sabato 31 dicembre 2011

IL RAGLIO DELLA PROF

E' morto don Luigi Verzé, il santo bancarottiere

Don Luigi Verzé è morto oggi a Milano, all'età di 91 anni. Lo si apprende da fonti vicine al San Raffaele. Il fondatore del San Raffaele è deceduto intorno alle 7.30 presso l'Unita Coronarica dell'Ospedale, dove era stato ricoverato durante la notte alle ore 2.30 per l'aggravarsi della sua situazione cardiaca.


Maurizio Crippa sul tema dell'Università San Raffaele aveva scritto su Il Foglio del 25 dicembre 2011 un articolo pieno di giustificata indignazione per l'atteggiamento della De Monticelli, spocchiosa e luciferina interprete del lato peggiore dell'opportunismo militante (a sinistra)


Il calcio dell’asino.
“Una grande giornata per l’Università Vita e Salute… forse l’inizio di una vita nuova”. Sul Fatto di ieri, Roberta De Monticelli ha intonato il suo natalizio Exultate jubilate, ma ne è uscito uno stonato raglio d’asino.


Irritante anche per chi, come noi, di calcioni a don Luigi Verzé ne ha dati, quando il mondo dei giornaloni osannava con secondi fini più che apparenti il prete libero-pensatore sui temi bioetici. Scrive De Monticelli che i docenti dell’Università del San Raffaele – forse anche fiutando arrivare i soldini freschi e puliti di nuovi soci (l’Humanitas) che allontanerebbero la minacciosa cordata vaticana – hanno messo a punto uno “statement” in cui configurano modifiche sostanziali allo statuto dell’ateneo (elezione del rettore e altro) nonché la nomina di un nuovo cda il cui presidente sia “una figura di alto valore professionale e deontologico”. Insomma rottamare dalla carica di rettore don Verzé, che in effetti aveva provato a fare dell’ateneo l’ultima ridotta di resistenza dentro la sua creatura. Niente da fare, ora i docenti libero-pensatori o diversamente credenti vogliono l’università tutta per loro, in nome del “rilancio dei suoi valori e principi ispiratori” e di una nuova era sotto “lo sguardo critico della società civile”. L’orticello accademico è sacro.

Fa una penosa impressione leggere De Monticelli che si lascia andare con poca eleganza: “Che emozione sentir finalmente risuonare quelle parole… segnali chiari di cambiamento rispetto a un passato… troppo spesso improntato a una gestione del potere poco trasparente”. Adesso la filosofa può finalmente confessare: “Stringe il cuore, quando si va a lezione vedersi incombere sui pensieri quell’angelone bianco e d’oro… il simbolo di un delirio di potenza che rischia di rovinare uno splendido esperimento intellettuale”. Perbacco, come deve avere sofferto, nell’intimo della sua libera coscienza, in tutti questi anni a libro paga di quel malfattore di prete, sotto quella baracconata un po’ troppo vetero-cattolica di arcangelo non necessario (che volgarità). Lei e Cacciari, che volevano unire le “tre dimensioni della persona umana” in una sintesi filosofica superiore e non così banalmente dogmatica come quella cattolica. E in effetti avevano trovato il pollo adatto, perché “questa università fondata da un prete non c’entra nulla col sistema delle università cattoliche e col Vaticano”. Adesso il prete può anche prendersi il calcio dell’asino, ché il suo “angelone è tanto goffamente impari a quel sogno”.

Almeno Verzé, in vita sua, qualche malato l’ha curato, e bene. De Monticelli invece è “la voce di chi teme forte che qualcuno possa mettere le briglie alla libertà di ricerca”. Tradotto, significa la fifa che arrivasse qualcuno a rovinare a Vito Mancuso la libertà di scrivere a piacer suo “i fondamenti dottrinali dello stesso San Raffaele”, “sotto la cupola assurdamente impotente che sfora il cielo oltre la Madonnina e apre il baratro immenso del bilancio”. Ecco. La chiave è quell’“impotente”. Si stava bene, quando il prete cacciava i soldi, che non puzzano. E adesso che è schivato il rischio, lo possono eticamente sfanculare, con l’accusa di malfattore. Loro, i puri da ogni magheggio: “Non una lira di quelle per le quali il sistema è indagato per associazione a delinquere è mai arrivata nelle casse della ricerca”. Campavano d’aria, loro.
Don Verzé è stato il fecondatore in vitro di questa spocchia (bio)eticheggiante e luciferina. Nella scala dei peccati contro lo Spirito, è ben più grave di aver speso soldi a vanvera. Quindi il calcio dell’asino se l’è meritato. Ma chi glielo sferra, fingendo di aver lo zoccolo puro, è anche peggio di lui.

venerdì 30 dicembre 2011

DON VERZE' E IL CORRIERE

di Francesco Agnoli

Tratto da La Bussola Quotidiana il 20 dicembre 2011

Oggi, sul San Raffaele di don Verzè maramaldeggiano tutti. Sino a ieri, invece, ci si scappellava, alla grande. Con un’unica eccezione importante: Il Foglio di Giuliano Ferrara.

Sul Corriere della Sera del 18 dicembre, Aldo Grasso, scrive che delle porcherie di don Verzè sapevano tutti, dagli anni Ottanta. Sapevano Berlusconi (lui sa sempre a prescindere, per alcuni…), amico del prete manager; sapeva la regione Lombardia (una frecciatina a Formigoni sul Corriere è sempre buona, troppo ciellino); sapevano i “professori dell’Università san Raffaele” (nessun nome viene però fatto)…

Sapevano tutto tutti, dunque. Però Aldo Grasso dimentica di inserire nella sua lista di coloro che sapevano, il Corriere della Sera. No, lì, dove scrive lui, sembra al Grasso, non sapevano nulla.

Pur avendo la sua sede, il Corrierone, proprio a Milano, nella patria di Verzè. Dove tutti sapevano, tranne il più importante organo di informazione della città. Pur essendo molti collaboratori del Corriere, da Emanuele Severino ad Edoardo Boncinelli, sul libro paga dell’Università Vita-Salute San Raffaele di don Verzè.

Anzi, ricordiamolo: il Corriere era uno dei grandi sponsor di don Verzè, nella sua veste improbabile di riformatore ultra-modernista della Chiesa cattolica. L’alter ego del cardinal Martini, tanto amato da Ferruccio de Bortoli. Qualcuno ricorda la pubblicità offerta dal quotidiano di via Solferino, al libro ereticale del cardinal Martini e dello stesso Verzè: “Siamo sulla stessa barca” (edizioni san Raffaele)?

Il libro piaceva, perché metteva in dubbio molte verità dogmatiche della fede cattolica.
Allora don Verzè tornava utile, come il sempre verde cardinal Martini. A proposito, costui sapeva? Il cardinale di Milano per tanti anni, non aveva mai avuto sentore dei comportamenti del prete manager fissato con la vita eterna, ma sulla terra? Eppure un suo predecessore, il cardinal Giovanni Colombo, raccontato da Mario Palmaro in un suo libro come difensore della vita nascente, aveva sospeso don Verzè a divinis già nel 1973. Perché, poi, più nulla? Eppure, anche senza conoscerne gli intrallazzi economici, si potevano conoscere le sue eresie propalate a piene mani.

Prendiamo il successore di Martini, il cardinal Tettamanzi: un tempo sponsor dei pro life, poi cominciò a prediligere altre posizioni. Era lui il cardinale, dopo Martini, nella cui città don Verzè aveva organizzato la famosa università, in cui insegnavano personaggi come il prete spretato Vito Mancuso, oggi idolo di Repubblica (lui, sapeva?); come Roberta de Monticelli, avversa alla Chiesa su molte posizioni etiche, in particolare sul tema dell’eutanasia; come Massimo Cacciari; come Edoardo Boncinelli, lo scienziato che difende la clonazione e che sostiene che la vita umana non ha alcun senso perché Dio non esiste; come padre Enzo Bianchi, firma de La Stampa, anch’egli su posizioni ultra moderniste; come mons. Bruno Forte, il teologo “innovatore”, o come Luca Cavalli Sforza, che un giorno ebbe a dichiarare di sopportare tutte le religioni, tranne quella cattolica…

Martini, Tettamanzi, sapevano? Certamente conoscevano almeno le idee eterodosse di don Verzè, le sue eresie, le persone fieramente anti-cattoliche di cui si circondava.

E al Corriere? Quantomeno si conoscevano, e si apprezzavano, le idee dell’imbarazzante soggetto in questione. Potremmo, a dimostrazione, rispolverare un paginone intero del Corrierone: don Verzè che spiegava cosa avrebbe fatto lui se fosse stato fatto papa. Nientemeno. Sì perché il don sospeso a divinis ma poi lasciato fare senza disturbo, credeva di essere lui, il più adatto a ricoprire quel ruolo. Rileggete quell’articolo del 3 settembre 2010: il maniaco di grandezza, che comperava jet personali, cupole galattiche e altro ancora, mescolava dichiarazioni pauperistiche ridicole, con eresie evidenti.

Scriveva per esempio: “Se io fossi papa? Scenderei da solo, senza bardarture a star con la gente. Scenderei non da sacri palazzi, ma da un semplice appartamento, come un buon parroco… Eliminerei il cardinalato e tutte le disparità di sapore feudalesco…”. Tutta una critica, insomma, alla Chiesa, al papa vero, mescolando eresie, sciocchezze e finta umiltà. Ma al Corriere Verzè piaceva assai.

Come piaceva, per fare un altro nome, a Nichi Vendola, che nel 2010 ha sottoscritto un accordo con il Verzè per la nascita in Puglia della Fondazione san Raffaele del Mediterraneo.

Sì, perché al san Raffaele, oltre ai professori citati, si faceva ricerca contro le regole della Chiesa. Si difendeva e praticava la fecondazione artificiale, con il bollino del dottor Alfredo Anzani, responsabile della Segreteria del Comitato (per nulla) Etico del san Raffaele, e fratello di quel Giuseppe Anzani che ricopre la carica di vice presidente nazionale del Movimento per la Vita (pur sostenendo anche lui posizioni molto ambigue in campo bioetico sempre riguardo alla fecondazione extracorporea).

L’unico che non andava bene, al San Raffaele, era Angelo Vescovi, lo scienziato italiano, pioniere nello studio delle staminali, che però nel referendum del 2005 si schierò per la difesa dell’embrione. Vescovi non è cattolico, ma è serio: non poteva non dire la verità sull’embrione umano, e la disse più volte, soprattutto grazie al Foglio di Ferrara. Per lui si chiusero le porte dell’ospedale di Verzè.

Così, tanto per rinfrescare la memoria a Grasso e al Corrierone.

giovedì 29 dicembre 2011

A RIETI HANNO UCCISO IL PRESEPE

di Riccardo Cascioli
labussolaquotidiana29-12-2011

«La decisione di rinunciare allo storico presepe della Cattedrale (…) è anche un invito a rinnovare lo sguardo anche sulle tradizioni più ovvie, a superare ciò che l’uso ci ha indotto a dare per scontato, a rinunciare a quello che ci sembra necessario per concentrarci su quello che è davvero essenziale». Inizia così sull’ultimo numero del settimanale diocesano di Rieti l’articolo che dovrebbe spiegare ai fedeli perché quest’anno non hanno trovato il presepe nella cattedrale. Eh sì, proprio così: nella diocesi dove è ubicata Greccio, il luogo dove San Francesco ha voluto creare il primo presepe, si è deciso di eliminarlo dalla cattedrale, per richiamare all’essenziale. Così via il presepe storico, quest’anno è restato «solo, sui gradini del presbiterio, il Bambino Gesù avvolto nei lini bianchi».

Lo sconcerto ed il disorientamento tra i fedeli è grande e lo testimoniano i commenti sul sito del settimanale diocesano. Soprattutto a sconcertare sono gli argomenti che via via i responsabili della diocesi e della redazione del settimanale portano per giustificare l’assurda decisione, che viene attribuita al vescovo in persona:
«Una scelta di sobrietà». Sobrietà? Eliminare il presepe una scelta di sobrietà? Ecco una bella idea per tutte quelle scuole che impediscono qualsiasi rappresentazione del Natale di Gesù: basta inutili discussioni, sulla sobrietà siamo tutti d’accordo. E pensare che noi ancora a prendercela con la secolarizzazione, il laicismo, l’odio alla Chiesa: non abbiamo capito niente, era solo sobrietà, richiamo all’essenziale. E allora via il presepe, ma via anche le croci dalle pareti; di più, anche dai tetti delle chiese, una anacronistica rappresentazione trionfalista. E tanto che ci siamo, perché non rinunciare anche alla messa domenicale, un rito cui ci si è abituati e che si vive dimentichi del significato? Come dicono nella Curia di Rieti «l’assenza, in questo caso, vale più della presenza». Chissà che bella provocazione alla nostra fede quella domenica che entrando in chiesa, trovassimo l’avviso: «La messa non si celebra per richiamare all’essenziale». Chissà quante conversioni fulminanti.

Ma non basta: si toglie il presepe, così «chi varcherà la soglia della cattedrale, lo farà davvero per ascoltare la proclamazione della Parola». Capito? Il presepe distrae dalla proclamazione della Parola. Forse chissà, negli anni passati, avranno visto che durante le insopportabili omelie episcopali, i fedeli si alzavano e preferivano andare a meditare qualche minuto davanti al presepe.

E ancora: «Il messaggio che si tenta di dare è quello di rivolgersi all’essenziale, tralasciando ogni altra cosa possa avere il sapore dello sfarzo, del superfluo, dell’inutile». Cioè: Giuseppe e Maria, i Magi, i pastori sarebbero lo sfarzo, il superfluo, l’inutile. Quello che conta invece sarebbe solo quel Bambinello astratto dalla realtà, disincarnato, venuto chissà da dove e quando, e abbandonato sui gradini del presbiterio.

Diciamo la verità: quella che è andata in scena nella cattedrale di Rieti è la negazione stessa del Natale, il Dio che si fa uomo nascendo dal grembo di una donna, in un momento preciso della storia e in un luogo altrettanto preciso. La grotta, i pastori, le campagne e perfino il disprezzato laghetto, nel tentativo di ricreare l’ambiente storico in cui è nato Gesù, sono elementi che sottolineano proprio questa storicità, questa concretezza dell’avvenimento cristiano. Altro che elementi inutili e superflui, altro che sobrietà.

Perché questi personaggi della Curia di Rieti non percorrono quei 15 chilometri che li separano da Greccio e vanno a confrontare queste scempiaggini con lo spettacolo della grotta dove San Francesco volle ricreare la scena esatta accaduta a Betlemme dodici secoli prima, pretendendo addirittura la presenza del bue e dell’asinello? Forse che anche San Francesco mancava di sobrietà? San Francesco, ci dice il biografo Tommaso da Celano, con quel presepe fece rinascere Gesù nel cuore di tante persone che erano accorse a Greccio. Oggi a Rieti si è deciso di farlo morire.

mercoledì 28 dicembre 2011

LA SVISTA DI FAMIGLIA (CRISTIANA?)

UNO DI LORO

 
Il settimanale cattolico Famiglia Cristiana ha assegnato il riconoscimento speciale di “Italiano dell'anno” al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Con il massimo rispetto dovuto alla più alta carica dello Stato, absit injuria verbis, mi permetto di nutrire serie perplessità su tale scelta.

Che Napolitano venga incoronato King George dal New York Times, o eletto uomo dell’anno dalla versione italiana della rivista mensile Wired, nota come la “Bibbia di Internet”, appare questione pacifica e indiscutibile. Che lo faccia un settimanale che ama definirsi cattolico, appare invece assolutamente discutibile. Diciamo che si è trattato di una colossale topica. Così la percepiscono, almeno, tutti quegli italiani, e non sono pochi, che non hanno dimenticato l’ombra che grava sull’attuale Presidenza a causa della tristissima vicenda umana di Eluana Englaro.

Mi duole interpretare il ruolo antipatico del rabat-joie e guastare la festa, ma la coscienza impone che la verità non possa essere sottaciuta.

Il 6 febbraio 2009 è ormai ricordato nella storia costituzionale del nostro Paese come il giorno del gran rifiuto di Giorgio Napolitano, il giorno in cui Il Presidente della Repubblica, non apponendo la propria firma al decreto legge cosiddetto “Salva Eluana”, ha creato un grave e pericoloso precedente nei rapporti istituzionali tra Capo dello Stato e Governo repubblicano. Non si tratta qui di riaprire dolorose ferite, o di rivangare le dure contrapposizioni di quel triste periodo, ma di ricordare la realtà dei fatti. I cattolici possono anche rispettare il Presidente della Repubblica – con lo stesso rispetto che va tributato a tutte le altre autorità civili – ma non possono davvero prenderlo ad esempio o come modello rappresentativo.

Nella motivazione che ha spinto Famiglia Cristiana a conferire il titolo di uomo dell’anno a Napolitano, si legge, tra l’altro: «Nel pieno di una crisi economica e politica difficilissima, il Presidente è stato per l'intera nazione un punto di riferimento imprescindibile, una bussola credibile e affidabile al di sopra di ogni schieramento di parte (…), indicando sempre ciò che unisce il Paese a scapito di ciò che divide».

Vorremmo sommessamente ricordare al settimanale delle Paoline che accanto all’economia ed alla politica esistono anche altri valori, che la Chiesa Cattolica – nella sua suprema autorità del Romano Pontefice – proclama come assoluti e non negoziabili. Tra questi valori vi è quello della vita, sempre e comunque degna di essere vissuta, rispetto alla quale nessuna autorità terrena può arrogarsi un diritto di soppressione. Tale principio, peraltro, fu pubblicamente ribadito proprio durante i giorni convulsi in cui si consumava la tragedia di Eluana dallo stesso Santo Padre Benedetto XVI nel suo messaggio per la XVII Giornata Mondiale del Malato (2 febbraio 2009). In quell’occasione, infatti, il Papa ricordò che «occorre sempre affermare con vigore l’assoluta e suprema dignità di ogni vita umana», poiché «non muta, con il trascorrere dei tempi, l’insegnamento che la Chiesa incessantemente proclama: la vita umana è bella e va vissuta in pienezza anche quando è debole ed avvolta dal mistero della sofferenza».

IL SENSO DELLA VOSTRA MORTE

Preghiera di CAMILLO LANGONE

Da “il foglio” del 28 dicembre 2011




Cari martiri nigeriani, caduti per mano di maomettani che prendono sul serio il Corano, perdonate i cristiani che non prendono sul serio il Vangelo, e perciò non sanno quello che dicono.


Perdonate il capo della sala stampa vaticana, padre Lombardi , che parla di odio cieco e di insensata violenza, quando è evidente che l’odio ci vede benissimo, e la violenza eccome un senso se ce l’ha ………

Ma non pensate che i cristiani europei siano tutti così obnubilati: a San Marino c’è Luigi Negri, Vescovo di Dio e non della Cei, secondo il quale “i martiri sono un fattore propulsivo e dinamico. Dobbiamo concepire questo martirio come la grande risorsa che lo Spirito mette nelle mani della Chiesa per riprendere il suo cammino di fede e di evangelizzazione dell’uomo.” Eccolo il senso della vostra morte. E del perdono che vi prego di concedere a loro che sono tiepidi e a noi che non siamo abbastanza ardenti.

lunedì 26 dicembre 2011

UN NUOVO INIZIO

Nasce oggi la speranza del mondo

di Marina Corradi
da Avvenire

Il cielo di dicembre è grigio sopra lo specchio calmo del lago. Nes­suno, nella piazzetta di Orta. Un battello trasborda sull’isola San Giu­lio. Come sbarchi, ti meraviglia il si­lenzio in cui sprofondi, un silenzio rotto soltanto dallo sciabordio del­l’acqua, al molo. Ti inoltri per il vi­colo verso il monastero benedetti­no Mater Ecclesiæ, seguita solo dal rumore dei tuoi passi. L’edificio del­l’ex seminario, affidato nel 1973 a sei monache, oggi ne ospita 75, di cui 10 novizie e 2 postulanti. Appe­si al portone gli orari della giornata: dalle lodi mattutine delle 4,50 il tem­po è scandito fra preghiera e lavoro fino a compieta, a sera; poi, si leg­ge, è il 'grande silenzio' della not­te. Un silenzio ancora più grande di questo? ti domandi, tu già un po’ smarrita e quasi assordata da que­sta pace.

Anna Maria Cànopi, 80 anni, la Ma­dre superiora, è una donna esile, con due vivi occhi azzurri sul volto magro. È la fondatrice: quando ar­rivò con le prime sorelle, racconta sorridendo, l’edificio era in abban­dono, mancava luce, telefono, per­fino l’acqua bisognava andare a prendere, a un pozzo. Come una fondazione monastica di evi antichi qui, in questo alto Piemonte, a un’o­ra da Milano.

Siamo venuti nel silenzio della clausura a parlare di speranza. Ma­dre, quanto delle paure e delle an­sie di fuori arriva fra queste mura?

Ho l’impressione che arrivi tutto, perfino ciò che non viene detto. Nel Signore si percepisce ogni cosa, in questo silenzio si sente anche ciò che non è pronunciato. Per iscritto, per e-mail, o di persona, la dome­nica a messa nella basilica di San Giulio o nella settimana, sono mi­gliaia ogni anno le persone che ven­gono a chiedere sostegno per la lo­ro fede, o semplicemente il coraggio di vivere. Questo soprattutto: do­mandano il coraggio di vivere. Tut­ta la vita nostra e la nostra preghie­ra sono date per chi domanda que­sto aiuto, e anche per chi non può o non vuole venire, o non sa neanche di noi; la nostra vita è soprattutto per gli abbandonati, per quelli di cui nessuno si ricorda. Abbiamo una vocazione di materna supplenza a ciò che manca, di fede e di speran­za, agli uomini.

In tempi di crisi la pressione di que­sta domanda di speranza si fa più forte?

Sì, le difficoltà economiche accre­scono l’insicurezza e lo smarrimen­to. C’è perciò sempre più gente che si affida alla nostra preghiera. Ven­gono anche persone che non cre­dono in Dio, ma ci chiedono ugual­mente: pregate per noi! Come cer­cando nel buio una mano che li so­stenga e li accompagni.

La vostra prima preghiera, lei dice, è per gli abbandonati, per gli sco­nosciuti miserabili di cui ignorate anche il nome. Dunque su quest’i­sola apparentemente lontana da­gli uomini voi percepite profonda­mente il dolore che grava sul mon­do.

Certo, sentiamo addosso a noi il pe­so del dolore e del male; anzi, ci sen­tiamo noi stesse peccatrici. La vo­cazione claustrale è interamente immersa nel mistero della Croce. Chi viene qui ci dice: Beate voi, che vivete in questa pace! Sì, è vero: Cri­sto è la nostra pace. Ma questa no­stra casa non è affatto estranea al mondo, e la pace di Cristo non è spensieratezza; è la pace delle Bea­titudini, che annunciano: Beato chi soffre... Qui partecipiamo della Cro­ce, che continua nella storia umana, ma Cristo è risorto e ci libera dalla tristezza e dalla morte.

Non fanno più fatica gli uomini, og­gi, a mantenere la speranza cri­stiana?

In un tempo in cui con la rapida informazione sappiamo ciò che av­viene in tutto il mondo, credo che oggi per molti il rischio sia di sentirsi schiacciati da tante sciagure, care­stie e cataclismi che un tempo i­gnoravamo. Si vive, inoltre, dentro un nichilismo che nega la speran­za. Allora si finisce con il chiedersi: ma è vita, questa? Però, come dice­vo anche stamattina a un’ospite af­franta, io sono certa che non c’è confronto fra le tribolazioni del­l’oggi e la gioia eterna che ci atten­de. Anche la madre che perde un fi­glio deve sapere, nel suo dolore straziante, che quel figlio ora vive in Cristo, e non le è mai stato co­sì vicino, e non le verrà mai più tolto.

Risuona, tra le mura del mo­nastero, una campanella squillante. Chiama all’ora Nona. Madre Cànopi si avvia alla cappella dove, oltre la grata, le monache sono una schiera ordina­ta di veli neri, o bianchi, quelli del­le novizie. Cantano, con le loro vo­ci chiare. Quanti anni avranno le ra­gazze che attendono di pronuncia­re i voti? Come si sceglie, a vent’an­ni, una vita dentro a questo silen­zio? Sull’altra sponda, nei bar di Or­ta, le radio e le tv accese combatto­no contro la densa pace del lago. Che qui sull’isola invece si allarga, sovrana.

Perché fuori di qui abbiamo così paura del silenzio?

Sorride la Cànopi: un giorno sono andata in città, dal dentista, per u­na operazione. Per tutto il giorno in studio lì si tiene accesa la radio – canzoni, battute, parole vuote. Ma non la spegnete mai?, ho doman­dato. No, non la si spegne… Il ru­more consente di evadere. Se si rien­tra in se stessi si deve cambiare: al­lora si preferisce stordirsi. Chi vie­ne al monastero a volte, all’inizio, è spaventato dal silenzio. Poi si abi­tua e lo gusta, e quando va via desi­dera ritornare.

Anche la vecchiaia fa molta paura, fuori. Lei ha compiuto 80 anni. Co­me vive la sua età?


Si teme la vecchiaia perché non se ne capisce più il valore. Certo, l’uo­mo esteriore invecchia e deperisce, ma nella fede l’uomo interiore cre­sce fino alla statura di Cristo, cioè fino alla vita eterna. Io trovo oggi la mia vita più ricca, più piena che da giovane. Quest’anno sono stata malata due mesi. Non ho avu­to paura, però: la vita vera è Cristo dentro di me.

Ci opprime, fuori, una an­goscia del futuro; molti non hanno figli non solo per ragioni economiche, ma per paura del "brutto mondo" in cui li mette­rebbero.


Noi non sappiamo come sarà il mondo domani, ma sappiamo che Cristo è il Signore della storia. E sappiamo anche che ogni bambino che viene al mondo porta una nuova speranza. Tutta la vita è nelle mani di Dio; è in questa cer­tezza che sorge il desiderio di dare al mondo nuovi figli.

Come porta, come trasmette lei, a chi viene a cercarla, la certezza del­la sua fede?

Se si crede nella risurrezione di Cri­sto, questa certezza si legge sui no­stri volti.

Ma c’è gente che vorrebbe questa certezza, e non la trova.

Bisogna avere allora l’umiltà di do­mandare, e di accettare anche un piccolo lume, perché diventi fiac­cola. Bisogna attaccarsi alla spe­ranza di chi ce l’ha, come fanno quelli che ci dicono: non ho fede, però preghi per me. Quell’implora­zione è già un principio di speran­za.

Madre, cos’è il Natale per lei?


È un evento che si fa presente, che avviene oggi. La Liturgia ci fa dire: Cristo è nato oggi. Hodie , "oggi", cantiamo in latino il giorno di Na­tale. E per questa certezza a Natale siamo liete, come quando in una ca­sa nasce un bambino. Nasce davve­ro per noi Gesù, la speranza del mondo.

giovedì 22 dicembre 2011

UN OGGI CHE NON HA TRAMONTO

Dio, in quel Bambino nato a Betlemme, si è avvicinato all’uomo: noi Lo possiamo incontrare adesso, in un «oggi» che non ha tramonto.
Vorrei insistere su questo punto, perché l’uomo contemporaneo, uomo del "sensibile", dello sperimentabile empiricamente, fa sempre più fatica ad aprire gli orizzonti ed entrare nel mondo di Dio. La redenzione dell’umanità avviene certo in un momento preciso e identificabile della storia: nell’evento di Gesù di Nazaret; ma Gesù è il Figlio di Dio, è Dio stesso, che non solo ha parlato all’uomo, gli ha mostrato segni mirabili, lo ha guidato lungo tutta una storia di salvezza, ma si è fatto uomo e rimane uomo.

L’Eterno è entrato nei limiti del tempo e dello spazio, per rendere possibile «oggi» l’incontro con Lui. I testi liturgici natalizi ci aiutano a capire che gli eventi della salvezza operata da Cristo sono sempre attuali, interessano ogni uomo e tutti gli uomini. Quando ascoltiamo o pronunciamo, nelle celebrazioni liturgiche, questo «oggi è nato per noi il Salvatore», non stiamo utilizzando una vuota espressione convenzionale, ma intendiamo che Dio ci offre «oggi», adesso, a me, ad ognuno di noi la possibilità di riconoscerlo e di accoglierlo, come fecero i pastori a Betlemme, perché Egli nasca anche nella nostra vita e la rinnovi, la illumini, la trasformi con la sua Grazia, con la sua Presenza.
Il Natale, dunque, mentre commemora la nascita di Gesù nella carne, dalla Vergine Maria - e numerosi testi liturgici fanno rivivere ai nostri occhi questo o quell’episodio -, è un evento efficace per noi.

BENEDETTO XVI: UDIENZA GENERALE 21 DICEMBRE 2011

VACLAV HAVEL E IL FRUTTIVENDOLO

IL POTERE DEI SENZA POTERE

 
In quegli anni dominati dalla ideologia il testo di Havel rappresentò uno spiraglio di luce, l’apertura di una prospettiva nuova verso orizzonti finalmente diversi da quelli imposti dai muri totalitari. Havel scriveva “Il sistema post-totalitario è ossessionato dal bisogno di legare ogni cosa con un regolamento. La vita in esso è percorsa da una rete di ordinanze, avvisi, direttive, norme disposizioni e regolamenti. (non per niente se ne parla come di un sistema burocratico)… l’uomo è solo l’insignificante ingranaggio di un meccanismo gigantesco; il suo valore è limitato alla funzione che in esso svolge... tutto deve essere il più possibile delimitato, codificato e controllato. Ogni deviazione dal percorso prestabilito è bollata come errore, arbitrio e anarchia. Dal cuoco del ristorante che senza il permesso dell’apparato burocratico non può cuocere per gli ospiti qualche specialità che si discosti dalle norme stabilite, al cantante che senza l’autorizzazione dell’apparato burocratico non può cantare in un concerto la sua nuova canzonetta, sono tutti uomini legati, in ogni manifestazione della loro vita, dal filo burocratico delle ordinanze….”.



Era questo il potere cui era soggetto l’uomo dell’Est come dell’Occidente, il potere di norme e prescrizioni che ingabbiavano la libertà, un potere che è più forte del sistema di pensiero cui obbedisce tanto che l’uomo ne è asservito tanto da ridursi ad una pedina dell’ingranaggio come Havel spiega nel suo famoso esempio del fruttivendolo che espone tra la sua merce un’insegna in cui si legge “lavoratori di tutto il mondo unitevi. Perchè, si chiede Havel, lo fa? Perchè espone un cartello che non c’entra nulla con la frutta e la verdura che vende? Perchè così facendo “egli dichiara la propria fedeltà (e non può farlo altrimenti se vuole che la sua dichiarazione venga accettata), nel solo modo che il regime è in grado di recepire, ossia accettando il rituale prescritto, accettando le apparenze come realtà, accettando le regole fissate del gioco. Così facendo, tuttavia, diventa egli stesso una pedina del gioco, rendendone possibile la continuazione e l’esistenza stessa“.
Havel ha attraversato il Muro di Berlino con il suo fruttivendolo, è arrivato in Occidente con questo esempio che è rimasto nella memoria, perchè la coscienza comincia a ridestarsi quando il fruttivendolo non espone più quel cartello. E questo ha voluto dire Havel da quel lontano 1979 è sempre possibile, è un gesto di libertà che l’uomo può fare non obbedendo al sistema e rivendicando il suo diritto a vivere nella verità e non più nella menzogna. Havel è entrato così dentro la vita dell’Europa con un semplice fruttivendolo, con il suo diritto alla libertà, un diritto che l’uomo può esercitare sempre. Questo è il “potere dei senza potere”, il potere degli uomini che hanno come unico strumento il loro cuore, che sanno ascoltarlo, che sanno comunicare i suoi battiti tesi all’infinito. Ricordare oggi Vaclav Havel è ricordare prima del grande politico l’uomo che ha insegnato all’Europa la via del “potere dei senza potere”
Anna Vercors socio di SamizdatOnLine

lunedì 19 dicembre 2011

A REBIBBIA INCONTRO A GESU'

BENEDETTO XVI A COLLOQUIO CON I DETENUTI

Quelle che seguono sono le ultime due domande e risposte del colloquio che Benedetto XVI ha avuto con i detenuti del carcere romano di Rebibbia, la mattina del 18 dicembre, quarta domenica di Avvento.



PERCHÉ PARLAR BENE ANCHE DI CHI HA FATTO DEL MALE

D. – Santità, sono Federico, parlo a nome dei persone detenute del G14, che è il reparto infermeria. Cosa possono chiedere degli uomini detenuti, malati e sieropositivi al papa? Al nostro papa, già gravato dal peso di tutte le sofferenze del mondo, chiedono che preghi per loro? Che li perdoni? Che li tenga presente nel suo grande cuore? Sì, noi questo vorremmo chiedere, ma soprattutto che portasse la nostra voce dove non viene sentita. Siamo assenti dalle nostre famiglie, ma non nella vita, siamo caduti e nelle nostre cadute abbiamo fatto del male ad altri, ma ci stiamo rialzando. Troppo poco si parla di noi, spesso in modo così feroce come a volerci eliminare dalla società. Questo ci fa sentire sub-umani. Lei è il papa di tutti e noi la preghiamo di fare in modo che non ci venga strappata la dignità, insieme alla libertà. Perché non sia più dato per scontato che recluso voglia dire escluso per sempre. La sua presenza è per noi un onore grandissimo! I nostri più cari auguri per il Santo Natale, a tutti.

BENEDETTO XVI – Si, mi ha detto parole veramente memorabili, siamo caduti, ma siamo qui per rialzarci.
Questo è importante, questo coraggio di rialzarsi, di andare avanti con l’aiuto del Signore e con l’aiuto di tutti gli amici. Lei ha anche detto che si parla in modo feroce di voi, purtroppo è vero, ma vorrei dire non solo questo, ci sono anche altri che parlano bene di voi e pensano di voi. Io penso alla mia piccola famiglia papale, sono circondato da quattro suore laiche e parliamo spesso di questo problema, loro hanno amici in diverse carceri, riceviamo anche doni da loro e diamo da parte nostra il nostro dono, quindi questa realtà è in modo molto positivo presente nella mia famiglia e penso in tante altre. Dobbiamo sopportare che alcuni parlano in modo feroce, parlano in modo feroce anche contro il papa e tuttavia andiamo avanti. Mi sembra importante incoraggiare tutti che pensino bene, che abbiano il senso delle vostre sofferenze, abbiano il senso di aiutare nel processo di rialzamento e diciamo che io farò il mio per invitare tutti a pensare in questo modo giusto, non in modo dispregiativo, ma in modo umano, pensando che ognuno può cadere, ma Dio vuole che tutti arrivino da lui, e noi dobbiamo cooperare con lo Spirito di fraternità e di riconoscimento anche della propria fragilità, perché possano realmente rialzarsi e andare avanti con dignità e trovare sempre rispettata la propria dignità, perché cresca, e possano così anche trovare gioia nella vita, perché la vita ci è donata dal Signore e con una sua idea. E se riconosciamo questa idea di Dio che è con noi, anche i passi oscuri hanno il loro senso per darci più la riconoscenza di noi stessi, per aiutare e diventare più noi stessi, più figli di Dio e così e realmente essere felici di essere uomini, perché creati da Dio anche in diverse condizioni difficili. Il Signore vi aiuterà e noi siamo vicini a voi.

IL PERDONO DI DIO E QUELLO DELLA CHIESA

D. – Mi chiamo Gianni, del Reparto G8. Santità, mi è stato insegnato che il Signore vede e legge dentro di noi, mi chiedo perché l’assoluzione è stata delegata ai preti? Se io la chiedessi in ginocchio, da solo, dentro una stanza, rivolgendomi al Signore, mi assolverebbe? Oppure sarebbe un’assoluzione di diverso valore? Quale sarebbe la differenza?

BENEDETTO XVI – Sì: è una grande e vera questione quella che lei porta a me. Direi due cose. La prima: naturalmente, se lei si mette in ginocchio e con vero amore di Dio prega che Dio perdoni, perdona. È sempre la dottrina della Chiesa che se uno, con vero pentimento, cioè non solo per evitare pene, difficoltà, ma per amore del bene, per amore di Dio chiede perdono, riceve il perdono da Dio. Questa è la prima parte. Se io realmente conosco che ho fatto male, e se in me è rinato l’amore del bene, la volontà del bene, il pentimento che non ho risposto a questo amore, e chiedo da Dio che è il bene, il perdono lo dona. Ma c’è un secondo elemento: il peccato non è solamente una cosa “personale”, individuale, tra me e Dio; il peccato ha sempre anche una dimensione sociale, orizzontale. Con il mio peccato personale, tuttavia, anche se forse nessuno lo sa, ho danneggiato anche la comunione della Chiesa, sporcato la comunione della Chiesa, sporcato l’umanità. E perciò questa dimensione sociale, orizzontale del peccato esige che sia assolto anche a livello della comunità umana, della comunità della Chiesa, quasi corporalmente. Quindi, questa seconda dimensione del peccato che non è solo contro Dio ma concerne anche la comunità, esige il sacramento, che è il grande dono nel quale posso, nella confessione, liberarmi di questa cosa e posso realmente ricevere il perdono nel senso anche di una piena riammissione nella comunità della Chiesa viva, del Corpo di Cristo. E così, in questo senso, l’assoluzione necessaria da parte del sacerdote, il sacramento, non è una imposizione che limita la bontà di Dio ma, al contrario, è un’espressione della bontà di Dio perché mi dimostra che anche concretamente, nella comunione della Chiesa, ho ricevuto il perdono e posso ricominciare di nuovo. Quindi, io direi di tenere presenti queste due dimensioni: quella verticale, con Dio, e quella orizzontale, con la comunità della Chiesa e dell’umanità. L’assoluzione del prete, l’assoluzione sacramentale è necessaria per realmente risolvermi, assolvermi da questo legame del male e ri-integrarmi nella volontà di Dio, nell’ottica di Dio, completamente nella sua Chiesa, e darmi la certezza, anche quasi corporale, sacramentale: Dio mi perdona, mi riceve nella comunità dei suoi figli. Penso che dobbiamo imparare a capire il sacramento della penitenza in questo senso: una possibilità di trovare, quasi corporalmente, la bontà del Signore, la certezza della riconciliazione.

E' STATA LA CHIESA A CUSTODIRE LA CULTURA DEL POPOLO

Monsignor Negri: "Una ragione non positivista
ma che si chiede il senso delle cose
permette allo Stato
di essere "liberale" e "di diritto
IL VESCOVO DI SAN MARINO A CESENA
IN UN INCONTRO PROMOSSO DAL CROCEVIA

Può sembrare paradossale che in questo momento di crisi economica e culturale sia il Papa a suggerire di affrontarla accettando fino in fondo la sfida attraverso la ragione. Una ragione non 'positivista' (che accetta solo la realtà come appare) ma che si apre al senso della realtà nel suo complesso fino ad arrivare a chiedersi chi ne è all'origine. E' questo il senso dell'intervento che monsignor Luigi Negri, vescovo 70enne di San Marino e del Montefeltro, ha tenuto ieri sera a Cesena nella chiesa di Sant'Agostino. Era stato invitato da alcuni centri culturali cattolici e dall'associazione giuristi cattolici per illustrare il discorso di Benedetto XVI in settembra al Bundestag di Berlino. Davanti ad una platea di qualche centinaio di persone (tra questi anche il vescovo di Cesena e Sarsina Douglas Regattieri), Negri ha spiegato come storicamente sia stata la chiesa, citando due padri dei primi secoli Sant'Agostino e Origene, a custodire la cultura del popolo. E anche come la chiesa si sia 'messa di traverso' prima all'impero romano poi ad altre potenze e ai principi perché l'assolutismo statale non schiacciasse la liberta della persona.
Il Papa non gioca di rimessa, ha continuato Negri, ma detta le regole: nel processo che Lui descrive c'è un'originalità della fede, e sono evidenziate le condizioni che permettono allo Stato di essere veramente "liberale" e "di diritto", davvero "laico"; senza assolutizzazione del positivismo della ragione e prevaricazione della libertà della persone.
Rispondendo infine ad alcune domande, ha detto di non voler entrare nell'ambito politico "non perchè- ha detto con un sorriso ironico- non abbia idee, ma perchè, soprattutto in una chiesa, non posso dirle apertis verbis". Tuttavia spiegando le cause della crisi ha detto che la politica "non è neutrale, e neutrale non è neppure il governo tecnico".

Da "Il resto del carlino" Serafino Drudi

IN MEMORIA DI VACLAV HAVEL

MIRACOLO A PRAGA

Nel 1990 Vaclav Havel, appena eletto presidente della repubblica Ceca e Slovacca,  riceve a Praga Giovanni Paolo Secondo:


“Non so, se so, cosa sia un miracolo. Nonostante ciò oso dire che, in questo momento, sto partecipando a un miracolo: l’uomo che ancora sei mesi fa veniva arrestato come nemico dello Stato, oggi, nella veste di presidente di questo Stato, porge il benvenuto al primo Pontefice che, nella storia della Chiesa cattolica, ha poggiato il piede su questa terra.

 Non so, se so, cosa sia un miracolo. Nonostante ciò oso dire che oggi pomeriggio parteciperò a un miracolo: sullo stesso posto, dove cinque mesi fa – nel giorno in cui ci rallegravamo per la canonizzazione di Agnese Boema – si decideva del futuro del nostro Paese, oggi il Capo della Chiesa cattolica celebrerà la santa Messa e probabilmente ringrazierà la nostra Santa per la sua intercessione presso Colui che tiene nelle sue mani il corso imperscrutabile di tutte le cose.

Non so, se so, cosa sia un miracolo. Nonostante ciò oso dire che in questo momento sto partecipando a un miracolo: nel Paese devastato dall’ideologia dell’odio arriva il messaggero dell’amore; nel Paese devastato dal governo degli ignoranti arriva il simbolo vivo della cultura; nel Paese fino a poco fa devastato dall’idea del confronto e della divisione del mondo, arriva il messaggero della pace, del dialogo, della tolleranza reciproca, della stima e della pacata comprensione, annunciatore dell’unità fraterna nella diversità.

Durante lunghi decenni, lo spirito veniva bandito dalla nostra Patria. Ho l’onore di essere il testimone del momento, nel quale il suo suolo viene baciato dall’apostolo della spiritualità. Benvenuto in Cecoslovacchia, Sua Santità!».

venerdì 16 dicembre 2011

IL BULLO DI TURNO

IL PRESIDE E GLI SCOLARETTI


Bisognava capirlo nel momento in cui disse: “Preferisco che ascoltiate, anziché applaudire”. Era il giorno del debutto di Mario Monti al Senato, e l’aria da alto e disciplinante tecnocrate velò al pubblico l’anima un po’ bulla, che si faceva già beffe dei senatori (io non ho bisogno di applausi, a differenza vostra, io ho delle cose da spiegare che fareste bene a memorizzare, cari i miei piccoli inadeguati contadinelli).

Poi lui ascoltava e ascoltava, prendeva appunti, immobile, ruotava il busto quel minimo necessario per intercettare la traiettoria dell’onorevole parlante di turno, non aveva bisogno né di sbattere le palpebre o respirare né di andare in bagno a incipriarsi il naso (in sedute da otto ore circa). Si stava riscaldando. Sparava una battuta qui e là, “Vespa, non sono qui per compiacere lei”, “Fornero, commuoviti ma correggimi”, “Cronista, faccia pure le sue domande” (tanto io non le risponderò mai, miserello), “Come ho già detto prima che lei arrivasse” (in ritardo), “I premier passano, i professori restano”, ma sembrava solo il retaggio universitario (gli studenti di Monti arrivavano terrorizzati agli esami), l’abitudine a trattare con esseri inferiori.

Quest’abitudine quasi secolare, unita evidentemente alla sensazione di essere un incrocio molto riuscito fra Robert Schuman e Altiero Spinelli, un ego per niente sobrio insomma, hanno liberato il bullo (intellettuale) che è in lui. “Scusatemi se valorizzo il Parlamento”, ha detto ieri il premier, ironico, al Senato, durante le proteste della Lega: “Dal punto di vista metodologico, cosa diversa è semplicemente, come certo è facile e magari appagante fare in casa nostra, scagliarsi contro la supremazia di certi paesi e presentare proposte in modo tale che ci sia l’assoluta sicurezza che vengano respinte”, cioè autodistruggersi stupidamente, altro è fare “un lavoro pedagogico che in passato l’Italia non ha molto tentato” (Monti, a differenza dei predecessori incapaci e pasticcioni, prenderà per mano l’Europa e le insegnerà il mondo passo passo). Ieri è toccato all’Europa, l’altroieri all’Italia: alle ventidue (un bell’orario, un’ottima alternativa alla fiction e alle televendite) Monti ha presentato il maxi emendamento e ha fatto qualche precisazione forzuta, gliele ha cantate insomma (per l’occasione il volto ha quasi tradito un’espressione).


“Rifiuto risolutamente l’idea che questa sia solo una manovra di meccanica fiscale”, innanzitutto: Monti ha spiegato di avere introdotto cose mai pensate prima da quegli altri bifolchi. “Non occorrevano professori per questa manovra, verissimo, parole sacrosante, ma allora perché non l’avete fatto voi?” (e di nuovo, per i sordi: “Perché non l’avete fatto voi?”). Perché non l’avete fatto voi, poveri disperati? Perché “eravate paralizzati, sennò non saremmo arrivati noi, non ci avreste chiamati. Io spero (sottotitolo: non credo) che torni presto il tempo in cui non avrete bisogno di professori o di tecnici, il tempo in cui voi sappiate guardare abbastanza lontano per fare le cose che servono”. Se avesse avuto più tempo, se non fosse stato così tardi, Mario Monti avrebbe chiesto l’interdizione legale di tutto il Parlamento per manifesta incapacità. Invece li ha solo bocciati tutti, con sadismo professorale

di Annalena Benini

Tratto da Il Foglio del 15 dicembre 2011

lunedì 12 dicembre 2011

LA NECESSITA' DELLA GIUSTIZIA

UNA PROPOSTA

IL CROCEVIA invita ad un incontro cittadino dal titolo “Qual è il vero bene per l’uomo?”, con il Vescovo di San Marino – Montefeltro, Mons. Luigi Negri, che illustrerà il discorso del Papa al Parlamento Tedesco.


L’incontro è fissato per il giorno 16 Dicembre 2011, alle ore 21, presso la Chiesa di Sant’Agostino di Cesena.

Distinguere il bene dal male


STEFANO SPINELLI
IL CROCEVIA
Primo passaggio. La necessità della giustizia.

“Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male (1 Re 3,9)”. Con queste parole il giovane re Salomone risponde a Dio che gli era apparso in sogno e che gli aveva concesso di domandare qualunque cosa avesse voluto in occasione della sua intronizzazione. “Che cosa chiederà il giovane sovrano in questo momento? – si chiede Papa Benedetto XVI – Successo, ricchezza, una lunga vita, l’eliminazione dei nemici? Nulla di tutto questo”. Egli non chiede il potere ma la giustizia.

Con questo episodio tratto dalla Bibbia comincia il discorso che il Papa ha tenuto al Parlamento federale tedesco. Si immagini l’impatto di queste parole con chi ha oggi responsabilità istituzionali a vario titolo. Penso che ciascuno dei presenti si possa essere sentito interpellato dal Papa: “cosa chiederei io, al posto di Salomone?”.

Secondo passaggio. Cos’è la giustizia.

La richiesta di Salomone è oggi ancor più decisiva, perché mai l’uomo ha acquistato un potere così grande. L’uomo può distruggere il mondo. Può manipolare se stesso. L’eterna tensione dell’uomo di farsi da solo e diventare lui la misura di tutte le cose, come fu quella di Adamo nel mangiare la mela porta da Eva che lo avrebbe fatto diventare Dio, pare oggi più vicina. L’enorme rischio è quello di cedere completamente al richiamo del potere senza porsi davanti a esso in termini di giustizia e senza più saper rispondere alla domanda essenziale del bene e del male.

Il grande sviluppo scientifico e tecnologico, che permette cose prima impensabili, unito a un’applicazione esasperata del principio di autodeterminazione e il relativismo imperante, per cui tutto si equivale, stanno producendo nel nostro paese e nella comunità internazionale, un mutamento significativo della stessa esperienza umana a livello costitutivo. Una posizione di giustizia oggi non è più richiesta solo a livello etico o sociale, ma addirittura a livello antropologico. Quella cui siamo di fronte è una gravissima crisi, prima che politica, culturale, direi quasi una crisi di umanità. Vi è come una riduzione dell’umano, un’incertezza circa ciò che è umano, uno smarrimento dell’essere umano e di ciò che è buono e giusto e vero. L’enciclica Caritas in Veritate di Benedetto XVI afferma chiaramente che “la questione sociale oggi è diventata radicalmente questione antropologica”.

Terzo passaggio. Il principio maggioritario non basta.

Sembra addirittura che si sia spenta la stessa domanda di giustizia nell’uomo, sostituita dalla richiesta di legalità. Ciò che conta sembra essere il rispetto delle regole che l’uomo stesso pone, secondo il principio maggioritario, indipendentemente dalla ricerca di una giustizia che spetta all’uomo riconoscere in quanto tale. Ciò che conta sembra essere la rivendicazione di diritti, come espressione di volontà, o la parificazione delle esperienze, tanto tutto è uguale, indipendentemente dalla bontà o meno delle pretese rivendicate per ciascuna creatura umana, anche la più piccola.

La vera scommessa politica per una società più giusta presuppone invece che, nell’individuare ciò che spetta a ciascuno, si faccia riferimento a una “misura” di organizzazione delle relazioni umane che non sia legata a quello che ciascuno di noi pensa che sia giusto, né a quello che viene deciso dalla maggioranza dei cittadini. C’è qualcosa che è connaturale all’uomo e che gli spetta indipendentemente da quello che le istituzioni concretamente gli riconoscono o gli negano. Insomma – dice il papa – “nelle questioni fondamentali del diritto, nelle quali è in gioco la dignità dell’uomo e dell’umanità, il principio maggioritario non basta”.

La vera scommessa culturale dovrebbe essere cercata nell’emersione, a livello di riconoscimento giuridico, di ciò che valga la pena assicurare come esperienza significativa per l’uomo, che corrisponda cioè alle sue vere esigenze fondamentali.

E’ un problema di contenuti.

E – conclude il papa – “ciò che in riferimento alle fondamentali questioni antropologiche sia la cosa giusta e possa diventare diritto vigente, oggi non è affatto evidente di per sé”.

Quarto passaggio. Oltre il positivismo.

Allora la domanda fondamentale torna a essere quella iniziale: come riconosciamo ciò che è buono e giusto per l’uomo?

Qui il Papa sgombra subito il campo da un possibile equivoco: per un uomo di fede si potrebbe ritenere che la giustizia sia quella divina. Ma “contrariamente ad altre grandi religioni, il cristianesimo non ha mai imposto allo stato e alla società un diritto rivelato. Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto”.

Il fatto è che il positivismo ha offerto un concetto distorto di natura e di ragione. Se infatti si considera la natura “in modo puramente funzionale”, ossia “un aggregato di dati oggettivi, congiunti gli uni agli altri quali cause ed effetti”, allora da essa realmente non può derivare alcuna indicazione che sia in qualche modo di carattere etico. La stessa cosa vale per la ragione intesa in senso puramente scientifico, per cui “ciò che non è verificabile o falsificabile non rientra nell’ambito della ragione in senso stretto”. Nel suo complesso, questa visione positivista del mondo “non è una cultura che corrisponda e sia sufficiente all’essere uomini in tutta la sua ampiezza”.

E’ una visione che sta stretta all’uomo. E’ limitante. E qui Benedetto XVI introduce un’immagine che è bellissima e di estrema forza rappresentativa. Questa visione del mondo “assomiglia agli edifici di cemento armato senza finestre, in cui ci diamo il clima e la luce da soli e non vogliamo più ricevere ambedue le cose dal mondo vasto di Dio”.

Quinto passaggio. L’ecologia umana.

La richiesta che il Papa formula ai potenti del mondo è questa: “Esiste anche un’ecologia dell’uomo. Anche l’uomo possiede una natura che deve rispettare e che non può manipolare a piacere. L’uomo non è soltanto una libertà che si crea da sé. La sua volontà è giusta quando egli rispetta la natura, la ascolta e quando accetta se stesso per quello che è, e che non si è creato da sé. Proprio così e soltanto così si realizza la vera libertà umana”.

In fondo, l’uomo trova in se stesso un complesso di esigenze – di bontà, di giustizia, di felicità – che sono ciò di cui egli è fatto e con le quali egli si paragona continuamente con la realtà.

E’ un po’ come se l’uomo avesse già in sé l’orizzonte verso cui approdare, e con questa tensione nel cuore si volgesse a definire e precisare via via il cammino, cadendo e riprendendosi, alla luce delle nuove sfide che sempre pone l’impatto con la realtà mutevole in cui egli è immerso.

“Penso che anche oggi – conclude il papa – non potremmo desiderare altro che un cuore docile, la capacità di distinguere il bene e il male e di stabilire così un vero diritto, di servire la giustizia e la pace”.

Una proposta.

Il discorso del Papa al Bundestag di Berlino penso possa giustamente definirsi storico per le profonde implicazioni politico-giuridiche che contiene. E’ un discorso attualissimo, che coinvolge temi che sono decisivi, per tutti, ma in particolare per chi ha responsabilità politiche e per chi opera nel mondo del diritto. Si pensi a come concretamente affrontare i temi legati alla bioetica, oppure a come attuare un corretto pluralismo sociale, al riconoscimento di un diritto naturale preesistente a quello posto dagli uomini, al concetto di laicità dello stato, all’obiezione di coscienza.

Sono tutti temi che possono avere sviluppi e considerazioni diverse se si parte dalla visione “liberante” per l’uomo offerta dal Papa.
Per questo motivo IL CROCEVIA ha pensato di organizzare un incontro cittadino dal titolo “Qual è il vero bene per l’uomo?”, con il Vescovo di San Marino – Montefeltro, Mons. Luigi Negri, che illustrerà il discorso del Papa al Parlamento Tedesco, per aiutarci a capire tutte le implicazioni e tutti i risvolti anche concreti, dello storico discorso.


L’incontro è fissato per il giorno 16 Dicembre 2011, alle ore 21, presso la Chiesa di Sant’Agostino di Cesena.

Credo ne valga la pena.

domenica 11 dicembre 2011

LA SCOMPARSA DELLA PIETA'

Adesso i cattolici che "capiscono" l'aborto non parlino di amore


Dilemma etico sulla 16enne di Trento costretta a interrompere la gravidanza. La famiglia si è rivolta al giudice perché oggi si pretende il diritto di fare qualunque cosa evitando le conseguenze

di Giuliano Ferrara - 11 dicembre 2011, 10:02

La scomparsa della pietà è una notizia che sovrasta la crisi dell’euro e qualsiasi altra notizia. Una ragazza di sedici anni ha abortito, cioè si è liberata annichilendola di una creatura umana concepita nel suo grembo, dopo e a causa di una campagna pedagogica scatenata con le migliori intenzioni dai suoi genitori a nome di un valore sociale sordo a ogni remora di tipo etico (di buone intenzioni è lastricata... eccetera). Padre e madre hanno addirittura chiesto un’ingiunzione di tribunale per costringere all’aborto, senza ottenerla per adesso, e arrivando lo stesso allo scopo attraverso la persuasione forte e la conduzione per mano al patibolo della vita di una bambina recalcitrante. In tempo liturgico, come direbbero i cattolici e come dice la tradizione cristiana, di Avvento. La storia l’ha raccontata Cinzia Sasso, giornalista di Repubblica e first lady della Milano progressista e bendicente. È una storia maledetta e semplice.

Il sesso degli adolescenti, protetto o non protetto dal punto di vista sanitario e concezionale, è un dato di fatto accettato, e perfino custodito in un amicale rigetto delle inibizioni da parte delle famiglie, della maggioranza degli insegnanti, delle amiche e degli amici più grandi, e di ogni altra pallida autorità superstite. Se hai sedici anni, se sei fervorosa e innamorata o anche solo spigliata e avventurosa, e i sentimenti o le pulsioni ti comandano di seguire senza troppi problemi le tempeste ormonali della tua età, allora il massimo del suggerimento cautelativo che scuola, famiglia e stato sanitario ti offrono è quello di garantirti con un preservativo, e guai se alla tv non si parla del preservativo, e guai se il Papa dice che in Africa non è la soluzione del problema della promiscuità generatrice di epidemie, e guai se manca a scuola un distributore automatico. Ma le conseguenze dell’amore non prevedono il laico e fatalista «fa' quel che devi e avvenga quel che può»,e nemmeno l’agostiniano «ama (dilige) e fa' ciò che vuoi»; no, la regola etica moderna e spietata dice che sei autorizzato a fare quel che vuoi, perché sei un soggetto libero, a patto che scansi il rischio delle conseguenze di quello che fai, anche se tra le conseguenze ci fosse la vita umana innocente di un essere concepito per la libertà di nascere e di esistere. Questa la lezione atroce inferta alla ragazzina che amava un poco di buono, secondo gli standard di felicità e benessere della sua famiglia.

La sordità morale rispetto all' aborto è ormai la legge educativa dell'occidente, a solo trentacinque anni dal varo delle norme che sanarono la piaga degli aborti clandestini in Europa, ma insistendo ipocritamente sulla «tutela sociale della maternità». Lo è al punto tale che il tribunale genitoriale chiede aiuto al tribunale civile, perché la cultura prevalente è quella di Obama, che chiama «incidente» e «rischio» l’ipotetica gravidanza di una delle sue figlie, è quella ormai diffusa, nella media considerazione dell’uomo e della donna comuni: le ragazze e i ragazzi devono essere compresi, assecondati e educati secondo principi di critica e decostruzione di ogni possibile autorità o interdetto, e in mezzo a tanto libertarismo sorge però l’idea che devono essere costretti a difendersi dall’aggressione di una creatura nuova, dall’evento patologico del parto, creatura e parto che perfino appigliandosi alla legge è totalmente lecito scongiurare in nome di una vita che sarebbe colpita e devastata da una maternità precoce. Come se l’interruzione precoce della maternità non fosse una devastazione di coscienza e di spirito infinitamente superiore a qualunque sindrome successiva a un parto. Come se non contasse nulla, e non conta nulla, il rispetto creaturale per il terzo incomodo, per l’embrione formato e unico e irripetibile destinato a soccombere per il peso di una scelta ideologica o sociologica.

Anche gli uomini di chiesa si sentono costretti a sociologizzare il problema, a dirsi come il direttore del giornale cattolico chiamato a commentare la storia, «amareggiati» per un aborto che non si può accettare, ma pieni di comprensione per le ansie dei genitori e per la situazione in cui si è trovata la ragazzina.
La comprensione per chi può decidere da forte dell'esistenza dei deboli è solo l'altra faccia della spietatezza verso la vittima di una inversione e trasvalutazione di tutti i valori della vita e dell’amore.




Non mi stiano più a disturbare, questi cattolici comprendenti, con il tema loro caro dell’amore e della solidarietà. Si tengano quelle parole falsamente religiose, e ci lascino una laica e sacra pietà.

giovedì 8 dicembre 2011

IL CODONE DI GODZILLA

Quel demonio del Cav. agita ancora il sonno dei sinceramente democratici




Come il codone di Godzilla, che nel film strisciava minaccioso tra i grattacieli, così la codina (democraticamente demoniaca) del Cav. toglie ancora il sonno e genera tuttora allarme. Ieri, a scorrere la prima pagina del Fatto parevano i giorni d’oro, satolli di escort e intercettazioni.

Grido d’apertura: “Il ritorno del Caimano” – così che il giornale di Padellaro si fa morettiano, dal titolo del film, piuttosto che travagliano, che ha sempre optato per il più riduttivo Cainano. Il quale Travaglio, però, ha l’editoriale lì a fianco intitolato: “Loro piangono, lui fotte” (e si capisce al volo chi con fervore nell’attività è intento). Vignetta a centro pagina: “Il Caimano 2”, ridotto a mostro verde e ben artigliato. E’ che il Cav. non passa, e senza il Cav. non si sa come tirare avanti.

Pure l’infiacchimento televisivo di Benigni – che gira e rigira, dal corpo sciolto a Monti, sempre lì tornava: non sta lontano dal cuore, il Cav.; pure quando è lontano dagli occhi. Così che sull’Unità on line, essendo i lettori della stessa persino più convintamente seguaci del comico che di Bersani, il dibattito si fa mesto e crudele. C’è in giro aria di grande nostalgia: non c’è un vero accanito nemico del Cav. che, al contrario dei suoi amici, non preveda un rapido e vorace ritorno.

Appena un paio di settimane e Berlusconi già manca più agli antiberlusconiani che ai berlusconiani stessi. E nei più si avverte questo strazio interiore – comici con intere sceneggiature da riscrivere, libri che rischiano il macero, giornali che non ne possono più di tirare avanti con la “Lode al loden”, meglio e più martellante di quella di Brecht al Partito. Marco Giusti spiega: “Questi ultimi diciotto anni berlusconiani ci hanno profondamente cambiati, logorati e invecchiati. In qualche modo l’invecchiamento di Benigni ieri sera, la sua stanchezza (…) erano il nostro invecchiamento e la nostra stanchezza”.

Ecco, l’ultima beffa del Cav. – ai suoi profondi detrattori, e quindi ai suoi amatori più carnali: trasformarsi in una sorta di Dorian Gray che uscendo di scena porta sotto le luci, al proprio posto, il ritratto terribilmente invecchiato di quelli che negli ultimi due decenni delle sue azioni (e, si capisce, delle sua cattive azioni) si sono nutriti.

E tutti a domandarsi cosa mai il Cav. stia tramando (secondo il Sole 24 Ore pare che nientemeno “il Cavaliere stia lavorando a un patto con Mario Monti e soprattutto con Corrado Passera”). Così, tutti ancora intorno al Cav., come se il Cav. fosse ancora dov’era – un vero incubo, la sua fine. Nel parapiglia, pareva persino che lo stesso commento sull’Unità (“Mai più senza le donne”) fosse suo: il tema c’era tutto, ma l’azzardo era davvero esagerato.

da Ilfoglio

ORRORE VA DA VESPA

CONTRORDINE COMPAGNI,
MONTI NON E' DEI NOSTRI

E mica solo la Camusso. Qui è tutta una lamentazione, un sospiro, un gemito - che a forza di manovre, di spread e di tagli, la festa per la dipartita (politica) del caro Silvio è bella che rovinata. I balli e lo spumante davanti al Quirinale sono già nostalgia e care memorie - noi c'eravamo, ma adesso che cazzo facciamo? Nemmeno si è vuotato il bicchiere del brindisi fatale - alle nuove sorti gloriose e progressive, liberi dal Caimano e dal bestiario suo, che si ricomincia da capo.


Anzi, pure peggio: dopo aver ammirato e lodato la nuova "sobrietà", il Prof. non ti si va ad appoltronare, quatto quatto, in austero loden, da Bruno Vespa? Dunque, rimettere nel cassetto il cavatappi, l'allarme democratico non è finito.Tanti esultatori delle prima ora, persino della seconda - quella che segnò il passaggio dal loden al barbiere meneghino - ormai disperano di arrivare alle terza.

La festa - ha ragione la Camusso - per la liberazione dal Cav. è decisamente rovinata. A parte il fatto che questo Monti, che uno immaginava nelle ore libere intento a vedere solo i programmi di Rai Educational, fa delle cose che fanno piangere le ministre, figurarsi le casalinghe e le programmiste televisive, ora salta del tutto la linea estrema di demarcazione - quella tra sobrietà e svacco, tra democrazia e satrapia: da Vespa il Prof. va, manco fosse la prima della Scala, manco un seminario sul mercato europeo.
Cos'è Vespa, uno spread? Così l'indicibile comincia a dirsi, tra le più avvertite coscienze: Monti uguale a Berlusconi - bunga bunga a parte. Lo dicono gli studenti in corteo, e pazienza. Lo raccontano i siti più diversamente sparpagliati: "Monti come Berlusconi: aiuti pubblici per le banche". Lo dice il rifondatore Paolo Ferrero: "Monti come Berlusconi". Mentre i principali commentatori, per settimane fervidi sostenitori, rimirano con perplessità e sconforto le decisioni economiche governative - scrive Massimo Giannini: "Diciamo la verità", e diciamola: "Dal governo dei Professori ci saremmo aspettati qualcosa di più".
Magari, alla fine, gli perdoneranno pure la stangata pensionistica - ma tra i suoi sostenitori iniziali nessuno potrà dimenticare l'affronto estetico di andare da Vespa - come se invece del loden portasse un becero cappotto di cammello. "Che perdita di autorevolezza...", sospira Carlo Freccero. "Monti sta perdendo, sta perdendo la sua rigidità. Ma meglio il suo aspetto trombonesco che clownesco da Vespa". La mutazione è avvenuta: se il conduttore scova pure un Apicella di Bruxelles, la rovina sarà completa.
da ILFOGLIO

LACRIME CHIC

La quota commozione, come sempre, è stata affidata a una donna. Il ministro Elsa Fornero ha pianto durante la conferenza stampa sulla manovra di salvezza e sciagura, ha pianto proprio alla parola “sacrifici”, quando doveva annunciare la deindicizzazione delle pensioni, e in molti si sono commossi con lei (ubriacandosi, domenica sera scorsa, per la disperazione della stangata e pensando soprattutto alle proprie vicinissime e inevitabili lacrime). Quanta umanità, consapevolezza, empatia, hanno detto alcuni, e che gioia venire uccisi con tanta emozionata compassione; per i misogini e i cinici, invece, sono state le scarpe strette a fare scoppiare in lacrime Elsa Fornero, cioè lo stesso motivo per cui si commuovevano spesso Stefania Prestigiacomo e Mara Carfagna, lacrimose ex ministre.
In ogni caso, il desiderio altolocato (non del mondo reale) di soffrire, quello per cui in molti gridano ovunque: ancora professor Monti, ci tassi ancora, e applaudono alla catarsi della manovra e allo stile, anzi comprano on line, per fare prima, barche da dieci metri e seconde case perché se non ti tassa Monti non sei nessuno, l’aspirazione frivola a esserci, insomma, è stata sentimentalmente soddisfatta anche dalle lacrime (forse da crollo nervoso, forse da discussioni precedenti per la messa a punto delle misure) del ministro Elsa Fornero.


      Ha regalato la mondana sensazione di fare parte di qualcosa con una grandezza tragica, almeno, di essere dentro la solidarietà nazionale, con le signore che regalano i propri gioielli alla causa come in “Via col vento”, anche se Monti non è sembrato apprezzare molto lo sfogo, la distrazione, la perdita di tempo (“Commuoviti, ma correggimi” non è stato l’equivalente di porgere un fazzoletto ricamato).
Ma le lacrime femminili sono una micidiale arma da fine di mondo, una specie di nucleare segreto nascosto dentro le palpebre. Quando lo si fa esplodere, si può contemporaneamente affondare qualunque artiglio. Funziona così, anche nelle canzonette e nelle serie tivù: lei lo lascia, e piange, lei lo ha tradito, e piange, lei si è già messa con un altro e ha portato via tutti i mobili, e piange.

Le lacrime di una donna lasciano sempre, in chi le guarda scorrere, una sensazione di passeggero stordimento e di senso di colpa. Le lacrime di Elsa Fornero hanno disarmato, per pochi istanti, le incazzature di tutti quelli (non altolocati) che si sentono usati come bancomat, e non sono affatto colpiti dalla rinuncia di Monti al suo stipendio da ministro. Il pianto veloce è il perfetto complemento della sobrietà: l’umanizzazione della catastrofe attraverso una smorfia di dolore e un paio di occhi arrossati, un sorriso nervoso, il bisogno di qualche minuto per riprendersi, nemmeno un fazzoletto. “La parte più dolorosa”, aveva detto Elsa Fornero, prima di emozionarsi. La parte più dolorosa arriva adesso.

Annalena Benini
Ilfoglio

lunedì 5 dicembre 2011

QUID ANIMO SATIS






























AMBROGIO LORENZETTI "ALLEGORIA DEL BUON GOVERNO" SIENA

MONS.
LUIGI NEGRI A
CESENA

VENERDI'  16 DICEMBRE ORE  21

CHIESA DI SANT' AGOSTINO

il discorso del Papa al Bundestag


"Nel Primo Libro dei Re si racconta che al giovane re Salomone, in occasione della sua intronizzazione, Dio concesse di avanzare una richiesta. Che cosa chiederà il giovane sovrano in questo momento importante? Successo, ricchezza, una lunga vita, l’eliminazione dei nemici? Nulla di tutto questo egli chiede. Domanda invece: "Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male. (...)
Che cosa sarebbe se a noi, legislatori di oggi, venisse concesso di avanzare una richiesta? Che cosa chiederemmo? Penso che anche oggi, in ultima analisi, non potremmo desiderare altro che un cuore docile – la capacità di distinguere il bene dal male e di stabilire così un vero diritto, di servire la giustizia e la pace

PER INFORMAZIONI IL CROCEVIA TEL 3356842648
CROSSROADTOM42@GMAIL.COM

domenica 4 dicembre 2011

CHIESA CRISI E LIBERTA'

Non tacere più, Madre Chiesa, ma grida forte e difendi i tuoi figli.

ANTONIO SOCCI

C’è qualcosa di sorprendente – per me, cattolico – nel silenzio della Chiesa di fronte a quello che sta accadendo in Italia e in Europa (come di fronte alla sanguinosa guerra alla Libia o ai tamburi di guerra che arrivano dal Medio Oriente attorno alle armi nucleari iraniane).
I vescovi e la Santa Sede ci hanno abituato a un grande interventismo (per molti perfino esagerato). E’ dunque strano che da settimane non si sia sentita una parola su una crisi che rischia di travolgere l’Europa e il mondo intero e che ha come epicentro l’Italia.
Eppure è la più grave crisi dalla seconda guerra mondiale (nemmeno l’invito – che mi ero permesso di fare – a un’iniziativa di preghiera per l’Italia è stata raccolta).

LA MAZZATA


Lo scenario è cupissimo. Personalmente ho visto di buon occhio la nascita di questo governo, sperando in una grande pacificazione nazionale e nel risanamento economico (sono stato fra i pochi, su questo giornale, a sostenerlo).
Mi auguro ancora che riesca.
Ma devo riconoscere che ormai la delusione è grande non solo per le cadute di stile, l’arroganza o i tempi sbagliati. Soprattutto perché si annunciano provvedimenti disastrosi per gli italiani e per l’economia in generale.

Le famiglie del nostro Paese stanno per essere colpite da una mazzata di dimensioni inaudite da parte dello Stato e i vescovi italiani – che continuamente e giustamente alzavano la loro voce fino a un mese fa chiedendo il “quoziente familiare” e “la crescita” – non proferiscono parola. Sembrano intimiditi dai professori. Ma spennare così i contribuenti con irpef e ici non sembra una performance da “luminari”: sarebbe stato capace qualsiasi politicante. Da “scienziati” tanto celebrati ci si aspettava che finalmente tagliassero gli sprechi, non la sanità (che è già al lumicino). Dovevano andare a tassare i conti correnti in Svizzera (come hanno fatto Germania e Francia) e non dissanguare ancor più i contribuenti onesti che già sono messi in ginocchio dal fisco.
Avrebbero dovuto finalmente mettere a reddito (magari a garanzia del debito) l’enorme patrimonio pubblico, non affamare le famiglie e colpire i malati, deprimendo ancora di più l’economia.

D’altra parte se questi “professori” fossero economisti così bravi non sarebbero stati a suo tempo così entusiasti dell’euro magnificandolo come la via del paradiso. Quando invece è stata la via dell’inferno. Adesso sono stati chiamati a sistemare le cose. Ma il timore è che costoro non siano i medici, bensì la malattia. Anche perché è il rigore monetarista che ha creato il problema, non può essere dunque la soluzione.

FINE DELLA LIBERTA’ ?

La nascita del governo dei tecnici è già stato un colpo alla democrazia (a proposito: dove sono coloro che hanno strillato finora contro il “porcellum” e il parlamento dei nominati? Com’è che si fanno piacere un governo di non eletti da nessuno?). Ma ora vi si aggiunge un colpo pure alla libertà civile ed economica, perché l’ulteriore vessazione fiscale (oltretutto con misure poliziesche) porta a una drastica riduzione della libertà.
Lo Stato è sempre più padrone delle nostre vite, dei nostri beni, del nostro lavoro e questo è drammatico.

Dov’è la Marcegaglia che strillava contro la pressione fiscale e che ogni giorno protestava per la “crescita”? E’ in corso un formidabile passaggio di ricchezza dalle famiglie (dai loro risparmi) verso altre destinazioni. E gli italiani sono indifesi. Tutte le polemiche sulla casta (concentrate solo sulla politica) hanno portato a questo: nessuna riduzione dei privilegi e in più una nuova casta tecnobancaria che domina con una democrazia sospesa. Pure il Pdl tace e acconsente. In questa generale mancanza di dibattito, di posizioni critiche, il silenzio dei vescovi italiani si nota poco. Ma c’è e pesa. Io non condivido naturalmente il malizioso sospetto di chi insinua che la Cei starebbe coperta per evitare che il governo apra il dossier “ici degli enti ecclesiastici” e “otto per mille”.

Ma proprio perché non credo a queste insinuazioni mi aspetto che i vescovi facciano sentire fragorosamente la loro voce.  Non è “Avvenire” che ha celebrato il presunto “ritorno” dei cattolici alla politica grazie al convegno di Todi? Non è a Todi che è stato abbattuto il precedente governo?