venerdì 12 agosto 2011

IL DRAMMA DI OSLO


TIMIDEZZA E DIGNITA'

Perché un uomo che da molti anni insegna letteratura norvegese in un Istituto Superiore di Oslo, per un motivo banale, un maledetto ombrello che non vuole saperne di aprirsi, perde il controllo e dà in escandescenze nel cortile della scuola, sotto lo sguardo attonito dei ragazzi che assistono in silenzio alla fine della sua lunga carriera di docente?

Forse la noia e l’ostilità degli alunni che assistono alle sue lezioni su Ibsen senza alcuna scintilla di partecipazione? Eppure Elias Rukla aveva voluto fare l’insegnante: “Se c’era qualcuno che aveva dimostrato la propria fedeltà verso questa società, era lui. Aveva dedicato sette anni della sua vita agli studi per prepararsi ad essere un pubblico educatore della gioventù norvegese. Dopo di che, per quasi venticinque anni, aveva avuto come missione quotidiana quella di tramandare alla nuova generazione l’autocoscienza della nazione e il suo fondamento. Tutto questo l’aveva fatto del tutto spontaneamente, a occhi aperti, anzi, l’aveva proprio deciso scegliendo liberamente tra molte altre possibilità a sua disposizione…”

Lui non aveva tradito, come l’amico di studi e di bagordi Johan Corneliussen, promettente studioso di Kant, marxista convinto che poi, di punto in bianco, se n’era andato negli Stati Uniti a lavorare come pubblicitario, abbandonando la moglie, la bellissima Eva, e la figlia Camilla di sei anni. Per la verità questa inaspettata decisione dell’amico aveva permesso che l’impossibile diventasse realtà: la bellissima dea era venuta a vivere da lui con la figlia, era addirittura diventata sua moglie e lui l’aveva adorata, amata, contemplata, anche se lei non gli aveva detto mai, neanche una volta, “Ti amo”, neppure nell’intimità della “camera da letto appositamente arredata dove dormo con lei”. Dormire, questo amava la bella Eva Linde che ”non desiderava mai andare verso un nuovo giorno, non si voleva svegliare e si aggrappava in modo così testardo al suo sonno, era evidente”.

Poi anche lei si era appesantita, con gli anni; aveva abbandonato il lavoro e s’era rimessa a studiare per diventare assistente sociale; e lui, di notte, solo, mentre al moglie dormiva, beveva birra e acquavite, rimuginando intorno al proprio fallimento di “essere sociale”.

La cosa peggiore era che gli sembrava di non avere più niente da dire. Se non a se stesso. Un’epoca era tramontata, e lui era lì a parlare con se stesso. Un’epoca era tramontata e, con lei, Elias Rukla in quanto essere sociale, perché era proprio a quell’epoca che lui si era messo a disposizione, quale pubblico educatore. Aveva poca voglia di diventare educatore di un’epoca nuova, e per altro neanche aveva le qualifiche per farlo, per dirla in modo blando. È semplicemente così, sbottò. È questo, cazzo, che si prospetta. Decadenza da ogni parte. Basta che ti guardi intorno, gridò. Non riesci cazzo più neanche a parlare. Quand’è l’ultima volta che hai fatto una conversazione? Dev’essere stato anni fa, pensò assorto. Se vuoi trovare qualcosa che per te abbia un senso devi andare a rovistare in mezzo a un pantano di interessi economici, aggiunse. Si può ammutolire per meno. Ma loro chiamano questo pantano democrazia. Anzi, se io lo chiamo pantano vengono a dirmi che disprezzo il popolo, pensò indignato. E forse hanno ragione, pensò assorto. Forse non credo più alla democrazia. (…) Mi rifiuto di considerarmi un antidemocratico, pensava testardamente. Non mi rassegno. Perciò devo ammettere, non senza repulsione, tutto considerato, che se vuoi presentarti come sostenitore della democrazia, devi esserlo anche quando sei in minoranza ed essere convinto, intellettualmente e soprattutto nel tuo intimo, che la maggioranza, nel nome della democrazia, possa abbattere tutto ciò che tu rappresenti e che significa qualcosa per te, di più, che ti dà la forza di vivere e resistere, anzi, che dà una specie di significato alla tua vita, qualcosa che trascende il tuo destino piuttosto casuale, si può dire.

Quando gli araldi della democrazia urlano e sbraitano trionfanti le loro volgari vittorie, giorno dopo giorno, in modo da far soffrire sul serio, come soffro io, si deve comunque accettarlo, perché non voglio che mi si appiccichino altre etichette, pensava. Poi restava immobile, sprofondato nei pensieri, lo sguardo fisso davanti a sé per un lungo momento. È orribile però, aggiungeva, alzandosi di scatto per andare a letto. E poi non ho più nessuno con cui parlare, sospirava. Eva naturalmente, ma non era quello che avevo in mente.

Ecco l’origine del “disdegnoso gusto” di Elias, la cui vita pienamente circoscritta entro i dettami del dovere sociale e della democrazia finisce per disintegrarsi una mattina, nel tempio della pubblica educazione, insieme alle stecche di un ombrello disobbediente.

Scritto a metà degli anni Novanta, "Timidezza e dignità", questo è il titolo del romanzo di Dag Solstad, è stato pubblicato quest’anno da Iperborea.
Una coincidenza?

di Mauro Grimoldi
Tratto da Il Sussidiario.net l'8 agosto 2011

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