giovedì 30 dicembre 2010

SE L'AVVERSARIO È SEMPRE FASCISTA

I tic della sinistra: da De Gasperi a Craxi, le accuse ai leader dello schieramento contrario nei momenti di svolta.
 Se il decisionismo dell'avversario è sempre fascista
di PIERLUIGI BATTISTA
A Mirafiori rinasce «il complesso dei tiranno». La paura della democrazia post fascista, fin dai primordi, di consegnarsi impotente nelle mani di chi decide troppo e che, decidendo troppo, avrebbe finito per assomigliare troppo a un nuovo duce. Il terrore del nuovo «fascismo», del nuovo «autoritarismo». Che in questi giorni prende le sembianze di Sergio Marchionne.
Il nuovo volto di una vecchia proiezione psico-politica. Il nuovo bersaglio di un antico tic della sinistra, che vedeva e vede nuovi «fascismi» sempre e dappertutto.
Il più esplicito nell'accostamento è stato Giorgio Cremaschi, che ha letto nell'accordo di Mirafiori sottoscritto da Cisl e Uil (ma per lui soltanto un odioso e antidemocratico diktat) i germi del «fascismo», appunto. Susanna Camusso è stata più tenue, ma sostanzialmente nella cornice di un'analoga denuncia: «autoritario e illiberale». Di Pietro, come al solito ignaro di ogni prudenza lessicale, ha prodotto la sintesi: Marchionne come esempio di «autoritarismo fascista». Il pericolo di una «deriva autoritaria» alla Marchionne unisce figure della sinistra che non sempre hanno condiviso negli ultimi anni scelte e parole d'ordine, da Sergio Cofferati a Mario Tronti, da Fausto Bertinotti a Rossana Rossanda. Sempre Il fascismo alle porte, sia pur in nuove forme. La fobia del comando. Il decisionismo come vizio autoritario. Il pericolo di una «sterzata», di una «deriva», di una «svolta» come cemento emotivo per la costruzione demonizzante del nemico, vissuto ogni volta come minaccia, come rottura traumatica di una consuetudine democratica. O di un rito consociativo. O di un tavolo concertativo dove non prevale mai nessuno, e la decisione è per sua natura «condivisa».
Ma è vero? Oppure è il retaggio di una sindrome molto diffusa nella cultura della sinistra che nel richiamo all'«unità antifascista» contro i nuovi tiranni ha fondato una parte decisiva del suo modo d'essere e di ragionare, anche a costo di un conservatorismo mentale e culturale duro a morire? Fu accusato di essere responsabile di una nuova stagione «fascista» addirittura Alcide De Gasperi, quando, di ritorno dal famoso viaggio negli Stati Uniti, all'alba della guerra fredda scaricò dal governo comunisti e socialisti rompendo per sempre la coesione delle forze che avevano fatto insieme la Resistenza. Ed era abitudine per i paladini della «nuova Resistenza» fischiare nelle cerimonie del 25 aprile gli esponenti della Dc accusata di non arginare lo scivolamento verso un nuovo «fascismo».
«Fanfascista» era bollato sarcasticamente Amintore Fanfani, espressione di una vocazione «autoritaria» che avrebbe voluto (vanamente, come è noto) scalare il Quirinale per trovare formale compimento. Divenne «autoritario», agli occhi della sinistra che si riconosceva nel Pci, Bettino Craxi artefice e motore di una «Grande Riforma» istituzionale che avesse il presidenzialismo come suo cardine. Perché questo era considerato ogni modello di Repubblica presidenziale: golpismo allo stato puro, modello autoritario, eccesso decisionista e dunque para-dittatoriale.
Del resto, era diffusa nella cultura di sinistra che la matrice primaria di un nuovo fascismo nell'Europa post-bellica fosse il presidenzialista De Gaulle. Un paradosso: un nuovo fascista l'unico francese di rilievo che nel giugno del '4o, nei giorni della Francia umiliata e sbaragliata dai nazisti, chiamò alla lotta and-hitleriana nel nome della dignità nazionale dal suo esilio londinese.
Ma il paradosso è l'anima della sindrome del «pericolo fascista» alle porte. Una coazione a ripetere che offre innumerevoli repliche alla stessa trama politica e mentale, pur nel cambiare delle circostanze e dei protagonisti. Gli stivali mussoliniani che la satira politica aveva fatto indossare a Crasi si trasformarono nel fez che la più agguerrita stampa di sinistra aveva fatto calcare a Silvio Berlusconi nell'autunno del '93, prima ancora della formale «discesa in campo» dell'uomo che, bizzarria della storia, si trovava già in odore di fascismo per il suo sostegno al «fascista» Gianfranco Fini nella corsa a sindaco di Roma. Poi il decisionista Berlusconi divenne nella mentalità corrente della sinistra un «fascista», «autoritario» e «cesarista» per suoi esclusivi demeriti e non più per interposta persona. Ma anche Cossiga, nell'epoca della sua massima foga esternatoria, venne accusato di usare il piccone per demolire il sistema ereditato dalla Resistenza e spianare la strada a un nuovo «modello autoritario».
Una sindrome, appunto. Un'attitudine a leggere ogni rottura del quadro consolidato con gli stessi occhiali deformanti del passato. L'ossessione anti-decisionista che liquida come tendenzialmente «fascista» o comunque «autoritaria» ogni scelta che non si sottoponga alla liturgia paralizzante della co-decisione. Ecco perché l'«americano» Sergio Marchionne viene indicato con il più europeo ed italiano degli epiteti, indipendentemente dal merito, ovviamente discutibile, delle sue proposte. Decide, e dunque cova in sé una malattia «autoritaria». La sinistra ha perduto spesso, per colpa di questa sindrome paralizzante. Ma gli insegnamenti della storia quasi mai vengono ascoltati.

Corriere della Sera di mercoledì 29 dicembre 2010, pagina 1

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