbe dimenticare, però, è un delicato intreccio di paradossi. Certo, paragonato alle promesse, il 2010 del presidente si riduce a un prontuario di fallimenti, interrotto da brevi segmenti di felicità; ma in senso strategico al declino di Obama è ancorata la sua possibilità di salvezza politica. Il presidente si è trasformato – suo malgrado – da sognatore senza tempo e oratore parareligioso in smagato pragmatico, capace di raffinate mediazioni e anche di forzature istituzionali. Le elezioni hanno infierito sulla sua perdita dell’aureola e ne è uscito malconcio numericamente ma sollevato da una pressione politica insostenibile anche per il più osannato dei presidenti.
Sceso dal piedistallo, Obama ha iniziato a giocare con le stesse regole degli avversari e ha immediatamente realizzato che avere un partito all’opposizione – anche se soltanto in una camera – è un naturale dissipatore di malumori interni, un fattore di coesione e un modo per scaricare le colpe all’esterno. Alla Casa Bianca si è aperto da tempo il turnover, strumento naturale per adeguare i meccanismi del potere, e la falange scelta si è stabilita a Chicago per lavorare al capitolo forte della narrativa obamiana, la campagna presidenziale. Con un misto di tattica e rilancio di promesse appena appena potate del loro impeto iniziale, Obama cerca di chiudere un anno da presidente in cerca d’autore

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