venerdì 29 aprile 2011

LA SETTIMANA SANTA CON BENEDETTO XVI: LA VEGLIA PASQUALE


NELLA CHIESA NASCENTE E' SUCCESSO QUALCOSA DI INAUDITO: AL POSTO DEL SABATO, DEL SETTIMO GIORNO, SUBENTRA IL PRIMO

BENEDETTO XVI: DALL'OMELIA DELLA VEGLIA PASQUALE, Basilica di San Pietro, 23 aprile 2011

Cari fratelli e sorelle, [...]Per Israele, il Sabato era il giorno in cui tutti potevano partecipare al riposo di Dio, in cui uomo e animale, padrone e schiavo, grandi e piccoli erano uniti nella libertà di Dio. [...]

Ma nella Chiesa nascente è successo qualcosa di inaudito: al posto del Sabato, del settimo giorno, subentra il primo giorno. Come giorno dell’assemblea liturgica, esso è il giorno dell’incontro con Dio mediante Gesù Cristo, il quale nel primo giorno, la Domenica, ha incontrato i suoi come Risorto dopo che essi avevano trovato vuoto il sepolcro. La struttura della settimana è ora capovolta. Essa non è più diretta verso il settimo giorno, per partecipare in esso al riposo di Dio.

Essa inizia con il primo giorno come giorno dell’incontro con il Risorto. Questo incontro avviene sempre nuovamente nella celebrazione dell’Eucaristia, in cui il Signore entra di nuovo in mezzo ai suoi e si dona a loro, si lascia, per così dire, toccare da loro, si mette a tavola con loro.

Questo cambiamento è un fatto straordinario, se si considera che il Sabato, il settimo giorno come giorno dell’incontro con Dio, è profondamente radicato nell’Antico Testamento. Se teniamo presente quanto il corso dal lavoro verso il giorno del riposo corrisponda anche ad una logica naturale, la drammaticità di tale svolta diventa ancora più evidente.

Questo processo rivoluzionario, che si è verificato subito all’inizio dello sviluppo della Chiesa, è spiegabile soltanto col fatto che in tale giorno era successo qualcosa di inaudito. Il primo giorno della settimana era il terzo giorno dopo la morte di Gesù. Era il giorno in cui Egli si era mostrato ai suoi come il Risorto. Questo incontro, infatti, aveva in sé qualcosa di sconvolgente. Il mondo era cambiato. Colui che era morto viveva di una vita, che non era più minacciata da alcuna morte. Si era inaugurata una nuova forma di vita, una nuova dimensione della creazione.

Il primo giorno, secondo il racconto della Genesi, è il giorno in cui prende inizio la creazione. Ora esso era diventato in un modo nuovo il giorno della creazione, era diventato il giorno della nuova creazione. Noi celebriamo il primo giorno. Con ciò celebriamo Dio, il Creatore, e la sua creazione.

Sì, credo in Dio, Creatore del cielo e della terra. E celebriamo il Dio che si è fatto uomo, ha patito, è morto ed è stato sepolto ed è risorto. Celebriamo la vittoria definitiva del Creatore e della sua creazione. Celebriamo questo giorno come origine e, al tempo stesso, come meta della nostra vita. Lo celebriamo perché ora, grazie al Risorto, vale in modo definitivo che la ragione è più forte dell’irrazionalità, la verità più forte della menzogna, l’amore più forte della morte. Celebriamo il primo giorno, perché sappiamo che la linea oscura che attraversa la creazione non rimane per sempre. Lo celebriamo, perché sappiamo che ora vale definitivamente ciò che è detto alla fine del racconto della creazione: “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gen 1, 31). Amen.

LA SETTIMANA SANTA CON BENEDETTO XVI: VENERDI' SANTO



IL SUO CORPO GLORIOSO

BENEDETTO XVI: "A SUA IMMAGINE"

 Intervista alla TV di Stato italiana, Venerdì Santo 2011

D. – Santità, quando le donne giungono al sepolcro, la domenica dopo la morte di Gesù, non riconoscono il Maestro, lo confondono con un altro. Succede anche agli apostoli: Gesù deve mostrare le ferite, spezzare il pane per essere riconosciuto, appunto, dai gesti. È un corpo vero, di carne, ma anche un corpo glorioso. Il fatto che il suo corpo risorto non abbia le stesse fattezze di quello di prima, che cosa vuol dire? Cosa significa, esattamente, corpo glorioso? E la risurrezione sarà per noi così?

R. – Naturalmente, non possiamo definire il corpo glorioso, perché sta oltre le nostre esperienze. Possiamo solo registrare i segni che Gesù ci ha dato per capire almeno un po’ in quale direzione dobbiamo cercare questa realtà.

Primo segno: la tomba è vuota. Cioè, Gesù non ha lasciato il suo corpo alla corruzione, ci ha mostrato che anche la materia è destinata all’eternità, che realmente è risorto, che non rimane una cosa perduta. Gesù ha preso anche la materia con sé, e così la materia ha anche la promessa dell’eternità.

Ma poi ha assunto questa materia in una nuova condizione di vita, questo è il secondo punto: Gesù non muore più, cioè sta sopra le leggi della biologia, della fisica, perché sottomesso a queste uno muore. Quindi c’è una condizione nuova, diversa, che noi non conosciamo, ma che si mostra nel fatto di Gesù, ed è la grande promessa per noi tutti che c’è un mondo nuovo, una vita nuova, verso la quale noi siamo in cammino. E, essendo in queste condizioni, Gesù ha la possibilità di farsi palpare, di dare la mano ai suoi, di mangiare con i suoi, ma tuttavia sta sopra le condizioni della vita biologica, come noi la viviamo. E sappiamo che, da una parte, è un vero uomo, non un fantasma, che vive una vera vita, ma una vita nuova che non è più sottomessa alla morte e che è la nostra grande promessa.

È importante capire questo, almeno quanto si può, per l’eucaristia. Nell’eucaristia il Signore ci dona il suo corpo glorioso, non ci dona carne da mangiare nel senso della biologia, ci dà se stesso. Questa novità che lui è entra nel nostro essere uomini, nel nostro, nel mio essere persona, come persona, e ci tocca interiormente con il suo essere, così che possiamo lasciarci penetrare dalla sua presenza, trasformare nella sua presenza. È un punto importante, perché così siamo già in contatto con questa nuova vita, questo nuovo tipo di vita, essendo lui entrato in me, e io sono uscito da me e mi estendo verso una nuova dimensione di vita.

Io penso che questo aspetto della promessa, della realtà che lui si dà a me e mi tira fuori da me, in alto, è il punto più importante: non si tratta di registrare cose che non possiamo capire, ma di essere in cammino verso la novità che comincia, sempre, di nuovo, nell’eucaristia.

mercoledì 27 aprile 2011

SAI BABA E' MORTO. L'ILLUSIONE CONTINUA






Sai Baba è morto, l'illusione continua

di Massimo Introvigne
26-04-2011


La morte di Sathya Sai Baba, forse il più popolare guru indiano della seconda metà del secolo XX, induce a qualche riflessione sul successo che ha avuto in Occidente e in particolare in Italia, dove ha trovato seguaci fra ex-sessantottini affascinati dall'Oriente, professionisti - fra cui diversi medici, che hanno scelto di andare a lavorare nell'ospedale da lui fondato in India - e perfino un sacerdote lombardo, don Mario Mazzoleni (1945-2001), che la scelta senza riserve per Sai Baba ha condotto fino al dramma della scomunica. Ma chi era Sai Baba?

Satyanaryan Raji (1926-2011) nasce nel 1926 a Puttaparthi nell'Andra Pradesh (India del Sud). A quattordici anni entra in uno stato di esaltazione al termine del quale, il 23 maggio 1940, annuncia «Sono Sai Baba», assumendo lo stesso nome di un santo asceta, Sai Baba di Shirdi (1856-1918), molto popolare in India. Da allora comincia a raccogliere seguaci in un piccolo ashram, che oggi con il nome di Prashanti Nilayam è diventato un intero sobborgo di Puttaparthi.

Sathya Sai Baba - come è normalmente chiamato in India proprio per distinguerlo da Sai Baba di Shirdi - invita a tornare alle scritture tradizionali dell'India e a sperimentare Dio come stato di coscienza superiore, che è già dentro di noi e che può essere raggiunto non tanto attraverso la conoscenza, ma per mezzo di un'esperienza diretta che non è disgiunta dal compimento del proprio dovere e dal servizio reso agli altri. Dio, pertanto, per Sai Baba non è un'entità esterna separata dall'uomo, ma uno stato di consapevolezza che ciascuno di noi può raggiungere.

I fedeli considerano Sathya Sai Baba un avatar - cioè un'incarnazione divina - integrale (purnavatar), come Krishna; secondo loro, la storia è stata anche percorsa da «amshavatara», avatar «parziali», tra cui Gesù Cristo, Sri Ramakrishna (1836-1886) e Sri Aurobindo (1872-1950), ma solo il loro maestro è stata un'incarnazione totale e perfetta. Contrariamente ad altri maestri indiani - che considerano i miracoli come appartenenti a una sfera inferiore - Sathya Sai Baba ha affidato la prova del suo carattere di avatar ai segni straordinari o «siddhi».

Ha così offerto ai seguaci ogni sorta di «miracoli», sia nel regno psichico (chiaroveggenza, profezie, apparizioni a migliaia di chilometri di distanza), sia nel regno fisico. Dalle mani del maestro usciva ogni giorno una cenere sacra (vibhuti) cui erano attribuite proprietà miracolose. Il maestro era inoltre ritenuto capace di fare apparire oggetti di ogni genere: statuette devozionali, anelli d'oro, il linga simbolo di Shiva, e perfino monete d'oro che recavano, come data del conio, l'anno di nascita del devoto per cui erano state «prodotte».

Questi fenomeni hanno portato molti specialisti occidentali a liquidare Sathya Sai Baba come espressione di un sincretismo superstizioso estraneo al «vero» induismo. Ma questo giudizio si scontra con il fatto che Sathya Sai Baba ha decine di migliaia di seguaci in India, pacificamente considerati devoti indù. L'induismo non ha una Chiesa o autorità che possano decidere chi è indù e chi non lo è. La più grande organizzazione indù, la Vishwa Hindu Parishad, espressione di un nazionalismo spesso intollerante verso le altre religioni che controlla il secondo partito politico indiano, ha sempre esaltato Sathya Sai Baba come un modello d'induismo, difendendolo dalle accuse di pedofilia che ne hanno turbato gli ultimi anni di vita, anche perché il guru di Puttaparthi ne ha sempre sostenuto i progetti politici. Uno dei più vicini collaboratori e oggi dei candidati alla successione di Sai Baba, il novantenne Prafullachandra Natwarlal Bhagwati, è stato presidente della Corte Suprema indiana, il più alto magistrato dell'immenso Paese asiatico. L'induismo non è il sistema «puro» insegnato in qualche università occidentale ma un complesso coacervo di miti, riti e devozioni popolari dove oggi sono entrati anche, come componenti essenziali per decidere almeno in India chi ne fa parte, il nazionalismo e la politica.

Sathya Sai Baba ha avuto successo anche in Occidente, come si è accennato, soprattutto in Italia. Una lettura di questo successo non può che fare riferimento alla grande crisi culturale degli anni 1960, che ha avuto il suo momento emblematico nel 1968. Il Sessantotto non ha eliminato - né sarebbe stato possibile - le domande di senso e di sacro che vivono nel cuore di ogni uomo, ma ha gettato un lungo sospetto sull'Occidente e sul cristianesimo. Ne è nato un pregiudizio favorevole nei confronti di tutto quanto è orientale e di tutto quello che si presenta come eterodosso rispetto al cristianesimo. Dai contestatori delle università a musicisti come i Beatles molti hanno preso la strada dell'India. Il fatto che molti italiani abbiano scelto Sai Baba si spiega con un gusto del miracoloso che non è estraneo alla nostra tradizione nazionale e che forse non sarebbe stato soddisfatto da forme d'induismo più «colte» e filosofiche.

Tuttavia, se si supera il clamore intorno ai «miracoli» e si cerca di capire in che cosa consiste l'insegnamento di Sathya Sai Baba, si scopre che il suo centro è la ricerca di Dio o del Divino non come Persona, al di fuori di noi, ma come stato della nostra coscienza. Si tratta dunque, come spesso accade in Oriente, di una «enstasi», qualche cosa che lo storico delle religioni Mircea Eliade (1907-1986) distingue rigorosamente dall’estasi. Nell'«enstasi» si entra sempre di più in se stessi e ci si chiude a ogni possibile trascendenza, mentre nell’estasi ci si apre al di fuori di sé verso un Dio trascendente. L'illusione, chiudendosi in se stessi, è quella di attingere così l'Essere, mentre al massimo - come ha notato un ex induista della generazione del 1968 belga, poi convertito e oggi sacerdote cattolico, padre Joseph-Marie Verlinde - si arriva al «Sé inteso come atto primo dell'esistenza che è soltanto e sempre l’atto di un essere creato e non dell’Essere divino increato». Il rischio, alla fine, è quello di un «narcisismo senza Narciso», secondo la formula del missionario e indologo francese Jules Monchanin (1895-1957). Chi s'illudeva, magari grazie a Sai Baba, di sfuggire alla prigione della soggettività, percepita come tipicamente occidentale, finisce per ritrovarsi rinchiuso a doppia mandata in quella stessa prigione. Sathya Sai Baba è morto, ma l'illusione continua.


http://www.labussolaquotidiana.it/ita/articoli-sai-baba--mortolillusione-continua-1677.htm

lunedì 25 aprile 2011

VIA CRUCIS/ Da Chicago a NYC e LA, un "fiume" dietro la Croce tra Michigan Av. e Ground Zero




CHICAGO - Oggi è stata una tipica “Chicago style”.

La Via Crucis attraverso la City di Chicago è partita alle 9 di mattina dalla Daley Plaza (sede del comune, nel cuore amministrativo e finanziario della città).

Nonostante la pioggia, vento, 30F come ampiamente previsto ci siamo ritrovati in circa 200 a seguire la croce insieme a Fr Luca Brancolini, della Fraternità sacerdotale San Carlo.

Come sempre c’è un po’ di esitazione, e la pioggia si intensifica proprio all’ora della partenza. Per questo si vive il momento con grande tensione, nel desiderio di seguire la croce ma anche intimoriti dalle circostanze atmosferiche decisamente avverse.

Poi si parte e mentre porto la croce intravedo i volti degli amici del servizio d’ordine che mi indicano la strada e così un poco alla volta il passo diventa sempre più sicuro e deciso. Si può camminare con certezza solo nella compagnia di chi lo ha incontrato.

La processione continua attraverso il cuore della città fermandosi davanti al JR Thompson Center che ospita gli uffici dello State of Illinois, la Veteran Memorial Plaza lungo il Chicago River e raggiunge Michigan Avenue, la via dello shopping Downtown Chicago.

Mentre nelle prime due stazioni si incontravano frettolosi businnessmen, adesso ci imbattiamo in famiglie e high school students in spring break. Nessuno però può ignorare la Way of the Cross che passa. Alcuni voltano la testa dall’altra parte, altri si fanno il segno della croce. “Ah, it’s Good Friday today” (“è venerdì santo, oggi”) si sente dire più di una volta.

Ci fermiamo alla Water Tower Plaza, davanti all’unico edificio sopravvissuto all’incendio del 1871 che ha distrutto Chicago. Alcuni si sono arresi al freddo, ma altri si sono uniti lungo la strada. E facile essere catturati dal fascino della ordinata processione dietro la croce, dalla bellezza dei canti e dalle letture di Fr Giussani, Paul Claudel, Charles Peguy e dalle meditazioni di Fr Luca. Tutto quello che è chiesto è di seguire, oggi nella via crucis, domani al lavoro o a casa.

In molti chiedono di portare la croce per un pezzo di strada o durante una stazione; e vengono accontentati perche la croce è pesante e il vento rende tutto molto impegnativo.

Arriviamo infine in vista della Holy Name Cathedral, la cattedrale di Chicago. Nel parcheggio davanti alla chiesa si svolge l’ultima stazione. Non si può nascondere il desiderio di andare in un coffee shop al caldo per non dire di andare a cambiare scarpe e calzini, ma nessuno ha fretta. Al termine rimaniamo a lungo a conoscere chi è rimasto con noi fino alla fine e anche per scambiarci gli auguri tra di noi.

Ho detto con molti, per scherzo ma non troppo, che dovremmo fare la Way of the Cross più spesso, perché essere insieme aiuta a seguire quella croce.

La Way of the Cross 2011 non è stata perfetta. Non c’era la partecipazione che volevamo, il tempo che volevamo e abbiamo dovuto anche cambiare il percorso perche non dappertutto eravamo i benvenuti Downtown Chicago.

Ma se c’è qualcosa che portiamo a casa, è che quello che conta è darsi a Cristo come siamo, e non come vorremmo essere, perché Lui è contemporaneo nel modo in cui vuole, inclusa pioggia e temperatura sottozero. E questo è sorprendentemente facile, basta seguire la Croce.

Per questo la Way of the Cross è finita con un “see you next year!”. Per un’altra Way of the Cross Chicago style.

Leo Marcatelli, Chicago

giovedì 21 aprile 2011

SETTIMANA SANTA CON BENEDETTO XVI: GIOVEDI'


QUAERENS ME, SEDISTI LASSUS,
REDEMISTI CRUCEM PASSUS:
TANTUS LABOR NON SIT CASSUS




DALL'OMELIA DELLA MESSA CRISMALE DEL GIOVEDÌ SANTO

Basilica di San Pietro, 21 aprile 2011




Cari fratelli e sorelle, al centro della liturgia di questa mattina sta la benedizione degli oli sacri. [...]

C’è innanzitutto l’olio dei catecumeni. Quest’olio indica come un primo modo di essere toccati da Cristo e dal suo Spirito, un tocco interiore col quale il Signore attira le persone vicino a sé.

Mediante questa prima unzione, che avviene ancora prima del Battesimo, il nostro sguardo si rivolge quindi alle persone che si mettono in cammino verso Cristo – alle persone che sono alla ricerca della fede, alla ricerca di Dio.

L’olio dei catecumeni ci dice: non solo gli uomini cercano Dio. Dio stesso si è messo alla ricerca di noi. I

l fatto che egli stesso si sia fatto uomo e sia disceso negli abissi dell’esistenza umana, fin nella notte della morte, ci mostra quanto Dio ami l’uomo, sua creatura. Spinto dall’amore, Dio si è incamminato verso di noi.

“Cercandomi ti sedesti stanco… Che tanto sforzo non sia vano!”, preghiamo nel "Dies Irae".

Dio è alla ricerca di me. Voglio riconoscerlo? Voglio essere da lui conosciuto, da lui essere trovato? Dio ama gli uomini. Egli viene incontro all’inquietudine del nostro cuore, all’inquietudine del nostro domandare e cercare, con l’inquietudine del suo stesso cuore, che lo induce a compiere l’atto estremo per noi. L’inquietudine nei confronti di Dio, l’essere in cammino verso di lui, per conoscerlo meglio, per amarlo meglio, non deve spegnersi in noi.

SETTIMANA SANTA CON BENEDETTO XVI



La sonnolenza dei discepoli era non solo il problema di quel momento, ma è il problema di tutta la storia

DALL'UDIENZA GENERALE DEL MERCOLEDÌ SANTO

Piazza San Pietro, 20 aprile 2011


Cari fratelli e sorelle, [...] lasciato il cenacolo, Gesù si ritirò a pregare, da solo, al cospetto del Padre. In quel momento di comunione profonda, i Vangeli raccontano che Gesù sperimentò una grande angoscia, una sofferenza tale da fargli sudare sangue (cfr. Mt 26, 38). Nella consapevolezza della sua imminente morte in croce, Egli sente una grande angoscia e la vicinanza della morte.

In questa situazione, appare anche un elemento di grande importanza per tutta la Chiesa. Gesù dice ai suoi: rimanete qui e vigilate; e questo appello alla vigilanza concerne proprio questo momento di angoscia, di minaccia, nella quale arriverà il traditore, ma concerne tutta la storia della Chiesa. È un messaggio permanente per tutti i tempi, perché la sonnolenza dei discepoli era non solo il problema di quel momento, ma è il problema di tutta la storia.

La questione è in che cosa consiste questa sonnolenza, in che cosa consisterebbe la vigilanza alla quale il Signore ci invita. Direi che la sonnolenza dei discepoli lungo la storia è una certa insensibilità dell’anima per il potere del male, un’insensibilità per tutto il male del mondo. Noi non vogliamo lasciarci turbare troppo da queste cose, vogliamo dimenticarle: pensiamo che forse non sarà così grave, e dimentichiamo.

E non è soltanto insensibilità per il male, mentre dovremmo vegliare per fare il bene, per lottare per la forza del bene. È insensibilità per Dio: questa è la nostra vera sonnolenza; questa insensibilità per la presenza di Dio che ci rende insensibili anche per il male. Non sentiamo Dio – ci disturberebbe – e così non sentiamo, naturalmente, anche la forza del male e rimaniamo sulla strada della nostra comodità.

L’adorazione notturna del Giovedì Santo, l’essere vigili col Signore, dovrebbe essere proprio il momento per farci riflettere sulla sonnolenza dei discepoli, dei difensori di Gesù, degli apostoli, di noi, che non vediamo, non vogliamo vedere tutta la forza del male, e che non vogliamo entrare nella sua passione per il bene, per la presenza di Dio nel mondo, per l’amore del prossimo e di Dio.

EXTINGUISH MY EYES, I'LL GO ON SEEING YOU.


Extinguish my eyes, i'll go on seeing you.
Seal my ears, I'll go on hearing you.
And without feet I can make my way to you,
without a mouth I can swear your name.

Break off my arms, I'll take hold of you
with my heart as with a hand.
Stop my heart, and my brain will start to beat.
And if you consume my brain with fire,
I'll feel you burn in every drop of my blood

RAINER MARIA RILKE
The Book of Hours II, 7


What does it take to love this world?
How do we open ourselves to reality?
Rilke shifts the focus of love away from the sense organs and the surface of experience, and into the life-force of existence: the heart that silently pulses blood.

Rilke's Book of Hours, translated by Anita Barrows and Joanna Macy

GIOVANNI PAOLO II INCARNA QUESTE PAROLE DI RILKE
E NE E'  TESTIMONE PER SEMPRE

Da il Tempo del 1° di aprile del 2005

Spegnimi gli occhi e io Ti vedo ancora Rendimi sordo e odo la Tua voce. Mozzami i piedi e corro la Tua strada Senza Parola, a Te sciolgo preghiere! Spezzami le braccia e io Ti stringo Se fermi il cuore, batte il mio cervello. Ardi anche questo ed il mio sangue, allora Ti accoglierà, Signore, in ogni stilla (...).

ECCO perché non si è nascosto. Ecco perché Giovanni Paolo II non si è piegato alle molte, troppe, richieste di pietà, di falso rispetto. Ecco perché quella figura lontana apparsa dall’alto di una piazza assorta e in attesa. Non un povero ammalato, da lasciare in pace. Un testimone che non ha voluto lasciarci in pace. Noi che non sopportavamo vedere vivere così la malattia, e la speranza della resurrezione, davanti a tutti, gridata al mondo. Noi che abbiamo adorato un condannato a morte, agonizzante, su una croce. Ma non siamo capaci di tollerare la presenza di un Papa ammalato, che ci ricorda l'Inizio, mentre si prepara alla fine.

Nella lunga notte di Karol Woityla che combatte con la febbre alta e la violenza di una malattia ormai padrona del suo corpo possiamo ancora una volta affidarci alla speranza di un miracolo. Perché non siamo, non saremo mai preparati a fare a meno di un Papa così. Un padre, più lo vedi provato, allontanarsi dalla tua storia, più lo rimpiangi e già senti lo struggimento di un vuoto insopportabile.

Che forse può essere riempito dalle sue prime parole. Oggi le uniche in grado di accompagnare il tremore di questa notte. Era domenica 22 ottobre 1978: «O Cristo! Fa’ che io possa diventare ed essere servitore della tua unica potestà! Servitore della tua dolce potestà! Servitore della tua potestà che non conosce il tramonto! Fa’ che io possa essere un servo! Anzi, servo dei tuoi servi». Fratelli e Sorelle! Non abbiate paura di accogliere Cristo e di accettare la sua potestà! Aiutate il Papa e tutti quanti vogliono servire Cristo e, con la potestà di Cristo, servire l’uomo e l’umanità intera! Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo! Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura! Cristo sa "cosa è dentro l'uomo". Solo lui lo sa! Oggi così spesso l'uomo non sa cosa si porta dentro, nel profondo del suo animo, del suo cuore. Così spesso è incerto del senso della sua vita su questa terra. È invaso dal dubbio che si tramuta in disperazione. Permettete, quindi - vi prego, vi imploro con umiltà e con fiducia - permettete a Cristo di parlare all'uomo. Solo lui ha parole di vita, sì! di vita eterna Mi rivolgo a tutti gli uomini, ad ogni uomo (e con quale venerazione l'apostolo di Cristo deve pronunciare questa parola: uomo!). Pregate per me! Aiutatemi perché io vi possa servire! Amen.»

mercoledì 20 aprile 2011

WAY OF THE CROSS CHICAGO



THE  TRUEST
SACRIFICE
IS
RECOGNIZING
A
PRESENCE


CHICAGO APRIL 22, 2011

Communion and Liberation, together with other Catholic lay movements in the Archdiocese of Chicago, invites you to the seventh Way of the Cross through Downtown Chicago, on the morning of Good Friday, APRIL 22, 2011.


We will follow the passion of Christ in the heart of our city, where thousands of people carry their cross every day. Through choral music, Gospel passages, reflections, and our silent procession, we hope to enter more deeply into the events of Good Friday and their meaning for us today. We ask to experience the exceptional Presence of Christ among us as a real answer to the needs of our hearts.





GATHERING at 9:00 a.m.
BEGINNING at 9:15 a.m. with an introduction.


Introduction
DALEY PLAZA
(Dearborn/Washington)
The walk starts at 9:30 a.m.


First Stop
THOMPSON CENTER
(Clark/Randolph)


Second Stop
VETERANS MEMORIAL
(Riverwalk @ State/Wacker)


Third Stop
TRIBUNE TOWER PLAZA
(Michigan @ the River)


Fourth Stop
WATER TOWER PLAZA
(Michigan/Chicago)


The walk ends around 11:30 a.m.
Fifth Stop
HOLY NAME CATHEDRAL
(State/Superior)

martedì 19 aprile 2011

ULTIMA CHIAMATA PER IL TETTA



Perché si può criticare
Tettamanzi
senza malizia


Una questione ambrosiana esiste, e pesa nel mondo cattolico come un segno di contraddizione, un segno che avrà anche i suoi significati positivi, non c’è da dubitarne, ma non manca di lati negativi, fiacchi, ipocriti, insipidi, tiepidi. Qualche mese fa Giuliano Ferrara ha sollevato con toni pacati e chiari il problema delle Chiesa che afferma un cristianesimo “religioso”.


"Se fosse possibile criticare la curia milanese e i suoi più recenti titolari, senza malizia e senza vedersi attribuire malanimo?
Partendo, per esempio, da Ambrogio che era un santo statista, un facitore di civiltà, come i suoi successori della Riforma cattolica cinquecentesca, e così occupava con estrema autorevolezza uno spazio pubblico di cui la chiesa, divenuta religione di stato, non aveva paura. E poi da Paolo VI, che fece della contraddizione e della complessità, da arcivescovo della città e poi da Papa, una ricchezza teologica ed umana da coltivare di fronte alla grande deriva della seconda metà del secolo scorso; anche lui, come Ambrogio, agiva, diceva e significava qualcosa.

Quella bella ma fragile persona che è Dionigi Tettamanzi, invece, in una con testimoni altrettanto autorevoli, per esempio il cardinal Martini, dello spazio pubblico della religione diffida. Non importa che gli ultimi due papi si siano consacrati anima e corpo alla riaffermazione della libertà di culto e di pensiero e di prassi cristiana; a Milano la fede autorizzata dal clero si spiritualizza ogni anno di più, la materialità anche civile della presenza religiosa, così corposamente e sapidamente evocata nelle splendide memorie del cardinale Giacomo Biffi, uno straordinario parroco lombardo e un grandissimo italiano, si dissolve in prediche solidaristiche, sociologiche, pauperistiche, povere di visibilità cristiana e ricche di suggestioni tipiche dell’establishment politico cattolico-democratico.

Così Tettamanzi è e resta quello del convegno di Verona, che cita contro Ruini e Benedetto XVI Ignazio d’Antiochia per affermare il bello di un cristianesimo che preferibilmente ha pudore nel dire sé stesso ( e infatti il sagrato del Duomo di Milano è stato ospite solitario e muto delle bottiglie d’acqua per Eluana Englaro, ma tribuna possente e recettiva per le preghiere islamiche di protesta religiosa e politica)."

Due anni fa con molto meno garbo Amicone sul Foglio scriveva, fra l’altro:

Eminenza carissima, cardinale Dionigi Tettamanzi, permetta qui una confessione pubblica: sono un cattivo cattolico, le parole del mio Vescovo mi parvero negli ultimi tempi come l’eco lontana di un pastore salito sull’Alpe e rimasto lassù, mentre noi qui, pecore smarrite restiamo a brucare terra nera, spazzata dalle fatiche della quotidianità e dalle angosce per il futuro nostro e, soprattutto, dei nostri figli. (…) Ma c’è disorientamento quando dal Duomo si diffonde il sospetto che nella diocesi più grande del mondo Cristo si è fermato nei modi in cui non si è fermato neanche a Eboli.

Perché il popolo non ha quasi più sentore dell’esistenza di una chiesa locale? Perché le Sue parole suscitano discussione quasi esclusivamente politica e vengono largamente ignorate dall’uomo della strada? Milano, la più grande diocesi del mondo, sembra subire silenziosamente il destino di un declino e di una protestantizzazione del cristianesimo.

Di solidarietà e sobrietà, Eminenza carissima, lei parlò all’omelia di Natale dello scorso anno, ci tornò sopra in una prima serata di primavera televisiva in cui fu ospite di Fabio Fazio e infine ne ha parlato di nuovo nella sua predica di Sant’Ambrogio. Lei ripete che “la comunità cristiana può e deve diventare molto più sobria”. Che “c’è uno stile di vita costruito sul consumismo che tutti siamo invitati a cambiare per tornare a una santa sobrietà”. Che “con la sobrietà è in questione un ‘ritornare’” perché “ci siamo lasciati andare a una cultura dell’eccesso, dell’esagerazione” e “soprattutto la sobrietà è questione di ‘giustizia’, siamo in un mondo dove c’è chi ha troppo e chi troppo poco e…”.

Uffa. Ma quanto ancora sentiremo la volgarizzazione delle tesi di Erich Fromm, delle confetture di Medici senza frontiere, delle denunce antimafia contro i pericoli delle infiltrazioni per qualunque cantiere aperto per modernizzare la città e dare lavoro alla gente?

Eminenza, non è l’attenzione agli ultimi e il senso della solidarietà che mancano. Semmai ciò di cui si sente la mancanza è una presenza piena di ragioni, di metodo e di speranza cristiana. Sentiamo il generico richiamo a Cristo, ma non lo vediamo affermato in una proposta puntuale, che irradi intelligenza, conoscenza, fascino, e, perché no, potenza vitale.

Che ne è delle chiese e degli oratori ambrosiani dove una volta la gioventù incontrava il prete che lo trascinava in un’avventura esistenziale, piena di ragioni e di vita? Oggi gli oratori vengono dati in affitto ai club calcistici e al posto dei biliardini degli anni sessanta offrono party umanitari e discoteche allo scopo di attirare una certa “clientela”. Oggi i catechismi vengono spalmati per anni e anni, e sacramenti come la cresima vengono rinviati perché, pensano i preti, così almeno si riuscirà a tenere i ragazzini un po’ più impegnati e a trattenere più giovani in chiesa. Il risultato naturalmente contraddice i programmi: ragazzini e giovani se ne vanno anche a costo di perdere la confermazione e tutti gli altri sacramenti.

Forza, Eminenza carissima, non si faccia rinchiudere nel capitolo della teologia moralista, civilista e borrelliana. Lei sa, meglio di noi pecorelle erranti e sghimbesce, che il cristianesimo esige coraggio, testimonianza e profezia, innanzitutto dai suoi Pastori.

I PILASTRI DELLA GIUSTIZIA




Cosa fa paura ai giudici?
 L'idea di lavorare

Sette anni per il primo grado Parmalat. Viareggio? Non c'è nemmeno la prima udienza. Colpa del processo breve?

di Filippo Facci
Tratto da Libero del 15 aprile 2011

La paura è che gli tocchi di lavorare, anzi neanche, perché se i magistrati in futuro non riusciranno a chiudere un primo grado in qualcosa come tre anni (tre anni, non tre giorni) potranno sempre dire che è colpa di Berlusconi: eppure lo sanno tutti che i magistrati lavorano mediamente poco, che non di rado tizio «oggi non c’è», che caio «oggi lavora a casa», che sempronio «oggi non è venuto», che pochi si sobbarcano il lavoro di molti, che molti sono imboscati o fuori stanza: perché sono uomini e funzionari e dipendenti statali come gli altri, la differenza è che non timbrano il cartellino (e dici poco) e che in qualche caso si sentono eticamente superiori agli altri salariati pubblici.

Cosicché i problemi sono sempre altrove: è colpa della «mancanza di risorse» se al pomeriggio in tribunale c’è il deserto dei tartari, è colpa della «cattiva organizzazione» se molti magistrati appongono fuori dalla porta gli orari di ricevimento come se fossero insegnanti delle medie, e se un avvocato cerca un fascicolo e però il pm l’ha portato a casa.
Uno sgobbone come Francesco Ingargiola, presidente della Corte d’Appello di Caltanissetta, lo disse chiaramente in un libro di Massimo Martinelli: «Nei tribunali il problema principale è proprio questo, far lavorare e motivare i giudici; perché se la giustizia è al capolinea non è colpa solo di leggi farraginose, ma anche di molti colleghi che non lavorano a sufficienza».

Ecco perché i parenti delle vittime di Viareggio dovrebbero farsi spiegare, dai magistrati, come abbiano fatto a non fissare neppure la prima udienza dopo due anni e mezzo; i terremotati dell’Aquila dovrebbero farsi spiegare se undici anni e otto mesi non siano più che sufficienti per definire un giudizio ed evitare la prescrizione; mentre i risparmiatori truffati dalla Parmalat dovrebbero farsi spiegare, pure, perché siano serviti sette anni per un primo grado sulla bancarotta, mentre il processo bis - quello contro le banche - attende ancora la prima sentenza.

Già oggi vanno in prescrizione 450 processi al giorno: i magistrati non hanno nessuna responsabilità in tutto questo? E neppure i 51 giorni di ferie l’anno - record italiano - significano niente? Si saranno mai chiesti, i magistrati, perché la vecchia uscita del ministro Renato Brunetta sui tornelli a palazzo di Giustizia, in un sondaggio pubblicato dal Corriere nell’ottobre 2008, vide favorevole l’80 per cento dei votanti? Anche Giuliano Pisapia, candidato sindaco a Milano, lo disse chiaramente: «Lavorano poco». Suggerì che si facesse come quel procuratore capo che ogni mattina bussava dai vari magistrati per dargli il buongiorno.

Eppure, per qualche ragione che sa di sacralità, le toghe sono sottratte al computo dei fannulloni della pubblica amministrazione: forse perché affianco ai lavativi ci sono gli stakanovisti.
A Napoli, dall’iscrizione alla richiesta di rinvio a giudizio per Berlusconi, il procedimento per il caso Saccà impiegò 32 giorni: feste comprese. L’Appello del caso Mills l’hanno sbrigato in un mese e mezzo e le motivazioni erano state depositate in 15 giorni anziché in 90: così il ricorso in Cassazione è stato velocizzato. Il primo grado oltretutto aveva fatto sfilare 47 udienze in meno di due anni, lavorando - sacrilegio - anche sino al tardo pomeriggio, talvolta - pazzesco - anche nei weekend. Nelle scorse settimane, in compenso, un’intera procura che doveva mandare alla sbarra Berlusconi - caso Ruby - si è fatta prestare gente da altri uffici, così da macinare tutte le fotocopie necessarie: del resto la prostituzione minorile è il problema cardine del Paese. Già che ci siamo: Antonio Di Pietro ha perfettamente ragione a dire che la giustizia italiana funziona benissimo e che il processo breve in sostanza c’è già: nel febbraio 2009 fu inquisito per offesa al Capo dello Stato e prosciolto in dieci giorni, tempo necessario affinché il pm compisse «una lettura attenta» e archiviasse con un fiume di motivazioni; Di Pietro dimostrò che la Giustizia è celerrima già dai tempi di Mani pulite, quando alcuni personaggi (solo alcuni, peccato) giunsero ai terzo grado in soli tre anni; lo dimostrò anche quando cominciò a querelare: un’intervista contro di lui, uscita su Repubblica nel febbraio 1997, andò a giudizio in meno di due mesi, il 3 aprile successivo; e che la giustizia non perda tempo lo dimostrò anche a Brescia, quando evitò ogni processo a suo danno (prestiti, Mercedes, case eccetera) incassando una serie di «non luoghi a procedere» che per qualsiasi altro cittadino, statistiche alla mano, si sarebbero tradotti in automatici rinvii a giudizio. Lui se la cavò in sei ore.

Tutto il resto, meno rilevante, va come sappiamo: sette anni per mandare in primo grado un processo per usura (a Milano) e un minimo di cinque anni (nel resto d’Italia) per un qualsiasi penale in primo grado. È per questi processi che manca la carta per le fotocopie, che Tizio è in malattia, che la segretaria è in maternità: le solite cose che secondo l’Associazione nazionale magistrati costituiscono i soli problemi «strutturali» che ci vedono in coda alle classifiche mondiali sulla giustizia. I nostri processi durano dieci volte più della Francia e cinquanta volte più della Gran Bretagna: forse è perché li facciamo meglio.

sabato 16 aprile 2011

LA TRAGEDIA DI UN VOLONTARIO


La tragedia di un volontario

Arrigoni chiamava “ratti” i sionisti, era un duro che militava con ardore. L’islamismo lo ha ucciso perché veicolo di “vizio occidentale”, come altri attivisti macellati da un nemico feroce che non hanno saputo riconoscere

Vittorio Arrigoni non faceva mistero di disprezzare gli israeliani. In un recente post su Facebook, dove scriveva molto prima di essere ucciso a Gaza da fondamentalisti islamici, l’attivista italiano aveva appena definito i sionisti “ratti”. Una fotografia, diffusa dai siti israeliani, lo mostra abbracciato al premier di Hamas, Ismail Haniyeh. Arrigoni era un duro della militanza pro Hamas, certo. Ma era anche un ragazzo ardente che ha militato per un’idea (sbagliata) e lo ha fatto senza infingimenti, pronto perfino ad accettare una bella morte. La morte invece è stata orrenda e lo ha colto alle spalle, ma se possibile questo accresce la pietà verso un altro “nostro” morto ammazzato. Nostro, proprio in quanto veicolo di “vizio occidentale” – questa l’accusa della mano assassina – in quella fortezza della sharia che è Gaza.

Quando in Iraq fu macellato Enzo Baldoni, l’italiano “panza e istinto” ammiratore del subcomandante Marcos e primo di una filiera di pacifisti italiani uccisi per mano del terrorismo, il moralismo arcobaleno provò a distinguere tra il cattivo bodyguard dagli occhi di brace che doveva portare la mesata a casa, il “mercenario” Fabrizio Quattrocchi, e l’“uomo di pace” Baldoni. L’uccisione di Arrigoni, impiccato da uno squadrone della morte, ci ricorda che questa distinzione non esiste agli occhi dei predoni islamisti.

Non è bastato santificare l’altruismo perché il giovane romano Angelo Frammartino fosse risparmiato a Gerusalemme. Militava per Rifondazione comunista e l’Arci, cantava “le fionde dei ragazzi palestinesi”, è finito accoltellato. Il suo carnefice riteneva che Angelo fosse “ebreo”. In Iraq è morto Salvatore Santoro di Pomigliano. E’ stato ucciso dai terroristi a Ramadi, “la tomba degli americani”, dove Salvatore voleva collaborare alla ong pacifista Charity for England and Wales.

Cresciuto a pane e politica”, Arrigoni era stato cooperante in Bosnia e osservatore durante le elezioni in Congo. La sua fama crebbe quando da Gaza cominciò a scrivere per il Manifesto. Arrigoni dragava, il volto squadrato e convinto, con i pescatori palestinesi. Eppure questo non gli ha risparmiato l’esposizione piangente e disperata di fronte alle telecamere, che in Iraq prima di lui ha sigillato la morte di Nick Berg, l’ebreo esperto di radioline a cui hanno segato la testa. Arrigoni diceva che “apparteniamo tutti, indipendentemente dalle latitudini, alla stessa famiglia umana”. Non la pensano così i fanatici genocidi che tengono in scacco Israele da oltre sessant’anni.

Il suo ultimo video, la testa strattonata per i capelli e gli occhi bendati, ricorda quelli della giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena, generosa pacifista dal volto sciupato e dolente e dal sorriso spento nel pianto. Anche la “resistenza irachena”, per cui Sgrena aveva patteggiato, la costrinse a farsi megafono del banditismo omicida che ha infestato l’Iraq, facendo esplodere i seggi elettorali. Baldoni, Santoro, Sgrena, le due Simone, Frammartino, Arrigoni, sono tutti pacifisti finiti, letteralmente, nelle mani del nemico. Ma il nemico non era quello che immaginavano loro, i marines, le truppe italiane di Nassiriyah, i cingolati israeliani.

E’ un odio puro, feroce, che non discrimina fra ebrei, crociati o apostati del vizio occidentale.

 Eccola la tragedia dei nostri pacifisti.

http://www.ilfoglio.it/soloqui/8532

AFFRETTARSI, ULTIMI POSTI A SEDERE AL CIRCO LAICO


Signore e signori, siamo lieti di invitarvi alle Giornate della laicità.

Venerdì, sabato e domenica, tre giorni all’insegna del dialogo, del dibattito e della libertà.

Abbiate la cortesia di dare un’occhiata al nostro menù per scegliere tra filosofi, pensatori, giornalisti, religiosi, scienziati, professori, cuochi, comici e musicisti quali più preferite”.


Il sito delle Giornate della laicità – promosse da Iniziativa Laica, MicroMega e Arci e in corso fino a domani a Reggio Emilia – fugherà prontamente la perplessità di chi non sapesse dove collocare Piergiorgio Odifreddi (presente con l’incontro “Infinitamente uomo”), se tra i pensatori, gli scienziati o i comici.

Accompagnato dalla mai vista immagine di Einstein che fa la linguaccia, e aperto da un “Elogio del relativismo” a cura del giurista Franco Cordero (di assoluto è disposto solo ad ammettere solo il disprezzo per il Cav.), il laicissimo consesso ha offerto ieri un dialogo tra Paolo Flores d’Arcais e don Carlo Molari sul tema: “La dottrina cattolica è compatibile con la democrazia?”, e rilancerà oggi con l’ancor più radicale: “La religione è compatibile con la democrazia?”, dialogo fra Giuseppe Platone e Pierfranco Pellizzetti. Nulla, di fronte all’abissale: “Un filosofo può credere in Dio?” (dialogo tra Flores d’Arcais e Gianni Vattimo).

I fortunati superstiti, laddove rientrino nelle categorie di età prescritte, potranno accedere a una “Lezione di educazione sessuale per le scuole” tenuta dal professor Carlo Flamigni. Valida alternativa, lo spazio di animazione e giochi “Breccia di Porta Pia”, con bersaglieri contro guardie svizzere (va bene, questa non è vera. Ma potrebbe essere un’idea).

http://www.ilfoglio.it/soloqui/8537

venerdì 15 aprile 2011

DIO AMA PIU' LA NOSTRA LIBERTA' CHE LA NOSTRA SALVEZZA


Dio ama più la nostra libertà che la nostra salvezza”


Cari amici,

“Dio ama più la nostra libertà che la nostra salvezza”, ci diceva don Giussani. In questi giorni non solo Paolino ed io, ma tutti abbiamo sperimentato cosa significa questa provocazione che smaschera la nostra possessività, la nostra pretesa sugli altri, magari con la sottile scusa del loro bene. Anna Maria è una bella ragazzina di quindici anni di cui ho l´affido giudiziale, e domenica sera è scappata dalla “Casita de Belen” con Marta di diciassette anni, la mamma della piccola Lucia, la bimba che è morta alcuni mesi fa nella nostra clinica. Immaginate cosa può aver significato per me e Paolino in particolare. Ognuno, pensi cosa proverebbe se le scappasse la figlia di casa. Il dolore è stato grande eppure pieno di una libertà sconosciuta prima, quella libertà che è una totale consegna al Mistero e che diventa preghiera. Le abbiamo cercate, ma niente da fare.
Alle tre della mattina ritorna Marta ed è accolta con gioia dalla “mamma adottiva”, ma di Anna Maria, nessuna notizia. Il giorno dopo, lunedì, avvisiamo la polizia e il giudice che ha in mano il suo caso, che emette un ordine di cattura.

Sono giorni, ore infinite piene di preoccupazione ed anche di una certa rabbia, dovuta ai mille perché e alle pretese che ci portiamo dentro. È l´umano in tutte le sue dimensioni che però non cessa di essere grido, preghiera, supplica. L’impotenza è totale. La prima notte per me è stata un po’ un incubo, ma la fiducia nella Provvidenza era totale. Nella totale impotenza sentivo che il mio amore doveva fare i conti con la libertà di Anna Maria. Ma che sfida, che durezza! Amare la libertà dei propri figli più della loro salvezza, se non sei afferrato dal Mistero non è possibile, se il tuo io non è un “Io sono tu che mi fai” non è neanche ipotizzabile questa posizione. Ma Grazie alla Madonna per me questa certezza è granitica, per cui vincente.

E oggi, mercoledì, la bella notizia: Marcello il suo Professore l´ha vista in uno strada. Subito sono andati a prenderla. Quando è arrivata, si è letteralmente aggrappata così alla mia povera persona e l´ho portata in casa, la nostra casa. La guardavo e l´accarezzavo. Era bellissima nella sua sfinitezza. Solo alcune parole in cui le chiedevo se le avevano fatto del male. Poi le ho dato un cioccolatino, come quel giorno con me ha fatto Giussani, abbiamo detto un’Ave Maria. Ho chiamato Paolino l´ha abbracciata con una grande tenerezza. Quindi abbiamo chiamato Diana, la mamma adottiva della “Casita de Belén” numero 2 perché la portasse a fare una doccia e dormire, lasciando a domani tutto il resto. La psicologa l´aspettava per le solite domande, ma Paolino sbrigativamente ha detto: gli psicologi siamo noi per cui facciamo festa e che adesso si faccia una buona dormita. Nel salutarla le abbiamo chiesto: sei felice di essere tornata? E lei: sì, Padre.

Aveva girato, camminato per tre giorni ma quando ormai sfinita, stava tornando a casa. La libertà di Dio e la sua libertà hanno vinto sulle nostre paure, sulle nostre pretese, sul nostro possesso. Ancora una volta quell´io sono Tu che mi fai, che piano piano entra anche nel midollo delle ossa dei miei figli, ha trionfato. Giorni durissimi, ma oggi vedere il trionfo della libertà è davvero commovente, perché Anna Maria è tornata, è salva. E solo chi ama la libertà gioisce perché vede anche la salvezza dei suoi figli.

Certo, amici, non è facile perché tutti i giorni il Signore mi chiede tutto in quest’oasi di dolore, e a volte sembra di non farcela più, e spesso uno sperimenta quel sentimento di dire: “ma, Signore cosa vuoi da me?” Ma subito quel Tu che domina tutto vince.

È una battaglia ogni momento come quella di Giacobbe con l´Angelo…ed è bello che sia così perché è la vita a esigerlo, però è necessario che la mia libertà alla fine si arrenda sempre all´evidenza del Mistero che mi vuole suo.

Grazie amici, perché quanti pregate per me e per i miei figli, avete contribuito al ritorno della nostra Marta e Anna Maria.

Amici, sfidate e lasciatevi sempre sfidare dalla libertà dei vostri figli.

P. Aldo

IL GUARDIANO DELLA COSTITUZIONE

Sul processo breve, che l’opposizione giudica incostituzionale, il “presidentissimo” Napolitano ha rassicurato l’opinione pubblica, affermando che studierà bene il dossier e lasciando intendere che, a salvaguardia della Costituzione, sarebbe anche pronto a non firmare la legge.

Meno male, ci sentiamo sollevati: non ha detto che sarebbe disposto a schierare anche l’esercito.


DA “La bussola Quotidiana”

di Riccardo Cascioli

15-04-2011



ABBATTERE IL DEMONE 5

TECNICA DI UN COLPO DI STATO
di Giuliano Ferrara

Sono cento righe intrise di attacchi al governo e di analisi pessimistiche che più pessimistiche non si può e che si concludono con una ricetta che supera tutte quelle proposte fino a oggi dall’opposizione per abbattere il premier. Ciò che invocava ieri sul «Manifesto» lo storico di sinistra Alberto Asor Rosa è nientepopodimeno che un colpo di Stato, attuato con la collaborazione di carabinieri e polizia. Una minaccia alla quale ieri sera Giuliano Ferrara ha dedicato il suo «Radio Londra». Pronta la controreplica di Asor Rosa: «Faccio appello alle forze sane dello Stato perché evitino la crisi verticale della democrazia».

C’è chi propone di fare un colpo di Stato contro il governo eletto, il governo eletto dagli italiani, il governo Berlusconi.



Si chiama Alberto Asor Rosa, è stato deputato della sinistra e professore universitario. Negli anni Settanta militava, diciamo, in quelle tendenze di pensiero alla Toni Negri contigue culturalmente al terrorismo italiano.

Ecco che cosa ha scritto sul quotidiano comunista "il manifesto" di oggi, , perché non vorrei che poi si dicesse che io mi invento le cose che dico: «Ciò cui io penso è una prova di forza che, con l’autorevolezza e le ragioni... eccetera, scenda dall’alto, instaura quello che io definirei un normale “stato di emergenza”, si avvale più che di manifestanti generosi, dei carabinieri e della polizia di Stato, congela le Camere, sospende tutte le immunità parlamentari...» eccetera eccetera eccetera. Insomma, un colpo di Stato in piena regola contro il governo eletto dagli italiani.

Siamo finalmente alla piena, diciamo dispiegata chiarezza di un progetto politico che molti altri editorialisti, questa volta di Repubblica, avevano già definito anche nella famosa assemblea del Palasharp, dove un ragazzino di tredici anni fu convocato a recitare la litania dell’odio contro l’arcinemico.

 Che cosa dicono costoro? Dicono che siccome lui, Berlusconi, ha rimbecillito gli italiani con le televisioni, siccome con i voti non credono di essere in grado di batterlo alle elezioni, siccome in Parlamento non c’è una maggioranza alternativa e invece di lavorare per trovare una maggioranza alternativa nel Paese e nel Parlamento e varare un governo come sono stati i due governi Prodi - Prodi ha battuto due volte Berlusconi, no? -, bisogna fare qualcosa di extra istituzionale. E Asor Rosa, il professor Asor Rosa, quest’uomo con questi baffi sicuri di sé e questa prosa non proprio elegantissima, dice che cosa bisogna fare: un golpe con i carabinieri e la polizia di Stato, che venga dal-l’alto contro il basso popolo incapace di capire come stanno le cose.

Un golpe delle élite, un golpe favorito dagli intellettuali e dalle loro idee. Un golpe che, diciamo, sarebbe un esproprio di sovranità ai danni del popolo italiano. Guardate che non sto scherzando, Asor Rosa non è un passante, ripeto, è stato un dirigente politico della sinistra, fa parte diciamo di quella che potremmo definire la cricca Scalfari, cioè il gruppo di potere editoriale e, se posso consentirmi, lobbistico che in simbiosi con i magistrati cerca, non di portare Berlusconi ai processi, ma di abbattere Berlusconi in quanto capo politico del governo. L’Italia è una democrazia regolare, tra poco vedremo una partita e vogliamo stare tutti tranquilli e andare a dormire tranquilli, però c’è chi lavora per un colpo di Stato.

Tratto da Il Giornale del 14 aprile 2011

(nota del blog: il leader che può abbattere Berlusconi c'è, e sta per dare il colpo finale, rinviando alle camere la legge sul giusto processo: ed è ovviamente il presidente Napolitano, emulo di Scalfaro. Quando alla presidenza della Repubblica vanno personaggi di secondo piano ci sono solo tragedie per il popolo)

giovedì 14 aprile 2011

ABBATTERE IL DEMONE 4


Così Zagrebelsky indottrina aspiranti tirannicidi

Dal Palasharp alla Biennale democrazia

Dal Palasharp alla Biennale della democrazia (titolo: “Tutti. Molti. Pochi”, contro le “insidie che la concentrazione dei poteri comporta per la vita democratica”, per usare le parole di Giorgio Napolitano nel messaggio di saluto inviato ieri).

Cinque giorni a Torino per convincere il popolo che è arrivato il momento di decapitare il Re. Gustavo Zagrebelsky, il giurista del gruppo puritano dei tecnici del colpo di stato e presidente della Biennale, usa Joseph De Maistre per spiegare le sue intenzioni: “Il potere di tutti si esercita solo nei momenti eroici, quando si abbatte il tiranno. Dopo, lentamente, si mettono in moto le oligarchie, perché i grandi numeri, per governare, hanno bisogno dei piccoli numeri. Dunque è necessario riattivarsi contro le oligarchie”.

Zagrebelsky fa parte di quell’intellighentia che definire di sinistra è riduttivo, fa parte di quel club dei miliardari molto indignati (e molto preparati) che nel loro cuore schifano il popolo e odiano chi ne sa interpretare gli umori e intercettare le voglie (quando non i desideri): per questo disprezzano la politica in generale e Silvio Berlusconi in particolare.

Tornato dalla Corte costituzionale, nel 2004 il professore passò pochi giorni tra le aule dell’Università. Da poco passati i sessanta, lasciò l’insegnamento ordinario anche perché disgustato dall’università di massa (oggi tiene un corso opzionale di Diritto costituzionale). Come un Alessandro Baricco del Diritto, dicono che non disdegni di indossare la maschera da voi-non-mi-meritate, ma ora scende tra il popolo confuso cavalcando il destriero bianco della Costituzione e proponendo cinque giorni di incontri, mostre e spettacoli con un programma talmente elefantiaco che gli stessi relatori fanno fatica a decifrarne i contorni.

L’idea di fondo è però ben chiara nella mente del professore: la politica fa schifo, i nostri rappresentanti sono ancora peggio, l’etica non frequenta da troppo tempo i palazzi del potere. La soluzione? Dare la parola al popolo e a coloro che incarnano l’Etica e i Valori (che piacciono a Zagrebelsky).

L’obiettivo: dare al popolo rincretinito dal Cav. una coscienza nuova. Tutto si tiene, alla Biennale della democrazia: ieri sera Benigni ha usato Dante per attaccare Berlusconi, nei prossimi giorni stessa sorte toccherà a Evola, Primo Levi, Socrate, Platone, Machiavelli, Pasolini, il Risorgimento e Mandela tra gli altri. La preparazione è stata accurata: mesi di dibattiti nelle scuole, nelle sedi delle istituzioni, giurie popolari che valutavano i contenuti dei vari incontri, relativismo come se piovesse. Rifiuto di “sommi princìpi” e “postulati assoluti”: tutti discutano liberamente di tutto.

La pseudo “democrazia dal basso” di Zagrebelsky non tiene fuori nessuno. A parlare ci sarà un parterre non originale ma variopinto: da Michele Serra al priore di Bose Enzo Bianchi, dal giurista Joseph Weiler a Umberto Eco passando per Vito Mancuso, Nadia Urbinati, Paolo Mieli, Antonio Pennacchi, Ernesto Galli della Loggia, Peter Gomez ed Eugenio Scalfari. Ieri il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi ha dato (con neutralità) il via ai lavori. Due anni fa fu Giorgio Napolitano a benedire l’iniziativa di uno Zagrebelsky sempre più circondato dall’aura di papa laico: il professore che schifa la politica aveva bisogno di accreditarsi presso le istituzioni per diffondere meglio tra la gente la nausea per tutto ciò che è rappresentanza.

Nelle scuole, gli incontri preparatori alla Biennale hanno avuto all’incirca questo canovaccio: “Per discutere del tema X o Y, dovete liberarvi di tutto quello che sapete e che la vostra tradizione vi ha insegnato. Solo a quel punto sarete liberi di discutere”. E di essere rimbecilliti.

Un programma che punta a crescere generazioni indignate: non persone pronte a cambiare il sistema, ma persone contro il sistema. Quello stesso sistema che tra comune di Torino, banche e fondazioni, finanzia l’evento di questi giorni. A forza di dare di “anticostituzionale” a Berlusconi, il presidente emerito della Corte scivola sul crinale della costituzionalità: l’articolo 1 della sua Carta di riferimento recita che “la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Non in piazza per “abbattere il tiranno”, dunque.

Siamo vicini al ribaltamento di De Maistre: dopo che il tiranno sarà stato eliminato dal popolo (istruito a dovere dai difensori della democrazia), il popolo non servirà più. Sarà il momento delle oligarchie. Guidate da chi? Indovinare.

http://www.ilfoglio.it/soloqui/8504

ABBATTERE IL DEMONE 3





Il doppiopesismo della claque


Quando il tifo forcaiolo fuori dal tribunale non infastidiva i pm

Il tribunale di Milano si lamenta per la “fastidiosa” presenza di sostenitori di Silvio Berlusconi nei pressi del Palazzo di giustizia, che condizionerebbe il “regolare” svolgimento dell’attività giudiziaria. Nessuno ricorda che un eguale fastidio sia stato mai avvertito, nelle innumerevoli occasioni in cui il palazzo di giustizia milanese è stato in passato il teatro di manifestazioni giustizialiste.

Ai tempi di Tangentopoli, anzi, i magistrati invocavano il “sostegno popolare” alle loro iniziative, come se fossero (già) un partito politico. I pasdaran della procura milanese (definiti in questo modo proprio da Antonio Di Pietro) hanno voluto in ogni modo imporre al premier di presentarsi “alla sbarra”, puntando probabilmente a una riedizione delle scene penose dei leader dalla Prima Repubblica che sfilavano davanti ai giudici in tono dimesso e palesemente impaurito.

Berlusconi sostiene da tempo e in modo assolutamente esplicito che quelli intentati contro di lui sono procedimenti avviati e condotti in base a un pregiudizio politico, non è un leader già sconfitto e abbandonato dal suo stesso partito, come l’Arnaldo Forlani di allora. E’ il leader del maggiore partito italiano, è il presidente del Consiglio dei ministri, piaccia o non piaccia ai suoi accusatori. Ha la forza e il diritto di combattere, anche nei processi, la sua battaglia politica che trova sostegno consistente nella base popolare del suo movimento.

Che questo sia fastidioso per la dottoressa Livia Pomodoro è comprensibile, ma non conta nulla. Se leggessero la Costituzione che sventolano a ogni piè sospinto, gli scandalizzati difensori dell’austera sacralità dei palazzi di giustizia scoprirebbero che in Italia vige la libertà di espressione e che si può manifestare “pacificamente e senz’armi” la propria opinione, anche quando non coincide con quella della procura milanese.

L’idea stessa che sia lecito ai magistrati fare appello al sostegno popolare, e non lo sia al capo di un grande partito, è un capovolgimento delle funzioni e delle prerogative di ciascuno. Infastidire il tribunale è lecito, mentre è anticostituzionale e illiberale che il tribunale chieda altezzosamente alla polizia di impedire l’esercizio di una libertà riconosciuta.

http://www.ilfoglio.it/soloqui/8484

ABBATTERE IL DEMONE 2

LE DUE FACCE DELLA VERITÀ

BRUNO VESPA SUL “CARLINO” 13 APRILE

ANCHE senza la prescrizione breve` che dovrebbe essere approvata stasera dalla Camera, il processo Mills sarebbe estinto all`inizio del prossimo anno senza poter passare al vaglio della Corte d`appello e della Cassazione. E poiché sono 170 mila i procedimenti penali che ogni anno cadono in prescrizione, i magistrati avrebbero evitato di perdere tempo con un processo morto. Ma c`è un`altra e decisiva ragione per la quale l`imputato Silvio Berlusconi è diverso dall`imputato comune.
Sinora avevamo capito che una persona si considera corrotta da quando ha ricevuto il denaro necessario a corromperla. Nel caso di Berlusconi, proprio per allungare i tempi della prescrizione ordinaria, i giudici stabilirono a suo tempo che il reato (e quindi i tempi della prescrizione) partiva dal momento in cui Mills aveva cominciato a spendere il denaro, cioè circa due anni dopo averlo ricevuto.
Immaginate se ai tempi di Mani Pulite una stravaganza del genere sarebbe stata possibile. Se dunque la Camera si appresta ad approvare - al di là di ogni infingimento - una tipica legge ad personam, lo si deve al fatto che il processo Mills è un tipico processo ad personam. (...)

ABBATTERE IL DEMONE

MA IL MASSETERE E’ UN MUSCOLO DEMOCRATICO?

Da sempre chi detesta il Cav. si avventura in definizioni romanzesche, complesse, freudiane, junghiane, giudiziarie disumane(incantatore, stregone, delirio, narcisista, caimano) ecc.
Da ieri anche anatomiche. Il grande Inquisitore di Repubblica, G. Davanzo spiegava seriamente che Berlusconi si serve di un particolare muscolo della faccia, il massetere, situato vicino alla mandibola, per manovrare quel “sorriso inalterabile”. Ma si è fatto infilare quel coso apposta dal chirurgo plastico, o si tratta di un muscolo democratico, posseduto anche dalle mandibole dell’opposizione?

Tratto da Annalena Benini, il Foglio 13 aprile

lunedì 11 aprile 2011

LA LIBERTA' DI PENSIERO VALE ANCHE PER I TRADIZIONALISTI?

Roberto De Mattei, vicepresidente del Cnr, è ormai spacciato. Le sue dichiarazioni a proposito del terremoto e della fine dell’impero romano per troppi invertiti hanno scatenato il pollaio del politicamente corretto. Nessuno accetta l’idea che uno scienziato possa avere un convincimento metafisico rispetto alla materia. E siccome le religioni hanno l’obbligo di aggiornarsi, pena l’accusa di fondamentalismo, è finita che solo alla scienza è dato il crisma dell’inamovibilità, e nulla è concesso al Sacro. Ricapitoliamo: i terremoti sono un castigo divino, ed è vero. Ed è verissimo che Roma sprofondò nell’oblio per eccesso d’invertiti. Tanto è vero che la splendida Roma diventò cristiana. E però, Inch’Allah, adesso arriviamo noi saraceni e sistemiamo tutto. Mutande di latta, please.

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http://www.ilfoglio.it/soloqui/8458

STUPEFACENTI MENZOGNE


UN DISEGNO PERVERSO



Gran Bretagna, 1997: il quotidiano Independent lancia una campagna senza precedenti per chiedere la depenalizzazione della cannabis.

L’anno dopo, 16 mila persone sfilano ad Hyde Park a sostegno della proposta. Nel 2004, il governo Blair cede: la cannabis passa dalla categoria B a quella C, ossia tra le droghe leggere, il cui consumo personale non è più un reato punibile con l’arresto, ma con multe in denaro. Una decisione che si è rivelata un grosso errore, poiché ha innalzato da 1.600 a 22000 il numero di persone che ogni anno, nel Regno Unito, finisce in cura per abuso di droghe. La metà dei malati è minorenne.

Per questo, l’Independent il 16 marzo 2007 riconosce di aver clamorosamente sbagliato, si cosparge il capo di cenere, e mette in guardia dai nuovi pericoli: la droga che si fuma oggi, il così detto ‘skunk’, è tratta da un tipo di cannabis 25 volte più potente di quella di 10 anni fa e crea conseguenze gravissime sull’organismo umano, soprattutto a livello psichico.

Secondo Robin Murray, docente di psichiatria al King’s and St Thomas’ Medical School a Londra, infatti, almeno un decimo dei 250 mila schizofrenici del Regno Unito avrebbe evitato di ammalarsi se non avesse fatto uso di cannabis. Colin Blakemore, capo del Medical Research Council, che alla fine degli anni Novanta si schierò con la campagna antiproibizionista dell'Independent, ha parimenti cambiato opinione su questa droga: ''Il legame tra la cannabis e le psicosi è chiaro ora, non lo era dieci anni fa''. Indietro tutta, insomma; tante scuse: la cannabis fa male anzi malissimo.

In Italia lo stesso giorno del 2007 la magistratura boccia il decreto Turco che aveva raddoppiato la quantità di cannabis che poteva essere detenuta senza incorrere nelle sanzione penali, stabilendo che, in base alla legge, la quantità di sostanza detenibile non può essere decisa sulla base della dicrezionalità politica, ma la scelta deve essere “tecnica”. In parole povere accusa la Turco di avere fatto una scelta solo “politica”.

La stucchevole ministro Turco, invece di chiedere scusa come il buon senso imporrebbe, nella sua retorica evanescente, auscultante, comprensiva, ma a caccia di voti facili, fece ricorso, (secondo la sua morale bisogna sempre rispettare le sentenze, quando sono contro gli altri).

La Turco, facendo parte di quella patetica schiera di ex giovani, ex falsi anticonformisti, ex falsi anticomunisti, continua a parlare di quel che non conosce, non sa, non comprende, perché gli spinelli non sono più quelli di trent’anni fa, che magari avrà fumato al campeggio dei pionieri, e come lei i suoi sodali non hanno ancora capito che quando ci si trova di fronte ad un giovane che fa uso di droga, il problema è come togliergliela, non come dargliela, e che il compito della politica non è la misurazione del danno fisico prodotto da uno spinello (comunque rilevante), ma riflettere su dove conduca una strada che fin dal primo passo promette un’alterazione della ragione.

Aprile 2011: poiché errare è umano e perseverare diabolico, l’ex giovane di turno Nichi Vendola governatore pugliese sfodera la sua ultima trovata : il campo di canapa per produrre olio di marijuana "a scopo terapeutico". Un'iniziativa che segue il progetto della regione Toscana di legalizzare l'uso della cannabis "per fini medici". Ce n'è abbastanza per non scorgere l'ennesimo tentativo di voler sdoganare le impropriamente dette "droghe leggere". A Nichi, ma che stai a ddì??

domenica 10 aprile 2011

IL SUSSIEGO DEGLI IPOCRITI




IL BANALISMO PIATTO E CIALTRONESCO DELLA RETE SIMBOLO DELL'ITALIA IDEOLOGICA E PROGRESSISTA



I cattolici sono indignati con Rai 3. Si sentono bersagliati ingiustamente e si sono stancati di subire in silenzio.
Prendo a simbolo un giovane prete, che chiamerò don Gianni, un bravissimo sacerdote che – fra le altre cose, insieme ad altri – si fa in quattro e dà letteralmente la vita, per aiutare immigrati, emarginati, “barboni” e tossicodipendenti.
L’ultimo episodio che ha fatto indignare lui e molti altri come lui, è stata l’incredibile invettiva contro la Chiesa fatta da Luciana Littizzetto a “Che tempo che fa”, domenica sera (che sta pure su Youtube).
E’ considerato un caso emblematico della tendenza di Rai 3, la rete simbolo dell’Italia ideologica. Il programma è quello di Fabio Fazio, programma cult della sinistra salottiera.
E’ noto che ogni domenica sera la Littizzetto fa le sue concioni avendo come spalla lo stesso Fazio.
Ebbene domenica, parlando di Lampedusa, a un certo punto – senza che c’entrasse nulla – la Luciana si è lanciata in un attacco congestionato contro la Chiesa, a proposito dell’arrivo dei clandestini tunisini, e ha urlato ai vescovi “dicano qualcosa su questa questione”.
I vescovi, a suo parere, stanno sempre a rompere “e adesso stanno zitti… fate qualcosa! Cosa fanno?”.

A me pare che non esista affatto l’obbligo per la Chiesa di farsi carico di tutti i clandestini che vengono dall’Africa.
In ogni caso il quotidiano dei vescovi, Avvenire, ieri ha sommessamente obiettato alla Littizzetto che la Chiesa non ha taciuto affatto e che proprio la scorsa settimana il segretario generale della Cei, monsignor Crociata ha convocato una conferenza stampa per informare che 93 diocesi hanno messo a disposizione strutture capaci di ospitare 2500 immigrati, caricando sulla Chiesa tutte le spese.
Ma questa risposta di Avvenire è uscita in ultima pagina, sussurrata e con un tono benevolo, sotto il titolo: “Chissà se Lucianina chiede scusa”.

Fatto sta che attacchi come quelli della Littizzetto sono stati visti e ascoltati da milioni di telespettatori e ben pochi avranno letto la documentata risposta di “Avvenire”.
Forse si può e si deve rispondere anche più energicamente. C’è chi vorrebbe pretendere le scuse del direttore di Rai 3 e soprattutto il diritto di replica.

In nome dei tantissimi sacerdoti, suore e cattolici laici che in questo Paese da sempre, 24 ore al giorno, sputano sangue per servire i più poveri ed emarginati e che poi si vedono le Littizzetto e tutta la congrega di intellettualini e giornalisti dei salotti progressisti che, dagli schermi tv, impartiscono loro lezioni di solidarietà.

Sì, perché la Littizzetto non si è limitata a questo assurdo attacco (condito di battute sul cardinal Ruini).
Poi, fra il dileggio e il rimprovero morale, si è addirittura impancata a seria maestra di teologia e ha preteso persino di evocare il “discorso della montagna” – citato del tutto a sproposito – per strillare ai vescovi e alla Chiesa: “ero nudo e mi avete vestito, ero malato e mi avete visitato, avevo sete e mi avete dato da bere… Il discorso della montagna lì non vale perché sono al mare?”.

E poi, sempre urlando, ha tuonato: “c’è la crisi delle vocazioni, ci sono seminari e conventi vuoti: fate posto e metteteli lì, che secondo me poi sono tutti contenti”.

Non sarebbe neanche il caso di segnalare che l’ignoranza della Littizzetto è pari alla sua arroganza, perché il “discorso della montagna” sta al capitolo 5 del Vangelo di Matteo, mentre i versetti citati da lei – che non c’entrano niente – stanno addirittura al capitolo 25 (quelli sul giudizio finale che non piacerebbero proprio alla comica di Rai 3).
Non sarebbe il caso di sottolineare la gaffe se la brutta sinistra che ci ritroviamo in Italia non avesse elevato comici come lei al rango di intellettuali e addirittura di maestri di etica e di civiltà.
Apprendo addirittura (da Internet) che “il 22 novembre 2007 Luciana Littizzetto ha ricevuto dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il prestigioso premio De Sica, riservato alle personalità più in luce del momento nel mondo dello spettacolo e della cultura”.
Se queste sono le “personalità della cultura” che vengono premiate addirittura da Napolitano è davvero il caso di dire “povera Italia!”. Viene in mente Oscar Wilde: “Chi sa, fa. Chi non sa insegna”.

Chi conosce il Vangelo e lo vive, come il mio amico don Gianni, si fa in quattro per dar da mangiare agli affamati e da bere agli assetati.
Chi invece non lo conosce, pretende di insegnarlo, lautamente pagato per le sue scenette comiche su Rai 3, e si lancia all’attacco dei “preti”.
Visto che sia la Littizzetto che Fazio – il quale ha assistito a questa filippica sugli immigrati senza obiettare, facendo ancora la spalla – mi risulta siano ben retribuiti e non vivano affatto nell’indigenza, vorrei sapere, da loro due, di quanti immigrati si fanno personalmente carico. Quanti ne ospitano a casa loro? Quanto danno o sono disposti a dare, dei loro redditi, per accogliere e spesare tunisini, libici e altri clandestini?
Considerata l’invettiva della Littizzetto e il suo pretendere che altri (la Chiesa) ospitino gli immigrati a casa loro, non posso credere che lei per prima non faccia altrettanto.
Sarebbe veramente una spudoratezza inaccettabile.
Vorrebbe allora – gentile signora Luciana – mostrarci la sua bella casa piena di tunisini che lei avrà sicuramente ospitato?

La Chiesa non ha certo bisogno delle lezioni di “Che tempo che fa” per spalancare le sue braccia a chi non ha niente. Lo fa da duemila anni.
E dà pure per scontato che il mondo non se ne accorga e neanche la ringrazi. Ma che addirittura debba essere bersagliata dalle lezioncine è inaccettabile, soprattutto poi se a farle fossero persone che non muovono dito per i più poveri.

Intellettuali, comici e giornalisti dei salotti progressisti che spesso schifano l’italiano medio (e anzitutto i cattolici), che stanno sempre sul pulpito, col ditino alzato, a impartire lezioni di morale, di solito non vivono nell’indigenza.
Molti di loro trascorrono le giornate fra gli agi, in belle case e al riparo di cospicui conti in banca. Qualcuno – come si è saputo di recente – si avventura pure in investimenti sbagliati. Temerari.

Io non so come vivano loro la solidarietà. Ma a me personalmente non è mai capitato di trovarne uno che fosse disposto a coinvolgersi in iniziative di solidarietà e di carità verso i più infelici quando le ho proposte loro.
Ce ne saranno, ma io non ne ho mai trovati. Prima di impancarsi a maestri e censori degli altri, non sarebbe il caso che anzitutto testimoniassero ciò che fanno loro personalmente?

Noi cattolici educhiamo i nostri figli alla carità come dimensione vera della vita.
Mio figlio di 14 anni trascorre il sabato mattina con altri coetanei, insieme a don Andrea, a portare generi alimentari a barboni e famiglie indigenti. E a far loro compagnia.
Don Andrea educa i suoi ragazzi portandoli anche con le suore di Madre Teresa che vanno a cercare i clochard, se ne prendono cura, li lavano, li medicano, mi rifocillano.
Io non ho mai visto un solo intellettuale di sinistra lavare un barbone. Invece i preti, le suore e i cattolici che lo fanno sono tantissimi.

Sono persone che fin da giovani hanno deciso di donare totalmente la loro vita, per amore di Gesù Cristo. Hanno rinunciato a una propria famiglia, vivono nella povertà (i preti, titolati con studi ben superiori alla media, vivono con 800 euro al mese) e servono l’umanità per portare a tutti la carezza del Nazareno.
La Chiesa sono questi uomini e queste donne. E’ di questi che straparlano spesso certi intellettuali da salotto.
Non so quanto se ne rendano conto, soddisfatti e compiaciuti come sono di se stessi.

Non so se sono ancora in grado di provare un po’ di vergogna.
Ma so che questa sinistra intellettuale (quella – per capirci – che se la prende con i crocifissi e che sta sempre contro la Chiesa) fa davvero pena, fa tristezza.
Certamente è quanto ci sia di più lontano dai cristiani.

Antonio Socci

Da “Libero”, 7 aprile 2011

SUSSIDIARIETA' .... IN COMUNE


RISORSA SUSSIDIARIETA’

Andrini ha intervistato Stefano Zamagni su "Avvenire Bologna Sette"

“Bologna unisce punte di eccellenza a una miriade di rami secchi. Per questo non si può pensare che il futuro di una città possa essere legato solo alle prime. Si deve perciò puntare sulla zona intermedia, su quelle imprese che pur non essendo eccellenti sono vitali».


Lo afferma Stefano Zamagni, ordinario di Economia politica all’Università di
Bologna. «Nella nostra città» prosegue «non si è più riusciti ad integrare comunità operosa (le imprese) e comunità di cura (i soggetti che si prendono cura delle
persone tenendo conto della loro condizione familiare). E i risultati sono sotto gli occhi di tutti».

«Diminuendo i fondi che l’ente pubblico destinava alla cura – continua Zamagni – da una parte i soggetti associazionistici e individuali hanno poche risorse e dall’altra le imprese pensano che del problema si debba occupare l’ente pubblico. Questo è l’errore più grave che negli ultimi tempi ha impedito a Bologna di esprimere il suo potenziale».

È allora necessario, insiste il professore, far capire al nuovo sindaco e alla nuova giunta che senza un discorso familiare delle imprese esse non riusciranno a competere e a raggiungere quel livello di produttività necessario per la competizione globale.
«Se occupo dipendenti la cui situazione familiare è compromessa da
malattia e divisione – esemplifica Zamagni – è ovvio che quel dipendente non potrà darmi quella produttività che mi è necessaria, perché si metterà in malattia o
chiederà permessi. Allora come fare? Solo se si accetta il modello della sussidiarietà circolare se ne può venire fuori. Che significa mettere in relazione tre vertici del
triangolo: sfera ente pubblico, sfera comunità operosa, sfera comunità di cura».

«Non può essere – sottolinea ancora Zamagni –, come è accaduto finora, che l’ente
pubblico alla fine decida cosa fare e che gli altri debbano solo eseguire. Questa triangolazione deve avvenire nel momento della coprogettazione e non solo della coproduzione».
Coprogettazione, spiega «vuol dire individuare i bisogni e studiare le modalità di risposta. La coproduzione è invece la gestione. A Bologna si sono realizzate negli ultimi 15 anni forme interessanti di coproduzione: per esempio affidando alle cooperative sociali, all’associazionismo, alle Fondazioni compiti precisi.  Ma non basta. Occorre arrivare alla coprogettazione. Perché solo chi sta in mezzo alla gente può individuare i veri bisogni».

«È di quest’anno – ricorda Zamagni – il caso tragico del piccolo David.  Lì il servizio sociale del Comune era intervenuto, ma sappiamo come è andata a finire. Solo un approccio relazionale avrebbe potuto scongiurare la tragedia».

Zamagni auspica l’allargamento del principio di responsabilità secondo il quale ciascuno è responsabile delle azioni che compie. «Nel nuovo secolo – osserva Zamagni – questo non basta più: si deve essere responsabili anche di ciò che si lascia fare. In termini politici – sottolinea il docente – questo significa passare da un modello di democrazia elitistico-competitiva a un modello di democrazia deliberativa. Purtroppo a Bologna è venuta a mancare questa dimensione. L’individualismo imperante ha fatto sì che buona parte dei cittadini facesse spallucce quando si vedeva che altri operavano non per il bene comune ma per il bene di un gruppo». Lo sviluppo, ricorda ai futuri amministratori l’economista, deve essere integrale.

«Un modello di sviluppo sostenibile – spiega – è quello che tiene in equilibrio tre dimensioni: materiale, sociorelazionale e spirituale. Non può avvenire che per favorire la dimensione materiale si sacrifichi, per esempio, quella sociorelazionale facendo lavorare operai e impiegati anche la domenica. Chi ragiona così, e a Bologna c’è chi lo fa, dimostra di non avere capito lo sviluppo integrale,che è proprio ciò di cui la città ha bisogno».

«Alla nuova amministrazione – conclude Zamagni – consiglierei di dare priorità assoluta alla dimensione integrale dello sviluppo. Solo così Bologna potrà tornare grande».

http://www.bologna.chiesacattolica.it/bo7/2011/2011_04_03.pdf