martedì 14 dicembre 2010

Quei giudizi amari sulle «vite inutili»

Lettere al direttore di Avvenire

Grande risposta, nella forma e nella sostanza, di Marco Tarquinio ad una lettrice che rappresenta perfettamente un certo cattolicesimo tutto legato al moralismo e al perbenismo. Quel cristianesimo che fa venire in mente Ecclesiaste 21,18: “casa in distruzione è la sapienza per il fatuo, e parole disordinate la scienza per l’insensato”.


Caro direttore, mi sono chiesta se Eugenia Roccella, un tempo accesa femminista e ora sottosegretario al Ministero per la Salute, abbia figli. Me lo sono chiesta dopo aver letto le parole con cui ha accompagnato la notizia che il 9 febbraio, giorno della morte di Eluana Englaro, sarà dedicato alla Giornata Nazionale degli Stati Vegetativi. «Un’occasione preziosa in più – ha commentato – per ricordare a tutti noi quanto è degna l’esistenza di tutti coloro che vivono in stato vegetativo e non hanno voce per raccontare il loro attaccamento alla vita». Mi sono chiesta se Eugenia Roccella abbia figli perché la scelta della data e il conseguente ulteriore giudizio negativo sulla scelta della famiglia Englaro appaiono ancora una volta, al di là delle dichiarazioni ufficiali, espressione di una totale mancanza di rispetto per chi opera scelte diverse da quelle considerate moralmente corrette da Roccella e compagnia. Credo che, al di là di ogni valutazione politica, chi ha figli china il capo e non si permette di giudicare. Anche se non condivide, tace e prova empatìa per una scelta così difficile come quella del padre di Eluana. Non contrappone la scelta di chi accudisce un figlio in stato vegetativo, rispettandone dignità e volontà, alla scelta di chi sceglie di rispettarne dignità e volontà interrompendo i supporti che la medicina e la tecnologia possono dare e lasciando che la natura faccia il suo corso. Nessuno ha diritto di ergersi come paladino della vita tacciando gli altri di morte, e meno ancora si dovrebbe fare in nome di un Dio nominato invano da chi non ha neppure coltivato la virtù civica della compassione, da chi si erge padrone di un Dio costruito a propria misura. Cordiali saluti.  Gisella Bottoli, Brescia

Dirigo Avvenire, gentile signora Bottoli, e non sono, dunque, il portavoce del Ministero della Salute o del sottosegretario Eugenia Roccella (madre di famiglia e ottima collega giornalista, oggi impegnata in politica, che non merita sarcasmi, ma alla quale farò comunque girare la sua email). Mi limito quindi a constatare che lei non legge molto il giornale a cui pure si rivolge, altrimenti saprebbe che domenica scorsa abbiamo pubblicato un editoriale di Francesco Ognibene molto chiaro sulla scelta – per noi giusta – di fare del 9 febbraio una «giornata di tutti e non di qualcuno», dedicata cioè alle persone in stato vegetativo, alle loro famiglie e ai medici che lavorano e ricercano in questo delicatissimo campo.
Da ciò che scrive deduco, inoltre, che si è informata su tali questioni prevalentemente altrove. Se avesse letto Avvenire (l’unico a scriverlo sempre con chiarezza) saprebbe, infatti, che Eluana Englaro non viveva grazie a tecnologie, ma veniva semplicemente nutrita e idratata grazie a un sondino, come tanti altri disabili e malati gravi o gravissimi. «Lasciare che la natura faccia il suo corso», lei dice. Ma nel caso citato, questo «lasciare» non ha significato sospendere la somministrazione di medicine o l’azionamento di macchine (non c’era neanche una spina da staccare), bensì non dare più da mangiare e da bere a una persona.
«Nessuno ha diritto di ergersi a paladino» di qualcosa o di qualcuno contro altri, lei aggiunge. Sicura? E quando c’è in questione qualcosa di grande: la democrazia, la libertà di coscienza, la pace? E la vita – anche di una sola persona: italiana, eritrea, rom, giovane, vecchia, infelice, realizzata, violentata… – quanto vale e quando merita 'paladini'? E, poi, provi a pensarci: è o non è un 'paladino' di qualcosa o di qualcuno colui che – parente o giurista, cronista o medico o politico – si erge a giudice-portavoce della 'dignità' e della 'utilità' della vita di un disabile che non può esprimersi? E, ancora, se il disabile pensato come 'non vivente' è invece (Max Tresoldi l’ha raccontato dopo essere uscito da uno stato vegetativo durato 10 anni) in grado di cogliere clima, presenze e parole attorno a lui? Per ciò che vale, per ciò che accade davvero nella vita della gente, gentile signora, bisogna saper spendere parole ed energie: tacere può essere un esercizio di umiltà e persino di carità, ma non è sempre una virtù.

«Fare in nome di un Dio». Quando, di grazia, Dio è stato nominato, se non come consolazione («Dio ora stringe la sua mano», titolammo nel giorno della morte di Eluana)? Se non come implorazione? Tutto, invece, nel caso di Eluana è stato detto e fatto – da ogni parte – in nome dell’umanità. Di diverse idee di umanità. Da chi riteneva inutile e persa la vita di quella giovane donna e l’ha descritta come «già morta» (ma i fatti sono testardi: già morta non era, e per verificarlo basta leggere le carte dell’autopsia, che contengono anche la cartella clinica di Eluana…). E da chi – come me – riteneva, e ritiene, che non si può e non si deve procurare la morte di una persona non più capace di mangiare e bere da sola. E poi so che l’empatìa con chiunque non può mai esonerare, gentile signora, dal dovere di riconoscere e dire la verità. Non una verità astratta e dogmatica, bensì una verità umanissima, incontrata, toccata con mano, sperimentata vivendo.

E verità è anche la nostra debolezza di essere umani davanti a certe prove terribilmente dure.

Che non tocchi a nessuno – e qui prego davvero Dio – la prova di essere chiamato a stare accanto a un ragazzo o a una ragazza o a una persona cara che, per accidente, vive una vita diventata a noi 'normali' incomprensibile: una vita come assente eppure presente, che la scienza lentamente sta indagando con scoperte sui livelli di coscienza che affascinano, stupiscono e inquietano. Ecco perché in tanti hanno chiesto che nessuno osi più narrare e far narrare solo dell’amore ferito e della sofferenza di chi ha detto 'basta', basta vivere.

Ecco perché tanti chiedono – e anche Eugenia Roccella propone, a quel che so e capisco – che nessuno taccia più dell’amore, della sofferenza e del coraggio quotidiano delle migliaia di persone che affrontano vite in salita accanto ai propri cari gravemente disabili o malati. Che nessuno neghi e snobbi la scienza medica che non gioca con l’umano, ma lo serve. Purtroppo certa ribalta data e certi studiati silenzi ci sono invece stati, e ci sono ancora. Questi, per me, sono gesti da algidi 'paladini' di qualcosa che non voglio definire.

Sono inesorabili giudizi sulle 'vite inutili'. I giudizi più amari. Provi a ragionarci su. Ricambio il suo cordiale saluto.
Marco Tarquinio, 12 dicembre 2010

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