venerdì 11 febbraio 2011

ECCO LA SOLITA SUPERIORITA' ANTROPOLOGICA



La traversata nel deserto della superiorità antropologica

          Mi raccontò il compianto Renzo Foa che, all’indomani della caduta del Muro di Berlino, un alto dirigente del Pci gli disse: “Ma ti rendi conto? Adesso dovremo entrare in clandestinità, magari per trent’anni”. Ecco: tutto il male nasce dall’assurda idea di dover fare una lunga traversata verso un’improbabile terra promessa. Scarpe rotte eppur bisogna andar. E allora, pur di non fare fino in fondo i conti con la storia e i fatti, dalli a cambiare nomi uno dopo l’altro e a mettersi le vesti più disparate prestate da altri.
          Nel migliore dei casi si sono indossate le vesti un tempo odiate dell’azionismo – come ha bene descritto Giuliano Ferrara – o del più familiare dossettismo: guarda caso i “papi stranieri” vengono tutti da lì.
          Nei peggiori ci si impicca al populismo di Di Pietro o, nascondendosi dietro la pelata di Saviano, si supplica il popolo a “venir via con me”. E perché mai questo calvario di clandestinità, questo vestirsi dei paramenti altrui? Per non rinunciare a due cose. La prima è poter continuare a gridare “l’anticomunismo mai”, come scrive Ezio Mauro. Perché l’equidistanza tra fascismo e comunismo sarebbe l’anticamera dell’abominevole equidistanza tra fascismo e antifascismo. Un sillogismo fasullo che si basa sulla fasulla e vecchia equazione: antifascismo = comunismo.
         Ricordo un convegno di storici di “sinistra” di pochi anni fa, in cui un relatore spiegò con sussiego che l’equiparazione del lager al gulag è inaccettabile perché “nel secondo almeno si lavorava”… Arbeit Macht Frei. Era presente il grande Victor Zaslavski che sorrideva della nostra sorpresa dicendo: “Siete dei poveri illusi: questi sono semplicemente comunisti, li riconosco a prima vista”. Pur di non rinunciare al comunismo ogni sacrificio merita la pena, anche dire delle menzogne da arrossire.

La seconda cosa cui non si può rinunciare è la superiorità antropologica. Anche quella viene da lontano e si vuole che vada lontano, a qualsiasi costo. Benedetto chi la alimenta. Mi guardo bene dal cercare giustificazioni. Non sono comunista da trent’anni e, anche se ero assai giovane, dirò come Pierluigi Battista: me ne vergogno.         Ma, di certo, una delle cose che alimentavano il piacere di sentirsi comunista era il sentirsi parte di un mondo superiore. Intorno, fascisti a parte, il mondo pullulava di borghesucci ignoranti e inconsapevoli, mentre noi avevamo l’idea del futuro e la scienza per realizzarlo, la consapevolezza di dove sorgerà il sole dell’avvenire.
         Che bello poter frequentare salotti dove si sa che c’è la crema della cultura, il condensato dell’intelletto e della ragione: è un sentimento che ci ha distillato pochi giorni fa la direttrice dell’Unità, e che conosciamo bene. E’ difficile rinunciare al privilegio di sentirsi antropologicamente superiori, di poter dire: “Chi non vota a sinistra o è un ladro o è un idiota”. Lo si diceva già ai tempi della Dc, tanto che nessuno aveva il coraggio di dire che la votava. E ancor oggi si ripete con compiaciuta desolazione: “Dove sta la gente che li vota?”.

Quando, nel 1980, chiesi un confronto ai “compagni” circa i miei dubbi crescenti ottenni uno sdegnoso silenzio. Venne la guerra del Libano, la bara dei sindacati davanti alla Sinagoga di Roma, e scrissi un articolo che solo l’Avanti di Craxi volle pubblicare. A distanza di trent’anni, le stesse persone che mi erano state amiche per tanto tempo non soltanto non mi salutano, ma attraversano la strada se mi vedono a distanza. Peggio per loro. Il sentimento di superiorità antropologica non potrà che condurli alla rovina. Peccato che tutto il paese debba patire l’agonia di questo “scarpe rotte eppur bisogna andar”.

© - FOGLIO QUOTIDIANO


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