lunedì 18 luglio 2011

LA VITTORIA DI IPPOCRATE


DI FRANCESCO D'AGOSTINO

Il disegno di legge sul fine vita e sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat), approvato dalla Camera, sta suscitando polemiche vivacissime e assolutamente legittime, se non per i toni, spesso deplorevoli, che stanno assumendo (puntualmente è tornato ad affacciarsi sulla prima pagina della "Repubblica" Stefano Rodotà, con il compito di vituperarla. Questa volta, però, sembra proprio che Rodotà abbia passato ogni limite nella sua, aggressività verbale, peraltro ormai ben nota: la legge sarebbe «ideologica, violenta, bugiarda, sgrammaticata, incostituzionale». Basta? Certo che no. A questa sfilza di complimenti, Rodotà ne aggiunge altri: la legge disprezzerebbe l’opinione pubblica, sarebbe la «quintessenza di un dispotismo etico», rifletterebbe «un fondamentalismo cattolico incomprensibile», farebbe «scempio» del «diritto fondamentale» all’autodeterminazione, trasformerebbe le dichiarazioni anticipate di trattamento in «macchine inutili, frutto di un delirio burocratico» e attraverso di essa il presidente del Consiglio «e la sua docilissima schiera» metterebbero «le mani sul corpo di ciascuno di noi».).

Che però da parte di alcuni si continui a lamentare che questo testo violi il doveroso rispetto che si deve all’autonomia della volontà dei pazienti lascia davvero meravigliati. Così come desta meraviglia sentir contrapporre al testo del disegno di legge italiano quello della Convenzione europea di bioetica (o Convenzione di Oviedo), quando contrapposizione non c’è sotto alcun profilo. Oviedo si guarda bene dall’auspicare un’obbligatorietà per il medico di applicare le Dat, ma si limita a dire che esse dovranno «essere prese in considerazione».

Esattamente quello che dice il disegno di legge votato a Montecitorio, che prevede addirittura, per favorire la loro esatta acquisizione da parte dei medici, l’istituzione di un registro nazionale consultabile via internet. Definire «pomposa» tale norma, come qualcuno ha fatto, significa non rendersi conto che questo è appunto il modo migliore per far prendere sul serio le Dat, senza giungere all’estremo – rischiosissimo – di renderle giuridicamente «vincolanti».

Su questo punto della vincolatività, da tempo su 'Avvenire' ribadiamo concetti molto semplici, su cui nessuno dei critici della legge ha però la compiacenza di riflettere (magari per criticarli). Anche per questo mi spiace registrare che alcuni critici della legge lamentino l’assenza in materia di una «discussione ampia e sincera» (con chi si può discutere, quando l’interlocutore volta la faccia da un’altra parte e si tappa le orecchie?). Ci sono ottime ragioni che inducono a non rendere vincolanti le Dichiarazioni, come bene venne spiegato a suo tempo dal Comitato nazionale per la bioetica, quando – per evitare ogni equivoco – all’unanimità preferì appunto l’espressione «Dichiarazioni » anziché «Direttive anticipate».

Riassumiamo la questione in due premesse e in una conclusione.
Prima premessa: le Dat non sono, per principio, «attuali»; vengono in genere redatte diversi anni prima della loro eventuale utilizzazione.
Seconda premessa: nessuno può avere «a priori» la certezza della capacità di intendere e di volere del sottoscrittore nel momento della sottoscrizione delle Dichiarazioni o di una sua adeguata informazione, soprattutto per quel che concerne l’evoluzione delle sue possibili patologie e delle relative pratiche medico-terapeutiche.

Conclusione: è quindi ragionevole che le Dat non siano vincolanti, ma che il medico che le acquisisce possa (eventualmente!) disattenderle, motivando adeguatamente la sua decisione.
È in questo modo che si rispetta in concreto la persona umana (articolo 32, 2° comma, della Costitu-zione), evitando il rischio altissimo dell’abbandono terapeutico, cui potrebbero andar incontro (nel nome di un astratto rispetto della loro «insindacabile autonomia»!) soggetti che potrebbero essere molto anziani, fragili, colpiti da una varietà di gravi patologie, in stato di necessità economica o privi di sostegni familiari e la cui sottoscrizione delle Dat potrebbe essere priva di credibilità o comunque non calibrata sulla loro situazione sanitaria reale. Un’ultima osservazione.

Smettiamola di invocare, a proposito della legge sulle Dat, il principio su¬premo di laicità dello Stato (sul quale concordano tutti, anche e in primo luogo i cattolici). Abbiamo ripetuto infinite volte – senza tema di essere smentiti – che questa legge è ispirata non alla dottrina 'cattolica', ma ai principi della medicina ippocratica (risalenti al quarto secolo avanti Cristo), tra i quali è prioritario quello del rispetto per la vita. La medicina ippocratica non impone la difesa della vita «a ogni costo» e non ne fa un principio dogmatico, ottuso e indiscutibile: è perfettamente coerente con i suoi principi la rinuncia all’accanimento terapeutico, anche quando da tale rinuncia potesse conseguire un’accelerazione del processo del morire.

Ciò che non è coerente con la medicina ippocratica è l’eutanasia. Che tra coloro che criticano la legge sulle Dat ci siano in prima fila, e con particolare virulenza, espliciti fautori della 'dolce morte' dovrebbe dare molto a pensare a quale sia l’autentico portato bioetico di questa legge

DA AVVENIRE

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