lunedì 28 febbraio 2011

TIBHIRINE UOMINI DI DIO

IO SUPERSTITE DEI MONACI DI TIBHIRINE

Quando è arrivato a Tibhirine?

Non dimenticherò mai quel 19 settembre 1964, quando siamo arrivati vicino al monastero sulla due cavalli. Vedrò sempre quel bambino in groppa a un asino venirci incontro ad accoglierci. Ero felicissimo. Dalla mia piccola cella vedevo il chiostro, il giardino e il villaggio in lontananza. Mi sono detto: ecco il paesaggio che vedrò fino alla fine della vita. Perché nel mio cuore era per la vita. Senza ritorno. Sono rimasto trentadue anni, dal 1964 al rapimento nel 1996.

Com’era la vita laggiù?

I primi tempi furono difficili. Alla comunità mancava stabilità e fu un periodo molto duro. Del resto, la nuova Algeria si stava assestando. I rapporti con la gente dei dintorni non erano scontati. C’erano ripercussioni del rifiuto dei francesi. Si avvertiva questo fossato in occasione delle feste, cristiane o musulmane. Non si aveva nulla da spartire gli uni con gli altri. Abbiamo lottato e cercato di ammansirci reciprocamente. In questo il dispensario, gestito da frère Luc, è stato molto importante. Accoglieva fino a ottanta persone al giorno! Poi Christian de Chergé è stato eletto priore, nel 1984. Avevamo bisogno di qualcuno come lui che parlasse arabo e conoscesse bene la cultura musulmana. Da allora siamo diventati una vera comunità, più stabile. Chi s’impegnava lo faceva sul serio. Eravamo quasi autonomi. Fu un vantaggio, perché ci permise di intraprendere molte iniziative nei rapporti islamo-cristiani.

Che ruolo ha svolto Christian de Chergé?

Con lui c’è stata un’evoluzione verso l’islamologia. Lui ha studiato molto il Corano. La mattina teneva la lectio divina con una Bibbia in arabo. Talvolta faceva la meditazione con il Corano. Cercava di farci crescere. Avevamo rapporti con l’islam, ma non a livello intellettuale. Lui conosceva molto bene l’ambiente musulmano e la spiritualità sufi. Alcuni monaci ritenevano che la comunità dovesse restare in equilibrio e che non tutto dovesse essere orientato dall’islam. Questo causò delle frizioni. Le tensioni finirono per essere superate grazie alla creazione di un gruppo di scambio e di condivisione con musulmani sufi, che avevamo chiamato "ribat", con termine arabo. Avevamo capito che la discussione sui dogmi divideva, poiché era impossibile. Allora si parlava del cammino verso Dio. Si pregava in silenzio, ciascuno secondo la propria preghiera. Quegli incontri biennali si sono interrotti nel 1993, quando cominciò a diventare pericoloso. Ma la conoscenza reciproca ha fatto di noi dei veri fratelli, nel profondo.

Che segno ha lasciato in lei père Christian de Chergé?

Quello che mi ha colpito in lui è la sua passione interiore per la scoperta dell’anima musulmana e per vivere questa comunione con loro e con Dio, sempre restando vero monaco e vero cristiano.

(...)
Non prova mai nostalgia per la vita a Tibhirine?
 Un po’, sì… Abbiamo vissuto cose molto belle insieme. E poi, la vita in comune per rappresentare il Signore e la Chiesa. È una vocazione molto bella. Può andare lontano. Cristo è più grande della Chiesa. I sufi utilizzavano un’immagine per parlare del nostro rapporto con i musulmani. È una scala doppia. Poggia a terra e la parte alta tocca il cielo. Noi saliamo da un lato, loro dall’altro, con il loro metodo. Più si è vicini a Dio, più si è vicini gli uni agli altri. E viceversa, più si è vicini gli uni agli altri, più si è vicini a Dio. C’è tutta la teologia qui dentro!

Eppure l’appuntamento era con la morte…


Quello che abbiamo vissuto là, insieme e fin dall’inizio, è stata un’azione di grazia. Ci eravamo preparati insieme. Per fedeltà alla nostra vocazione avevamo scelto di resistere, sapendo benissimo cosa poteva succedere. Il Signore ci manda, non si danno le dimissioni anche se, attorno a noi, i violenti cercano di farci partire, e persino le autorità. Ma abbiamo il Nostro Maestro ed eravamo impegnati con Lui. Poi è sopraggiunta anche la volontà di essere fedeli alle persone che stavano attorno a noi e di non abbandonarle. Erano minacciate quanto noi. Erano prese tra due fuochi, l’esercito e i terroristi. La decisione di non separarsi era stata presa nel 1993. E anche se fossimo stati dispersi con la forza, dovevamo ritrovarci a Fez, in Marocco, per ripartire e stabilirsi in un altro Paese musulmano.

Come vive quello che è successo: come un fallimento o un compimento?


Dopo il rapimento, io e père Amédée siamo stati costretti ad andare ad Algeri con la polizia. Pregavamo per i confratelli. Perché Dio desse loro la forza e la grazia di andare fino in fondo. Ci si aspettava un intervento della Francia o un intervento ecclesiastico che ottenesse la liberazione. Abbiamo appreso la loro morte il 21 maggio 1996. Stavamo recitando i vespri. All’improvviso è arrivato in cappella un giovane confratello che si è gettato per terra davanti a tutti, gridando la sua disperazione: "I fratelli sono stati tutti uccisi!". La sera, mentre eravamo fianco a fianco a lavare i piatti, gli ho detto: "Bisogna viverlo come qualcosa di molto bello, di molto grande. Bisogna esserne degni. E la messa che celebreremo per loro non sarà in nero. Sarà in rosso". Li abbiamo visti subito come martiri, veramente. Il martirio era il compimento di tutto quello che avevamo preparato da molto tempo nella nostra vita. Quegli anni che avevamo vissuto insieme nel pericolo. Eravamo pronti, tutti. Ma questo non ha escluso la paura.

(...)
Come interpreta l’attuale inasprimento di alcuni musulmani contro i cristiani, di cui i recenti attentati sono un segno?

Viene dagli estremisti. I veri musulmani dicono: questi non siamo noi. Si vergognano di quello che è successo ai confratelli. Non è la "religione". D’altra parte, non ci si conosce abbastanza. Ci si percepisce attraverso i violenti e questo crea una tendenza a raggrupparsi tra simili e ad avere paura dei contatti. La soluzione è coltivare l’amicizia, anche a rischio di farsi ingannare.

Farsi ingannare?

Sì, c’è chi parla di reciprocità, si vede poco o nulla: ai musulmani è permesso costruire moschee da noi, ma prima che si possa costruire chiese da loro…

Lo pensa davvero? In realtà i cristiani sono spesso accusati di ingenuità con l’islam…

Non è questo il punto. Per la fede, rischiamo! Sta scritto nel Vangelo: "Amate come io vi ho amato". Spesso si è perdenti, bisogna saperlo. Ma capita che ci sia una reazione. Allora ecco la reciprocità, e un riconoscimento reciproco può andare molto lontano.

Qual è la sua speranza per il 2011?

Bisogna sperare che l’amore sia sempre il più forte. Che l’amore di Dio avrà l’ultima parola. Fondata in Dio, la speranza deve dimorare. E non siamo noi a poter risolvere le cose. La speranza invincibile, come diceva Christian de Chergé. Non deve essere vinta, deve sempre restare viva, fondata su Dio, sulla Sua grazia. Anche quando si muore sotto i colpi. Come diceva, la speranza deve restare viva…
(traduzione di Anna Maria Brogi)


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http://www.avvenire.it/Cultura/Tibhirine_201102280950140370000.htm

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