lunedì 12 settembre 2011

11 SETTEMBRE 10 ANNI DOPO

Attenti a chi festeggia e a chi dice che Al Qaeda è stata sconfitta.

O a chi come Barack Obama incoraggia i Fratelli Musulmani

Per ora si salva solo la costruzione alla forza dell’uomo e della sua libertà che è diventato Ground Zero. Nell’afflusso di inevitabili allarmi della vigilia, nel tripudio di organizzazioni melense e consolatorie dove tutto si annacqua e il nemico non si vede più, manca dolorosamente una bella riflessione su chi ha sfidato, chi ha vinto, chi ha capito e fatto tesoro, chi persevera negli errori e questo decennio lo ha sprecato.

Da «Siamo tutti americani», che fu frase nobile e felice di dieci anni fa, eccoci pronti per le frasi assai meno nobili che si sono affermate nell’arco di dieci anni e che nelle celebrazioni di questi giorni trovano spazio spropositato.

Ne cito alcune: abbiamo creato un decennio di guerra, gli Usa hanno reagito esageratamente, al Qaeda non era potente e pericolosa come l’avevamo immaginata, siamo sull’orlo della bancarotta mondiale per colpa delle guerre, via le nostre truppe dall’Afghanistan, e fin qui siamo alla sottovalutazione anche denigratoria, comunque offensiva di quei poveri morti, poi si arriva alla costruzione complottista del si sono inventati tutto.

Niente di meno vero, è solo grazie a dieci anni di guerra implacabile al terrorismo condotta dall’America con l’aiuto spesso riluttante, spesso parziale dell’Europa, che al Qaeda è strategicamente sconfitta anche se non cancellata, che Osama bin Laden è stato scovato ed eliminato. È grazie alla guerra in Afghanistan, non ancora terminata, e a quella in Iraq, che è finita, e bene.

È soprattutto grazie all’ex presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, etichettato a torto come un reazionario e un minore. In entrambe le guerre sono stati fatti tanti errori, ci sono state troppe vittime, ma è difficile sostenere che ci sia mai stata una guerra senza molti errori e senza troppi morti nella storia dell’umanità. Gli Stati Uniti si sono dotati in tempo record di un valido apparato antiterrorismo, che ha protetto loro ma non solo loro da nuovi e peggiori attacchi; sono state indispensabili misure di sicurezza eccezionali, prima mai conosciute nella terra dei liberi: il Patriot Act, le extraordinary rendition, le detenzioni preventive, il campo prigionia di Guantanamo. Retorica liberal e finta protezione dei diritti umani non cambiano questa realtà, non sarà un caso se, esaurite le chiacchiere della campagna elettorale, Barak Obama non ha cambiato praticamente nulla.


Il costo totale delle due guerre è stato per l’America di 1, 3 trilioni di dollari, ovvero meno di 1/11 del totale del debito nazionale statunitense, meno di un anno di deficit di Obama. Giustamente un commentatore di quelli che parlano chiaro fino alla brutalità, Charles Krauthammer, fa notare che durante l’età d’oro di Eisenhower, negli anni ’50, quando il Paese era in un fase di una crescita robusta al 5% annuo, la spesa in difesa era all’11% del PIL e contava per il 60% del budget. Oggi, la spesa in difesa è il 5% del PIL e conta per il 20% del budget. Facile dedurre che se gli Stati Uniti sono in crisi economica, la guerra al terrorismo non c’entra, colpevoli sono le politiche fiscali, immobiliari, bancarie, di spesa pubblica. Come da noi.

La guerra al terrorismo non è finita, né per gli Stati Uniti né per il resto dell’Occidente. Sopravvive alla sconfitta sostanziale di Al Qaeda un Islam fondamentalista avversario dell’Occidente, nemico della modernità, delle idee di libertà e democrazie. Non per caso dopo l’11 settembre altri attacchi hanno colpito Bali, Londra, Gerusalemme, Madrid, Casablanca, New Delhi, Baghdad, Kabul, organizzati da gruppi, cellule o organizzazioni che non sono sempre emanazione diretta di Al Qaeda ma ne condividono l’ideologia di negazione dei diritti di donne, gay e minoranze, di qualunque forma di democrazia fondata sulla rappresentanza parlamentare, la segretezza del voto, lo Stato di diritto, sulla libertà e autodeterminazione dell’individuo. Fanno parte di questi gruppi anche uomini e donne cresciuti in Occidente, figli di immigrati e perfino cittadini europei convertiti al fondamentalismo islamico.

La sfida alla nostra sicurezza, peggio alla nostra sopravvivenza nei modi e nelle forme che ci siamo costruiti, è perciò esterna e interna, è molto ampia, diffusa, perniciosa. Ne fanno parte i salafiti dell’Africa occidentale che sognano di creare una Califfato dal Sahara all’Oceano Indiano, gli shebab somali che tentano di instaurare a Mogadiscio lo Stato islamico, i militanti di Hamas che sposano le tesi dei Protocolli dei Savi di Sion, il presidente iraniano Ahmadinejad che nega la Shoah e costruisce la bomba atomica; ma ne fanno parte anche gli imam fai da te che avvelenano le comunità di immigrati nelle città europee.

George W. Bush che non aveva paura delle parole li chiamava «Radical Islam» e «Islamofascism», Barack H. Obama usa un termine generico e politically correct, «Violent Extremists» così da non irritare la religione musulmana. Dall’Iraq si va via entro quest’anno, dall’Afghanistan la previsione forse ottimista è per il 2014, Usa ed Europa dovranno fornire un pressante appoggio politico ed economico ai due Paesi nuovi, sono ancora deboli e infiltrabili. Poi ci sono i nuovi conflitti e la sorte delle nazioni della cosiddetta Primavera araba, sullo sfondo le elezioni presidenziali americane, tra un anno, la presidenza Obama a rischio di riconferma.

Il presidente democratico e nero ha scelto la guerra nascosta, a bassa intensità, intelligence e truppe speciali, tendendo a lasciare in secondo piano il ricorso a contingenti di tipo tradizionale; George W. Bush invece voleva il duello aperto, dopo l’11 settembre voleva mostrare che l’America era in piedi e forte.

Obama ha incoraggiato formazioni ambigue ed estremiste come quella radicatissima in Europa dei Fratelli Musulmani, maestri nell’arte di dissimulare la propria ideologia. È un rischio forte, probabilmente un errore di strategia politica.

L’Europa? Se l’America dibatte e si divide sull’“ethnic profiling”, cioè continua in parte a non accettare che le potenziali minacce vadano legate all’identità etnica, l’Europa fa peggio, non ha una politica unica e nemmeno ne ha di nazionali degne di questo nome, afflitta com’è da eccessi di tolleranza, che stanno per reazione provocando reazioni estreme di ostilità totale, anche perché è qui che il fenomeno di immigrazione islamica è diventato di massa. Proprio in Europa si è creato il clima e lo schema fecondo per reclutare nuove cellule jihadiste. C’è poco da rievocare dunque l’11 Settembre, fingendo che sia storia passata, è carne viva.

Maria Giovanna Maglie
Tratto da Libero del 10 settembre 2011

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