lunedì 18 luglio 2011

PADRE CESARE MAZZOLARI, COMBONIANO, INNAMORATO DI CRISTO E DEL SUD SUDAN


Rumbek, Sud Sudan.

Non gode di buona stampa, Mazzolari.

Non è un guru progressista,

non liscia il pelo al cattolicesimo dialogante con tutti a tutti i costi


“Guarda qui. Li vedi questi fori? Quando sono arrivati i soldati islamici di Khartoum in questa chiesa, coi loro kalashnikov hanno preso di mira il tabernacolo. Spari dappertutto. Peccato per loro: questo non era il posto dove si conserva l’Eucaristia, era solo quello per gli oli santi!”.


Scherza, ma non troppo, Cesare Mazzolari girando per i ruderi della chiesa del Sacro Cuore, poco lontano dall’aeroporto internazionale di Rumbek, la città del Sud Sudan che lo ha come vescovo dal 1999. Sessantamila abitanti gonfiatisi a duecentomila per via dei fuggiaschi che sono arrivati in massa dal nord. Da quando il presidente di Khartoum, Omar al Bashir, giù custode affettuoso di un certo Osama bin Laden negli anni Novanta, ha fatto cadere come un macigno una dichiarazione di guerra religiosa: “Dopo l’indipendenza del sud, al nord la sharia sarà implementata”.

“Cosa vuol dire? Che se uno viene trovato a rubare, gli tagliano la mano? Che per i nostri cristiani ci sarà ancora meno libertà? Già oggi al nord un prete può celebrare solo una messa alla domenica. Gli spostamenti del clero sono limitati, i permessi di costruire chiese e scuole non concessi, insomma non è possibile diffondere liberamente il Vangelo”.

Se un domani il nuovo cinquantaquattresimo stato africano – la Repubblica del Sud Sudan, che dal 9 luglio è ufficialmente indipendente – dovrà riconoscersi un patrono cattolico, non ci sono dubbi: anzitutto toccherebbe a quel san Daniele Comboni che qui giunse lungo il Nilo con i barconi rimediati grazie a geniali campagne di fund raising che lo portarono a Parigi e a Vienna ad incontrare i rispettivi imperatori. Ma il patrono sud-sudanese dei tempi moderni è Mazzolari. Uno che ha sfidato le due parti in lotta per 23 anni a causa dell’amore del popolo nilotico – le tribù dinka, nuér, schilluk sono le più numerose – schiacciato tra l’islamista Khartoum e la guerriglia dissennata delSouth People Liberation Army (Spla), il braccio militare del movimento indipendentista guidato da John Garang. Secondo lo storico Giampaolo Calchi Novati, quella tentata in Sudan dagli anni Sessanta – prima con la presidenza islamista di Mahjud, poi con la leadership di Nimeiry, che introdusse la sharia nel 1983, poi, dall’89, il dispotismo feroce di al Bashir – è stata nientemeno che “l’opera di islamizzazione più radicale e violenta del Novecento”.

“Il mondo non conosce la guerra che abbiamo subito – scrolla le spalle Mazzolari mentre si rimette alla guida della sua Land Rover, 74 primavere portate con indefessa abnegazione missionaria. Da voi in occidente se scoppia una bomba in un mercato o in una stazione dite che è terrorismo. Giusto. E da noi? Gli Antonov di Khartoum che bombardavano le scuole, le chiese, gli ospedali? Non era terrorismo anche quello?”. Non per altro al Bashir è ricercato dal Tribunale internazionale dell’Aja per crimini di guerra in Darfur, altro buco nero del Sudan. Una mossa un po’ pilatesca della comunità internazionale, che in questo modo si assicura una coscienza un po’ meno sporca nell’aver lasciato insanguinare il centocinquantesimo paese più povero del mondo con un conflitto civile da due milioni di morti e tre milioni di sfollati. Ma al Bashir è l’invitato numero uno alla cerimonia di indipendenza del nuovo stato, oggi al John Garang’s Mausoleum di Juba, la nuova capitale.

Alla cerimonia ufficiale, presente il numero uno dell’Onu Ban Ki-moon, la prima delegazione straniera a parlare sarà quella cinese, segno che il marchio giallo sul futuro della nuova entità non sarà indifferente. Già oggi la China National Petroleum Corporation è socio di maggioranza, con il 40 per cento del capitale, della sudanese Greater Nile Petroleum Operating Company. E per mettere in piedi un’economia che è a livello zero Juba guarderà di certo a Pechino, oltre che agli Stati Uniti, grande sponsor – con l’Amministrazione Bush – della via indipendentista del Sud Sudan.
Mazzolari non ha molta fiducia nella politica. Se da Khartoum si guarda bene, anche dalle élite sud-sudanesi ha avuto di che soffrire. Come quando, negli anni Ottanta, denunciò la mala operazione delle forze dell’Spla. In quegli anni di carestia il World Food Program inviava carichi di aiuti via cielo.

Si organizzavano campi di lancio, i missionari di Mazzolari erano sul terreno a individuare le zone migliori, il vescovo bresciano si trovava a bordo dei velivoli Onu che effettuavano i lanci con i paracadute. “Ma dopo indagini dirette abbiamo dimostrato che solo il dieci per cento di quegli aiuti alimentari arrivava alla gente. Il resto se lo intascavano i capi dei guerriglieri ribelli dell’Spla, che poi lo rivendevano ai capi tribù”. Accusa di lesa maestà che costò a Mazzolari il titolo di “persona non grata” per novanta giorni: espulso dal suo sud del Sudan, lui che vi è arrivato nel 1981 dopo venticinque anni di missione negli Stati Uniti. “Solo più tardi Garang mi fece chiamare e mi riabilitò durante una riunione del suo staff a Nairobi”.

Figlio di una famiglia profondamente religiosa, amico di casa Montini – è bresciano di Concesio – in Mazzolari moltissimi apprezzano l’indole manageriale che, a detta di più di un amico, l’avrebbe reso un grande amministratore delegato se, fin dall’età di undici anni non avesse scelto la tonaca, e precisamente quella missionaria, come compimento di vita. Ha portato in Sudan quello che poi è diventato un suo grande amico, Guido Bertolaso: la Protezione civile ha costruito un ponte nella zona di Yirol, una realizzazione che ha cambiato la vita a migliaia di persone

. Il missionario con la croce pettorale ha messo in piedi un ospedale in mezzo alla foresta di Mapourdit: offre salute e cure a 300 mila persone per un raggio di cento chilometri. Garantisce istruzione e formazione a 50 mila ragazzi e ragazze. Ha istituito la prima scuola superiore “bording”, cioè in forma di collegio, per ragazze di tutto il Sudan. E ora – con l’aiuto della onlus Cesar (www.cesarsudan.org), nata dalla carità di questo infaticabile uomo di Dio – ha altri due progetti: una nuova cattedrale a Rumbek, che soppianti quella già colpita dai bombardamenti, ormai troppo piccola. E poi il primo istituto magistrale per formare gli insegnanti del nuovo Sud Sudan. Se Nicola Mazza, il prete maestro di don Comboni, aveva mandato il giovane missionario in Africa a portare “religione e civiltà”, anche Mazzolari è convinto che qui servano scuole e Vangelo, libri e preghiere, cultura e catechismo.

Siparietto. Un giorno, con John Matiang, giovanissimo prete dinka formatosi tra Nairobi e Roma, ordinato prete un anno fa, il primo da queste parti da trent’anni in qua (in una società patriarcale come quella nilotica, l’uomo celibe è considerato un nulla: solo il maschio prolifico, con numerose mogli, anche 20, risulta degno di rispetto). “Il compito della chiesa è portare la parola di Dio tra la gente”, spiega il nerissimo e slanciato prete: “Scuole e ospedali vengono dopo, prima c’è il primato dell’evangelizzazione”. Risponde tra il serafico e il provocatorio il vescovo bresciano: “Senti John, ma dove hai incontrato tu la chiesa?”. “A scuola, nei campi profughi”. E allora, replica Mazzolari, “se tu non fossi andato a scuola, non saresti mai diventato prete. Il più grande dono che possiamo fare a questi fratelli è dare loro un’identità per cui possano dire: Io valgo qualcosa”.

Lo storico americano Thomas Woods in “Come la chiesa cattolica ha costruito la civiltà occidentale” (Cantagalli) ha ricostruito l’apporto civilizzante del cattolicesimo lungo la storia. In Sudan tutto questo lo si tocca con mano, in diretta, come dato di cronaca, proprio laddove, di solito, la chiesa viene messa sul banco degli imputati per “lesa dignità”: la donna. Nella società nilotica la femmina ha un valore inferiore alla mucca, unità-base della ricchezza umana e sociale: i dinka sono pastori e misurano tutto con l’unità-mucca. Un matrimonio viene calcolato dunque in vacche, perché la tal ragazza vale 20 bestie, se è normale, ma ne vale 40 se è bella, o 60 se è bellissima. Ma se è istruita, il prezzo crolla vorticosamente. Ormai i ricchi possidenti hanno scoperto che portarsi in casa una ragazza che sa leggere e scrivere, che ha coscienza di sé, è solo fonte di guai. Una moglie istruita diventa un problema.

In Sudan, Mazzolari lo grida come un profeta nel deserto, esiste ancora la piaga della schiavitù, l’“infame traffico” che già Comboni denunciava a metà Ottocento. E che oggi ha Khartoum come centro di smistamento da parte dei bagghar, i razziatori islamici che scendono al sud a caccia di carne umana, e l’Arabia Saudita e il mercato arabo come destinazione finale. All’inizio della sua missione Mazzolari ha pagato di tasca propria per liberare 150 schiavi. Poi ha capito che così finanziava un mercato chiuso, un circolo vizioso di tristi conseguenze. E allora ha iniziato ad attrarre, accogliere e far venire giovanette e ragazzini finiti nelle maglie dei trafficanti. Restituendo loro un futuro insperato. Sembrerebbe la trama di un film, ma è tutto vero: Suzanne Jambo era una ragazza schiava di Rumbek, il vescovo l’ha accolta nelle sue scuole, l’ha inviata a Kitale, in Kenya. Qui, durante la guerra, era stata aperta la Bakhita School, intitolata alla santa sudanese ammirata da Benedetto XVI e citata nella sua enciclica “Spe salvi”. Suzanne si è laureata alla Catholic University of Eastern Africa di Nairobi; a Oxford è diventata avvocato. Oggi governa le pubbliche relazioni del nascente stato sud-sudanese. “Il vescovo mi ha letteralmente salvata” dice.


Non gode di buona stampa, Mazzolari. Non è un guru progressista, non liscia il pelo al cattolicesimo dialogante con tutti a tutti i costi. “Ha ragione Benedetto XVI: finché non rimettiamo Dio al centro, non si può costruire una società e un mondo giusto. L’ho detto anche alla mia congregazione (i comboniani di Alex Zanotelli, ndr): i nuovi preti non li formiamo veramente alla missione, al sacrificio, al senso del martirio”. Non gli piace la bandiera della pace, non vuole marce o workshop sulla giustizia, Mazzolari. Lui pretende l’esperienza dei fatti di quel “Vangelo per l’Africa” titolo della sua vicenda narrata nell’omonimo libro appena edito da Lindau. “Anni fa alcuni cattolici americani sono venuti qui a fare un convegno sulla pace. Ho detto loro: ma invece di tante discussioni, perché non andate dal mio padre Salvatore, un nostro gesuita indiano. Che un giorno è andato sulla piazza di Rumbek, ha sfidato tutti e si è messo davanti a un plotone di esecuzione bloccando i fucili?”. Ammira i movimenti ecclesiali, Comunione e liberazione e i focolarini in primis, padre Cesare (come lo chiama ancora qualcuno, in onore del suo essere missionario). Ha una piccola “Onu missionaria” nella sua diocesi, undici congregazioni religiose, preti e suore di 19 nazionalità diverse. E ogni volta che atterra in Italia o in Europa va in giro a bussare a istituti, case, congregazioni perché mandino personale in Sud Sudan: “La chiesa si rinnova se va in missione”.

La vita non è facile: si mangia carne di rado, un paio di volte alla settimana; l’elettricità esiste dall’ora di cena al tramonto; il caldo arriva anche a 45 gradi, nella stagione delle piogge (marzo-ottobre) le piste di collegamento diventano acquitrini. La curia di Mazzolari è una casupola, tetto di paglia, due stanzine, un paio di sedie di plastica per gli ospiti. Accanto, addirittura, sorge la sua casa di prima: una vera e propria capanna. “Ma il tetto è crollato e allora mi è stata costruita questa”.

Se dall’Africa guarda all’Italia – “Io morirò qui, i miei familiari lo sanno” – le sue parole non sono tenere. In particolare sull’immigrazione e nel confronto con il mondo islamico: “Avete peccato di ingenuità e di mancanza di consapevolezza su cosa sia il mondo islamico. Avete rigettato la vostra tradizione cristiana per bonarietà e mancanza di consapevolezza. Cedete ogni giorno di più e un domani vi pentirete quando i musulmani saranno al governo. E vi imporranno obblighi che non immaginavate”. Non ha peli sulla lingua, non teme di passare per leghista (è stato ricevuto due volte dal sindaco della città di Comboni, Verona, Flavio Tosi) né di mancare di ecumenismo: “E’ difficile trattare con un popolo come quello islamico. Avremmo dovuto disporre di una legislazione più selettiva. Non abbiamo capito che sono possessivi e invadenti. L’islam fondamentalista è sfacciato, ha grandi ricchezze e si sta propagando nel mondo. Sarà difficile arginarlo”.

Ma la storia del Sud Sudan, dove un migliaio di comboniani e comboniane hanno lavorato nel Novecento, parla anche di un’altra storia. Padre Giovanni Vantini, storico, lo racconta nel suo “La missione del cuore. I comboniani in Sudan nel Ventesimo secolo” (Emi): a fronte di tutti i tentativi islamisti di portare la sharia in Sud Sudan, il cristianesimo qui è esploso. Si iniziò con l’espulsione di tutti i missionari nel 1964; solo negli anni Ottanta preti e religiose poterono tornare. I musulmani si auguravano che tale espulsione di massa causasse “il crollo della cristianità nel sud. Invece questa si irrobustì nella dura prova in numero e qualità, in modi non previsti né prevedibili”. Il numero dei battezzati cattolici risultava dai registri parrocchiali pari a 384 mila nel 1964. Nel 1972, alla fine della prima guerra civile (Accordi di Addis Abeba), il totale dei cattolici sudanesi era stimato intorno a 600 mila. Nel 2000 si era a oltre due milioni. “Ho imparato che Dio fa a modo suo. Egli sa trarre una riga dritta da una riga storta. La chiesa non è un’agenzia o una società umana, ma una famiglia animata da Dio e che è mantenuta come corpo di Cristo. Pur in mezzo a tutte le avversità e pur barcollando, Cristo è al timone della chiesa”.

di Lorenzo Fazzini
da Ilfoglio.it

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