domenica 30 ottobre 2011

E SE MI RISVEGLIASSI DOMANI?

MASSIMO PANDOLFI richiama tutti e in particolare i cattolici bolognesi a non discutere astrattamente sui principi non negoziabili, e a tenere conto della realtà di Cristina.
risponde VALENTINA CASTALDINI Consigliere Comunale PDL di Bologna

Cristina, silenzio assordante

di Massimo Pandolfi
Tratto da Il Resto del Carlino del 27 ottobre 2011

Colpisce il silenzio assordante della politica.
Ci scrivono artisti, registi, gente comune, gente commossa dalla storia di Cristina Magrini, gente che ci mette faccia e firma per appoggiare l’iniziativa lanciata sul Carlino da Gianluigi Poggi e da un gruppo di bolognesi che si è preso a cuore la vicenda di questa donna che da 30 anni vive in stato vegetativo e di minima coscienza, accudita quotidianamente da papà Romano, che continua a dire amorevolmente che la sua Cristina «è bella, anzi bellissima».

Però papà Romano ormai ha 78 anni e comincia a preoccuparsi per il futuro: più per quello di sua figlia che per il suo. Ecco perché l’idea di ‘adottare’ Cristina, per ora con un gesto simbolico come la cittadinanza onoraria, potrebbe rappresentare per Bologna un passaggio importante, diciamo pure una svolta culturale. Sarebbe come dire: non ci sono cittadini di serie A e serie B, la nostra Cristina è di serie A come tutti noi. Anzi, di Champions League. Intanto l’abbracciamo così: le apriamo Bologna. Domanda: ma ci crediamo davvero a queste cose qui? I politici bolognesi ci credono davvero a queste cose qui? E allora torniamo al nocciolo della questione e a quel silenzio assordante di cui sopra. Silenzio che fa sorgere un dubbio: ma non sarà che a parole sono tutti bravi e buoni, ma in pratica, quando c’è da passare ai fatti, beh, la musica cambia o peggio ancora è sempre la stessa, solita, desolante tiritera?

Il Consiglio comunale è l’istituzione che può dire sì o no a una richiesta simile e purtroppo non sta dicendo nè sì, nè no: fa finta di nulla. I 36 rappresentanti di Palazzo d’Accursio (più il sindaco Virginio Merola) hanno ricevuto dieci giorni fa il libro di Cristina e una lettera di accompagnamento di Gianluigi Poggi con la richiesta di cittadinanza onoraria per la sfortunata ragazza. Se anche fossero stati così distratti da non leggere il Carlino dal 4 ottobre scorso (e ne dubitiamo fortemente...) ora sono per forza informati dei fatti.

Eppure nessuno si muove. Neanche i cattolici. Neanche quei cattolici di centrodestra che amano riempirsi la bocca quando c’è da discutere astrattamente e a volte aridamente di difesa e tutela dei cosidetti valori non negoziabili, come la vita, dal concepimento alla sua fine naturale. Ora che c’è una presenza reale, ora che c’è la ‘carne’, ora che c’è Cristina che bussa alla porta — alla porta del nostro cuore prima ancora che a quella del Municipio — dove sono finiti questi valori non negoziabili?

http://www.miradouro.it/node/54238


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CRISTINA MAGRINI, LA POLITICA DI BOLOGNA SI È SVEGLIATA

PUBBLICATO DA MASSIMO PANDOLFI SAB, 29/10/2011 - 12:42

Per Cristina Magrini qualcosa si muove. Molto si muove. Dopo il mio articolo-appello pubblicato sul Carlino (e anche su questo blog) e rivolto ai politici bolognesi, assenti e indefferenti di fronte alla richiesta di cittadinanza onoraria per questa donna da 30 anni in stato di minima coscienza, il Pdl finalmente si è svegliato. Il capogruppo in consiglio comunale Lisei ha spiegato al nostro giornale che presenterà un ordine del giorno per andare a votare la cittadinanza onoraria e a quel punto ci si conterà e se qualcuno dovesse dimostrarsi insensibile a questa causa e votare contro, beh, se ne assumerà la sua responsabilità. Molto bello anche l'intervento che ci ha inviato un altro consigliere comunale di Bologna, Valentina Castaldini, e che qui di seguito pubblico.

Valentina Castaldini.

Diamo al Carlino quel che è del Carlino. Massimo Pandolfi ci ha lanciato un segnale sacrosanto, strappandoci fuori da una grave distrazione.
Nel turbinio delle cose spesso solo apparentemente importanti che affliggono i consiglieri comunali, stavamo per non accorgerci di una occasione straordinaria e di un fatto elementare di giustizia da affrontare. Cristina Magrini e suo padre. Grazie, Pandolfi. Sono rimasta colpita dalle parole straordinarie del padre di Cristina.
 Mi sono resa improvvisamente conto, uscendo dall'attivisimo quotidiano, che è lo stesso suo sguardo e la sua capacità di giudizio che voglio avere nei confronti dei miei figli.
Così capisco meglio, vedendo lo straordinario amore che un padre così ha verso sua figlia, che il mio personale e più autentico desiderioè che i nostri figli, tutti i figli di questa città, non restino soli, soprattutto se nel bisogno drammatico.
Perciò "touché", caro Pandolfi, per l'affondo legittimo alla distrazione: non posso non rispondere all'appello lanciato. Sono certa che tutto il Consiglio Comunale e il nostro Sindaco daranno la cittadinanza onoraria a Cristina perché sono certa del fatto che, aldilà delle nostre appartenenze politiche, c'è qualcosa di più grande e profondo che ci muove, la stessa cosa che non ci può far stare tranquilli e che ci fa chiedere: cosa ne sarà di lei una volta che Romano non ci sarà più.
Non abbiamo tutte le risposte agli infiniti bisogni che bussano alle porte della nostra amministrazione. Ma abbiamo una responsabilità: almeno provarci e non distrarci, ogni giorno. Grazie a chi ha rotto questo silenzio e grazie a quella famiglia che è per tutti noi segno tangibile di speranza. Quella speranza che può rimettere in moto Bologna.

http://club.quotidiano.net/pandolfi/cristina_magrini_la_politica_di_bologna_si_e_svegliata

venerdì 28 ottobre 2011

LA VERA CORSA DI SIC

Si sono svolti a Coriano (Rimini), nel suo paese natale, i funerali del motociclista Marco Simoncelli, il 24 enne fuoriclasse delle due ruote, morto tragicamente domenica scorsa durante il GP della Malesia.
Caro Marco,

scusami se ti scrivo appena adesso. Ti ho conosciuto solo all’ultima corsa, non sapevo nulla di te, non ero mai andato oltre le battute e le sgroppate del tuo amico Valentino. Ora il tuo sorriso mi sorprende da tutti i telegiornali, la tua capigliatura invade i teleschermi e le copertine dei giornali. Dicono che eri allegro, forse anche spericolato; eri appassionato, amavi la corsa e la vita, avevi molti amici e non solo ammiratori. Sento i giovani parlare di te, vedo che ti portano fiori. Tuo papà e tua mamma parlano pacati, consapevoli di aver vissuto con te un’avventura grande, di aver partecipato a un dono straordinario.
Ma quale corsa facevi, dove correvi? Quando mi capita di sbirciare qualche spezzone di corse in moto, mi domando: come fanno a stare in piedi in quelle curve strazianti, con la moto che sembra piegarsi fino a terra? Quale coraggio, quale audacia! Scusa, tu non avrai molta confidenza con queste cose, come io con le tue, ma a me viene in mente San Paolo che scriveva «mi protendo nella corsa per afferrarlo, io che sono già stato afferrato da Cristo». Io penso che ogni corsa è una corsa verso di Lui, e ogni desiderio è un’attesa del di più, dell’infinito. Tu desideravi di più del risultato finora conquistato.

Miravi al podio più alto, come ti ho sentito dire nell’ultima intervista. Il tuo cuore correva più veloce. Cos’è questa ricerca del punto più alto, del successo più grande? Dove ci porta la corsa della vita? Perché le mète raggiunte non ci bastano mai? Non ti sarebbe bastato nemmeno arrivare ad essere campione del mondo, una volta, due volte, tre volte, come il tuo amico Valentino. Miravi ancora più su, e tutti noi con te. La tv ti ha presentato vestito di bianco, come un gabbiano che vola. Adesso la tua moto è infranta, e il tuo corpo schiacciato. Non corri più? Senza più la moto, quale corsa ci può essere? Slacciato dalle cinture, liberato dal casco che premeva sui tuoi capelli, dove sei corso?

Dicono che il Paradiso sia una corsa verso la luce, attratto in un abbraccio di felicità. Non so quanto tu abbia conosciuto Dio quand’eri ragazzo e quando correvi in pista. So che certamente Dio Padre ti ha voluto bene. Si sarà rammaricato – Lui, il Creatore della vita e il Donatore dell’intelligenza umana che le inventa tutte per far correre una pista più veloce – di non potere più ammirarti nella velocità dei tuoi circuiti; si sarà dispiaciuto come un padre, a vederti scivolare così malamente.

Si sarà lasciato prendere da un desiderio più grande di non mollarti, e sarà corso a “dare un comando ai Suoi angeli di preservarti in tutte le tue vie; ti porteranno sulle loro mani, perché tu non inciampi contro la pietra”, così come dice un salmo. Finalmente il desiderio del tuo cuore si troverà compiuto e la tua corsa proseguirà senza ostacoli nel circuito di un Amore senza confini.

Con gratitudine per il dono della tua vita, e con affetto

di Angelo Busetto

27-10-2011
http://www.labussolaquotidiana.it/ita/articoli-la-vera-corsa-di-sic-3452.htm

9 RAGIONI PER VIVERE LA POLITICA

MAURIZIO LUPI

L’Italia ha bisogno di tornare a crescere. Per farlo occorre ripartire da chi è impegnato seriamente a vivere, da chi non smette di desiderare e di costruire per il bene di tutti. C’è bisogno di una nuova sensibilità per il valore infinito che ciascuna persona racchiude – motore unico di ogni sano dinamismo sociale.

L’impegno in politica e in particolare in un partito ha senso solo se è orientato alla costruzione del bene comune. Dunque, perché la disaffezione non vinca anche sulla nostra storia e la nostra tradizione, vogliamo aiutare a cambiare il partito al quale apparteniamo: il Popolo della Libertà. Si tratta di una grande occasione anche per ricostruire quel legame – che tanti stanno contribuendo a logorare – tra popolo e politica.
Per questo ti chiediamo di iscriverti al PdL per costruire insieme il nuovo PdL, un partito che sia autenticamente popolare, nel quale sia possibile realizzare una politica in grado di ricercare sempre le soluzioni migliori per i cittadini.
Ecco, in sintesi, i contenuti che qualificano la nostra presenza e che, anche grazie al contributo di chi vorrà sostenerci con l’iscrizione, vogliamo identifichino sempre più il profilo ideale e amministrativo del nuovo PdL. A partire innanzitutto dalla capacità di offrire nuove opportunità alle giovani generazioni, perché la valorizzazione dei giovani è la condizione necessaria perché l’Italia possa tornare ad essere competitiva a livello internazionale.

Scuola e università

Assicurare a tutti la libertà di educazione e l’autonomia a scuola e università
Introdurre adeguati sistemi di formazione, reclutamento, selezione e valutazione delle performance degli insegnanti e degli istituti;
Coinvolgere il tessuto imprenditoriale, per un legame più stretto tra mondo della scuola e mondo del lavoro;
L’educazione e l’investimento in capitale umano sono la vera strada da percorrere per garantire l’uguaglianza delle opportunità, che costituisce il vero sostegno alle persone più deboli e in difficoltà;

Famiglia

Introdurre il quoziente familiare per tenere conto nell’accesso ai servizi sociali della composizione familiare in termini di carichi di cura, condizione lavorativa dei coniugi, presenza di persone disabili e non autosufficienti;
Urge fortemente un intervento shock che deve arrivare al taglio delle tasse per le famiglie, la vera fonte di risparmio del nostro Paese; la vera risorsa di cui gode la società italiana è infatti il risparmio delle famiglie e la loro ricchezza accumulata in tanti anni di sacrifici;
Difesa della vita

Tutela della vita in tutte le sue fasi, dal primo momento del concepimento fino alla morte naturale, per riaffermare con forza il valore assoluto della persona, in qualunque condizione essa si trovi, anziché giustificare la sottile spirale autodistruttiva in cui stiamo quasi inconsapevolmente scivolando;

Welfare sussidiario

Promuovere un vero welfare sussidiario, garantendo il pluralismo dell’offerta (pubblico, privato, non profit);
Attuare misure come la dote, i voucher e le detrazioni fiscali, che permettono di finanziare le scelte del cittadino, che così può decidere servizi in base alle proprie esigenze;

Impresa

Rafforzare gli incentivi per le nuove imprese che assumono, con misure che riducano la pressione fiscale;
Rimuovere gli ostacoli all’attività economica riducendo i costi di apertura e di gestione delle nuove imprese;
Allentare le difficoltà di accesso al capitale di rischio per aiutare la nascita e sostenere l’espansione delle imprese giovani a più alto potenziale innovativo;

Lavoro

Favorire i processi di reinserimento lavorativo, garantendo aggiornamento e formazione continua agli inoccupati per evitare di interrompere a lungo il percorso professionale, spesso causa di povertà;
Intervenire sulla regolamentazione delle diverse tipologie contrattuali ed estendere la copertura degli istituti assicurativi;

Pubblica amministrazione

Attuare un sistema premiante per una pubblica amministrazione moderna ed efficiente, grazie all’introduzione di un vero federalismo fiscale che premi le regioni e gli enti locali virtuosi e favorisca una piena sussidiarietà orizzontale;

Ambiente

L’ambiente è anzitutto l’ambiente di ogni uomo. La politica ambientale più corretta è dunque quella che tende a preservare l’iniziativa e la responsabilità dei singoli e delle società intermedie e che prevede una corretta gestione delle risorse naturali;

Europa

I grandi problemi dai quali dipende il nostro futuro – come una politica di pace, un nuovo patto generazionale, la lotta contro la povertà nel Terzo Mondo, l’immigrazione, una seria politica dell’energia – potranno essere affrontati solo dagli Stati Uniti d’Europa, fondati sui popoli e sulle regioni;
L’Europa delle Regioni e dei Popoli è allora la formula istituzionale, politica e culturale in grado di rilanciare con nuovo vigore la prospettiva europeista. I territori “vivono di Europa” in ogni ambito della loro dinamica sociale ed economica. E’ tempo perciò che l’Europa “viva di più di cittadini e territori” per essere vera espressione di un’unione di popoli.
È il tempo di avere il coraggio di fare queste scelte, sostenendo chi in questi anni ha dimostrato nei fatti di impegnarsi per un sistema politico e amministrativo aperto ai cittadini e al servizio dell’iniziativa libera delle persone.

Roberto Formigoni Maurizio Lupi Mario Mauro Giulio Boscagli Raffaele Cattaneo
Romano Colozzi Carlo Masseroli Marcello Raimondi Gianni Rossoni Mario Sala
Paolo Valentini Puccitelli

"Bisogna bandire la frase 'non c'è più nulla da fare'... C'è sempre qualcosa da fare" (Elvira Parravicini, neonatologa, New York)

What is at the Heart of Medical Care?

 La seconda edizione del premio Enzo Piccinini' quest'anno va ad un'italiana, la dottoressa Elvira Parravicini, una neonoatologa lombarda, da anni negli Stati Uniti, che ha creato a New York il primo hospice per neonati.
La consegna del riconoscimento mercoledì 26, alle ore 17,45, a Modena, presso il Centro Servizi Didattici della Facoltà di Medicina e Chirugia del Policlinico di Modena, nel corso del convegno "Maestri del nostro tempo nel campo della cura, dell'assistenza e dell'educazione'.


Elvira Parravicini «Vieterei il detto 'Non c'è più nulla da fare'. Cè sempre qualcosa da fare magari tenere in braccio un bimbo»

Proprio nel campo medico ed educativo si era sempre distinto Enzo Piccinini, un medico morto nel 1999, a seguito di un incidente stradale sull'AZ.
In sua memoria, è nata una Fondazione, a Modena (dove Piccinini risiedeva) che dallo scorso anno ha deciso di assegnare questo ambito riconoscimento. Nel 2010 il premio fu consegnato al dottor Mario Melazzini, medico malato di Sla, testimone di speranza nonostante la malattia.

Elvira Parravicini : «Quasi tutti i miei piccoli muoiono, ma con la mia équipe stiamo fino all'ultimo vicini a loro e ai familiari»

di Massimo Pandolfi

FOSSE per lei, l'espressione «Non c'è più nulla da fare» verrebbe bandita non solo dal campo medico, ma dal dizionario stesso. «C'è sempre qualcosa da fare» spiega e si anima Elvira Parravicini, 55 anni, medico neonatologo italiano, di Seregno (Monza), cervello' da 15 anni ceduto agli Stati Uniti. «Se anche a un bambino dovessero restare solo pochi giorni, poche ore o pochi minuti di vita — dice — noi abbiamo il dovere di chiederci: come possiamo confortarlo? E allora i punti chiave della cura diventano: mantenere il bimbo caldo, idratarlo o prendersi cura del dolore, se necessario, e soprattutto aiutare i genitori o altri membri della famiglia ad accogliere questo bimbo, anche per un periodo di tempo brevissimo». La dottoressa Parravicini ha un record: alla Colombia University di New York ha inventato un reparto, una squadra speciale' che è unico al mondo: una specie di hospice per bambini neonati, venuti al mondo troppo prima del tempo oppure affetti da sindromi letali o anomalie congenite talmente gravi da impedire nel 99% dei casi la sopravvivenza, anche a breve termine.

GLI HOSPICE sono perlopiù i luoghi dove si va a morire, dove si danno gli ultimi conforti e si prova a togliere il dolore alle persone condannate. «Dare vita ai giorni e non giorni alla vita» è il motto lanciato dalla fondatrice di queste strutture, Cecily Saunders, che la Parravicini da alcuni anni applica quotidianamente con i suoi bambini che spesso non arrivano a pesare neanche un *** chilo, magari non hanno i reni, che sono destinati alla morte ma che intanto ci sono. Esistono. In America la chiamano 'comfort care'. Il respiro di un bambino, seppure di un solo minuto, ha un valore infmito. «Lavorando con piccoli pazienti fra la vita e la morte, faccio sempre un'esperienza di bellezza, sia che la rianimazione riesca a salvare la vita, sia che mi debba confrontare con l'estremo limite umano che si chiama morte, perchè c'è un significato pure lì». Sembrano parole dell'altro mondo quelle della dottoressa Parravicini, ma sono più che mai di questo mondo. Non esistono ricette per tutte le stagioni: «Ci sono medici che suggeriscono di non iniziare la rianimazione di questi neonati e altri che insistono sulla rianimazione a tutti i costi. Io scelgo un'altra via».

CHE SAREBBE: non c'è una regola. «Ho viste centinaia di bambini, ma ogni volta è diverso, perché ogni bambino è diverso. Ogni volta c'è un nuovo dramma da affrontare; sì, un dramma, che non va eluso o censurato. La società moderna, amche molti miei colleghi, provano invece a fare così: vorrebbero delle regolette da applicare, tenendosi la coscienza a posto. No, dobbiamo giocarci di più: serve prendere una decisione, rispettando e non manipolando il 'destino del paziente', che non può essere determinato nè dai genitori, né tantomeno dal medi' co. Ma anche quando la nostra cono'scenza scientifica ci suggerisce che un ' bimbo è troppo prematuro per farcela, la nostra responsabilità medica non finisce lì. Non lo possiamo guarire questo bimbo, ma possiamo curarlo, cioè prenderci cura di lui. E dei suoi familiari».

NELL'hospice del Morgan Stansley Children's Hospital, Elvira Parravicini lavora con un'infermiera, un'assistente spirituale che cambia a seconda della religione della famiglia di appartenenza del bimbo, un fotografo professionista che, da volontario, fa un clic su questi fanciulli, affinchè alle famiglie resti un ricordo; infine c'è un 'child life', che non è uno psicologo e neppure un fattorino, ma una persona che conforta una mamma e un papà in giorni certamente intensi e non facili, aiutandoli anche a sbrigare le necessità quotidiane.

«NEGLI ultimi tre anni — spiega la Parravicini — ho seguito la nascita e il percorso di 44 bambini diagnosticati prima della nascita con condizioni probabilmente letali». I bimbi sono quasi sempre morti, ma ci sono state anche le sorprese, almeno tre. Jaden ad esempio. Jaden è una bimba che oggi ha tre anni ma che non doveva neppure nascere. Prima perché sua madre aveve appena sedici anni ed era un po' sbandata, quando è rimasta incinta; poi perchè al primo esame clinico si era capito che questa bimba non sarebbe mai potuta sopravvivere. L'universo mondo aveva consigliato alla ragazzina prima di abortire poi di lasciar perdere. Non aveva senso, per nessuno, portare a termine la gravidanza: almeno, dicevano così.

INVECE questa mamma non ha abortito, non ha lasciato perdere. E ora a New York vive una donna felice di 19 anni, una giovane donna che ha messo la testa a posto e che spesso e volentieri va in ospedale a trovare la dottoressa Parravicini,. Insieme a Jaden, sana come un pesce.

leggi anche
http://www.ilsussidiario.net/News/Welfare-Subsidiarity/2010/7/26/HEALTH-What-is-at-the-Heart-of-Medical-Care-/102402/

giovedì 27 ottobre 2011

I LIMONI DI MONTEROSSO

Eugenio Montale ha passato numerose estati, fino al 1927, nella villa di famiglia a Monterosso. una stagione molto formativa della mia vita, ha detto una volta.

DA "OSSI DI SEPPIA"  I LIMONI

Ascoltami, i poeti laureati
si muovono soltanto fra le piante

dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
lo, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate agguantano i ragazzi

qualche sparuta anguilla:
le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.


Meglio se le gazzarre degli uccelli
si spengono inghiottite dall'azzurro:
più chiaro si ascolta il susurro
dei rami amici nell'aria che quasi non si muove,
e i sensi di quest'odore
che non sa staccarsi da terra
e piove in petto una dolcezza inquieta.


Qui delle divertite passioni
per miracolo tace la guerra,
qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza
ed è l'odore dei limoni.


Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s'abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l'anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità.


Lo sguardo fruga d'intorno,
la mente indaga accorda disunisce
nel profumo che dilaga
quando il giorno piú languisce.
Sono i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana
qualche disturbata Divinità.

Ma l'illusione manca e ci riporta il tempo
nelle città rumorose dove l'azzurro si mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
La pioggia stanca la terra, di poi; s'affolta
il tedio dell'inverno sulle case,
la luce si fa avara - amara l'anima.


Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo dei cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d'oro della solarità.


http://youtu.be/c2F-PNKrVHg
MONTALE RECITA

NON SINCRETISMO, MA PELLEGRINAGIO

Assisi, il pellegrinaggio del Papa
di Andrea Tornielli

27-10-2011


Quando lo scorso gennaio, a sorpresa, Papa Benedetto XVI annunciò l’intenzione di celebrare il venticinquesimo anniversario dell’incontro interreligioso di Assisi, convocato dal beato Giovanni Paolo II nel 1986, in un momento in cui l’umanità si trovava vicina alla possibilità di un conflitto nucleare, non pochi hanno storto il naso e sollevato perplessità. E non soltanto nell’area degli appartenenti o degli amici della Fraternità Sacerdotale San Pio X fondata da monsignor Marcel Lefebvre (a suo tempo acerrimo avversario dell’iniziativa), ma anche tra ecclesiastici e intellettuali "ratzingeriani", preoccupati che con questo gesto il Pontefice uscisse dalle righe tracciate nel suo pontificato e fomentasse il sincretismo.

Va innanzitutto ricordato che alle sbavature verificatesi durante l’incontro del 1986, e indipendenti dalla sua volontà, aveva posto già rimedio Papa Wojtyla, il quale, nel gennaio 2002, pochi mesi dopo gli attacchi dell'Undici Settembre, convocò una seconda riunione interreligiosa nella città del Poverello al fine di ribadire che il nome di Dio non può essere strumentalizzato per giustificare l’odio, la violenza e il terrorismo. A quella riunione partecipò, per esplicito volere del Pontefice polacco, anche il cardinale Ratzinger, il quale, di ritorno, scrisse una sorta di diario dell’esperienza vissuta pubblicandolo nella rivista internazionale 30Giorni.

«Non si è trattato - osservò Ratzinger commentando a caldo Assisi II - di un’autorappresentazione di religioni che sarebbero intercambiabili tra di loro. Non si è trattato di affermare una uguaglianza delle religioni, che non esiste. Assisi è stata piuttosto l’espressione di un cammino, di una ricerca, del pellegrinaggio per la pace che è tale solo se unita alla giustizia». «Con la loro testimonianza per la pace, con il loro impegno per la pace nella giustizia - continuava il futuro Papa - i rappresentanti delle religioni hanno intrapreso, nel limite delle loro possibilità, un cammino che deve essere per tutti un cammino di purificazione».

L’approccio di Benedetto XVI all’iniziativa è stato ben chiaro nel momento in cui è stata presentata la giornata di oggi, giovedì 27 ottobre, intitolata «Pellegrini della verità, pellegrini della pace». L’accento è messo proprio sul «pellegrinaggio», non sulla preghiera, proprio per evitare che passi l’immagine dei leader religiosi messi tutti sullo stesso piano, mentre pregano uno accanto all’altro. Descrivendo il programma della giornata di Assisi III, il presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, il cardinale Peter Kodwo Appiah Turkson, ha insistito sul fatto che «l’enfasi verrà messa sul pellegrinaggio e non sulla preghiera». Mentre il vescovo Mario Toso, numero due del dicastero, ha ammesso che il rischio del «sincretismo» in incontri di questi genere c’è, e per questo «si è cercato di mettere l'accento sulle cose pratiche come camminare insieme per la giustizia e la pace». Un tale approccio, ha spiegato ancora Toso, non significa che la preghiera diventi superflua ma «si è privilegiata la preghiera personale secondo la propria tradizione, senza che mettersi assieme riduca o metta in discussione la propria specificità».

Alla giornata parteciperanno 31 delegazioni di Chiese cristiane, 13 delegati cattolici in rappresentanza delle Chiese locali dei diversi riti, numerosi rappresentanti della comunità ebraica, compreso il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, 176 esponenti delle diverse religioni – dall’islam al buddismo, dall’induismo alle religioni tradizionali – ed erano stati invitati anche quattro non credenti, anche se uno di loro ha declinato l’invito nei giorni scorsi. È stata registrata anche qualche defezione: non ci sarà il Dalai Lama, né il rappresentante dell’universitá Al Azhar del Cairo.

L’incontro di Assisi di Papa Ratzinger è dunque caratterizzato da alcuni elementi differenti rispetto a quello celebrato venticinque anni fa dal suo predecessore. Innanzitutto non ci sarà alcuna preghiera comune, ma soltanto momenti di silenzio e testimonianze di pace. Non ci saranno momenti di preghiera pubblici delle singole religioni rappresentate, come avvenne nel 1986, quando si svolsero riti tribali in luoghi di culto cattolici. Ci saranno, invece, per la prima volta in occasioni simili, i non credenti. E l’accento sarà posto sulla responsabilità comune di costruire una società fondata sulla verità, che difenda la vita, la famiglia e contribuisca alla giustizia sociale.

mercoledì 26 ottobre 2011

IL CRISTO DISSOTTERRATO

Un missionario italiano ha ricostruito la diocesi di Siberia cancellata da Stalin.



Ecco la rivoluzione un po’ russa e un po’ emiliana di don Ubaldo Orlandelli



Lì la fa da padrone il vento.

Non c’è niente che lo ferma, fino agli Urali. Solo qualche collina bassa qua e là”. Sedici anni di russo non hanno cancellato l’accento emiliano dalla voce di don Ubaldo Orlandelli. Ma quando parla della steppa siberiana sembra di vederla, di sentire il gelo di quel vento.

Sedici anni di Siberia non hanno fiaccato la sua risata, profonda, bellissima.

Quando un giorno di trentaquattro anni fa mise due magliette in una busta e uscì di casa di nascosto non immaginava di arrivare fino a Novosibirsk, a migliaia di chilometri dall’albergo di Tabiano Terme per cui suo padre e sua madre avevano lavorato una vita. Un cameriere lo aveva però visto uscire, avvertì la nonna e a poche centinaia di metri da casa Ubaldo venne fermato e riportato indietro. Ma ormai era partito. “Perché te ne sei andato? Non ti vogliamo bene?” gli chiese la mamma. Ubaldo voleva farsi prete e i suoi gli avevano detto di torglierselo dalla testa: c’era l’albergo da mandare avanti. “Perché?” gli domandavano. “Voglio aiutare gli altri” era la sua risposta. “Puoi farlo benissimo sposandoti e facendo soldi. E comunque fino a che non sei maggiorenne non ti muovi da qui”.

Chissà se Ubaldo pensava alla busta con le due magliette quando vent’anni dopo scendeva carico di valigie nella stazione di Palavinnoje, a trecentocinquanta chilometri da Novosibirsk, e ad attenderlo non c’era nessuno, solo neve e steppa.

Nel mondo soltanto il Vaticano e Gerusalemme sono chiamate “sante”: la Santa Sede, la Terra Santa. Poi c’è la Russia. La Santa Russia. Mille anni di cristianesimo profondo, doloroso e misterioso le sono valsi questa medaglia. Mille anni che sono stati seppelliti nella terra gelata della taiga da settant’anni di comunismo. Preti, monaci e suore venivano fucilati. I cristiani presi e caricati su enormi barconi che risalivano il Volga, stipati sui treni merci della transiberiana, la ferrovia più lunga del mondo, e portati nella steppa. Ogni tanto i vagoni fermavano, i soldati aprivano le porte e scaricavano i morti. Poi ripartivano. I pochi sopravvissuti venivano abbandonati nella foresta in pieno inverno. Lì scavavano delle buche sotto la neve, le coprivano con rami di cedro e contro ogni speranza provavano a sperare.

Una donna era riuscita a sopravvivere alla deportazione in treno, con lei c’erano il marito e i tre figli. Si erano rifugiati in una di queste buche e lì erano rimasti per mesi. Un giorno lui uscì per cercare da mangiare. Lo ritrovarono in primavera, morto congelato a poche decine di metri dalla tana. In poco tempo la donna guardò morire tra le sue braccia i figli e fu salvata dagli abitanti di una buca vicina. Cominciò ad attendere qualcuno.

sabato 22 ottobre 2011

CATTOLICI SVEGLIATEVI: VI STANNO USANDO COME FOGLIE DI FICO

I cristiani «impegnati» preoccupati dai partiti del dopo-Cav Così non vedono i fatti di Roma e i veri rischi che corre la fede


ANTONIO SOCCI

Nebbia e tenebre fitte attorno ai cattolici in questi giorni. Proviamo allora a fare un po' di chiarezza. In queste ore c'era unavera notizia, importante, che riguardava la Chiesa: la proclamazione dell'Anno della fede fatta da Benedetto XVI. Ebbene, è stata alquanto snobbata dai mass media, impegnati com'erano (...) (...) a farsi regalare un titolo di politica (contro il governo) dalla piccola e confusa conventicola di To -di. Che rischia di farsi abbindolare dai media e di farsi usare come foglia di fico per progetti di potere altrui. Così la grande notizia (sull'Anno della fede) è stata oscurata dal-la piccola scene atadiTodi (dove va ricordato solo il bellissimo discorso di Bagnasco, disatteso da Bonanni e dal resto della compagnia). Non solo. Per i cattolici c'erano altre due notizie più importanti di Todi, anch'esse passate in cavalleria.

FATTI, NON PAROLE Primo: la profanazione della chiesa di Roma durante le violenze di sabato, che risulta un inedito. Molti semplici cristiani mi hanno scritto, feriti nell'anima, dicendo che l'atto sacrilego della profanazione di quella chiesa (del crocifisso e della statua della Madonna) rende necessaria quanto - meno una solenne messa ripara-toria. Penso anche io che si dovrebbe annunciarla pubblicamente e celebrarla in quella stessa chiesetta violata (a due passi dal Laterano, dal Colosseo e da San Pietro). Oltre a ciò occorre che i cattolici abbiano finalmente un giudizio chiaro su una mala pianta ideologica che in Italia (e solo in Italia) da decenni dà frutti di odio e (nelle frange estreme) di violenza: l'hanno sperimentata i nostri padri nell'immediato dopoguerra, l'abbiamo sperimentato noi dopo il'68 e oralo sperimentano i nostri figli. C'è poco da stupirsi. È sempre quella. C'è sempre la stessa bandiera che svolazza, anche se oggi sembra raggruppare pure giovanotti meno politicizzati, più nichilisti che rivoluzionari. Tuttavia usati in un alveo velleitariamente rivoluzionario che ha una continuità ideologica col passato. L'odio ideologico del resto è sempre uguale, al di là della sommossa di sabato: cambiano solo - di decennio in decennio - i "nemici" politici contro cui scagliarsi e certi contenuti e slogan.

Ma contro la Chiesa l'odio non cambia mai. Il secondo fatto, ben più importante di Todi, ma anch'esso snobbato dai media è l'ennesimo martirio, nelle Filippine, di un missionario italiano, padre Fausto Tentorio. Questo sacerdote del Pime era, laggiù nelle Filippine, un segno dell'amore di Cristo per tutti gli uomini, a partire dai più abbandonati e oppressi. E, come al solito, è stato fatto fuori. Sono duemila anni che va così. È triste che i media e il nostro mondo intellettuale lo dimentichino e non perdano occasione per trascinare la Chiesa (sempre martire) sul banco degli imputati. Chi annuncia Cristo è costretto in partenza a mettere in conto Iodio del mondo, la violenza e pure il martirio: questo dovrebbe far capire pure ai "carbonari" di Todi che quando invece i pifferai del mondo ti suonano la serenata e ti coprono di elogi significa che non stai seguendo il Signore, ma stai servendo "lorsignori".

NELLE MANI DI DIO Infatti padre Fausto, in una sorta di testamento spirituale, aveva scritto di «essere riconoscente a Dio per il grande dono della vocazione missionaria» e di essere «cosciente che essa comporta la possibilità di trovarmi coinvolto in situazioni di grave rischio per la mia salute ed incolumità personale, a causa di epidemie, rapimenti, assalti e guerre, fino all'eventualità di una morte violenta. Tutto accetto con fiducia dalle mani di Dio, e offro la mia vita per Cristo e la diffusione del suo Regno». Questi sono gli uomini (e nella Chiesa ce ne sono tantissimi) da guardare e da ammirare. Quelli di cui i media si disinteressano. Non gli idoli fabbricati dai media: lo dico anche per certi cattolici che nei giorni scorsi hanno idolatrato Steve Jobs, ma che neanche si sono accorti del martirio di padre Fausto (si commuovono per I'IPhone, i poverini...). I missionari del Pime concludono il loro comunicato sulla morte di padre Fausto, così: «Infine vogliamo pregare per la conversione dell'uccisore e degli eventuali mandanti, perché aprano il cuore al Signore: Egli non vuole che i peccatori periscano, ma che si convertano e abbiano la vitaetema».

BAGNASCO PARLA: I GIORNALI SCIVONO IL CONTRARIO

Il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, lunedì mattina a Todi ha detto alle associazioni cattoliche che non è in discussione la creazione di un nuovo partito cattolico e che il loro impegno “prepolitico” deve basarsi sull’“etica della vita che fonda l’etica sociale”, come ha scritto in prima pagina Avvenire.


Sul governo attuale, ça va sans dire, nemmeno una parola. La cortina fumogena per occultare contenuto e senso delle sue parole si è messa in moto subito, principalmente sui siti dei due giornali che nella campagna di etero-direzione politica dei cattolici negli ultimi tempi hanno investito di più, Repubblica e il Corriere della Sera. Quest’ultimo, lunedì, addirittura con un editoriale di Ferruccio de Bortoli che aveva il tono (e di fatto ne ha svolto la funzione) di una vera e propria “controprolusione di minoranza” rispetto al discorso tenuto da Bagnasco. Chi sperava che la mattina dopo il fumo fosse caduto, è stato deluso. Sulla maggior parte dei quotidiani di ieri il nebbione ideologico ha trionfato, spinto al punto di ribaltare, oltre che occultare e minimizzare, i fatti. Un’operazione che ha pochi precedenti, soprattutto nei confronti di un discorso ufficiale di un capo della Cei, e che ha ovviamente una sua logica. Perversa.

Il Corriere della Sera, che già si era molto esposto, ha titolato in prima pagina “Cattolici in campo chiedono una svolta”, mentre il vaticanista Gian Guido Vecchi provava a smorzare come una pallina da tennis il contenuto-fucilata di Bagnasco. Così Todi diventa “l’incontro più atteso dei cattolici” – tutti? – mentre Bagnasco sarebbe stato semplicemente “bene attento a non sbilanciarsi in ‘benedizioni e progetti di sorta’”. Il commento è però affidato a un vecchio riservista del martinismo militante come Marco Garzonio, tuttora influente sulla linea ecclesiastica di Via Solferino, nei mesi scorsi protagonista di due campagne tanto irrilevanti quanto gonfiate – per Valerio Onida alle primarie di Milano e per il TTS (Tutti Tranne Scola) in curia – del giornale. Garzonio parla a prescindere da Bagnasco, traccia il solco delle “sfide dei cattolici” partendo dalla “moralità dei comportamenti privati”, dalla “attenzione alla convivenza e giustizia ridistributiva”, le “misure di riequilibrio sociale” e il “dialogo e intesa su concezioni dell’uomo”. Cita pure un documento della Cei del ’91, “Educare alla legalità”. Bagnasco ha parlato? Peggio per lui, come non l’avesse fatto.

E peggio per lui è anche la linea degli altri giornali. Sull’Unità Domenico Rosati, ex sindacalista ed ex presidente delle Acli, spiega che “Todi andrà ricordata per l’esplorazione delle possibili prospettive di una ricomposizione dei cattolici” (il downgrading della Dc riporta evidentemente in auge un altro mantra defunto, la “ricomposizione del mondo cattolico”). L’imbarazzo a sinistra è palpabile, il Riformista titola spericolatamente “Bagnasco spiazza il Pdl sui principi non negoziabili”, sostenendo che “le intenzioni della vigilia sono state ribadite”. E si aggrappa disperatamente a De Bortoli e alla richiesta di un “tratto più marcatamente conciliare che chiuda con l’era Ruini”, di cui a Todi non si è avuta notizia. Al titolo a corso forzoso sulle parole di Raffaele Bonanni ricorre disperata anche Europa: “I cattolici dicono basta: Berlusconi se ne vada”. Ma soprattutto si affida a un commento, guarda un po’, dell’articolo di De Bortoli, idealmente contrapposto a Bagnasco (in prima di Europa c’è la foto di De Bortoli, ma non quella del cardinale, una chicca per gli intenditori della controinformazione).

Sul Fatto Marco Politi, un altro vecchio pasdaran della “chiesa del no”, quella che vuole che tutti trombino come gli pare, tranne il Cav., è costretto a scrivere che l’unica “ammissione politica della giornata” è stata l’uscita sul governo di Bonanni, peraltro imbarazzato. E a registrare laconicamente, nascondendolo in fondo al pezzo, che “del bilancio del conclave di Todi fa anche parte l’estrema prudenza del cardinale Bagnasco”. Il quale ha compiuto “passi indietro rispetto alla recente prolusione” in cui aveva affermato la necessità di “un soggetto cattolico che dialoghi con la politica”. E invece a Todi, ciccia.

Politi scrive sul Fatto, ma è l’ex vaticanista di Repubblica e l’umore e la tecnica mistificatoria sono le stesse della casa madre. Rep. si lancia in uno spericolato “La rivolta non si ferma a Todi. A dicembre torna il Family day per dare l’ultima spallata a Silvio”. Forse dimenticando che il Family day era stato uno spottone per il centrodestra. Ma è l’editoriale di Agostino Giovagnoli il fuoco della questione. Anche il professore è costretto a nascondersi dietro alla dichiarazione di Bonanni, a fare un lungo e traballante preambolo sul “nuovo motivo di unità e convergenza dei cattolici” attorno all’urgenza di ridare “alla politica la forza e l’autorevolezza perdute”. Gli serve per nascondere un po’ la notizia, infilata con tentativo di ribaltamento a metà articolo: “La presenza del cardinal Bagnasco, in apertura, ha sottolineato l’importanza dell’iniziativa, anche se egli non è voluto entrare nel merito dei problemi e non ha poi partecipato al dibattito”. Non ha voluto? Giovagnoli è uno storico del partito cattolico, e ovviamente sa valutare molto bene quel che Bagnasco ha detto. Invece prosegue come nulla fosse: “Nel corso della giornata, i cattolici hanno parlato senza difficoltà di nuovo soggetto politico o di nuovo movimento politico da loro animato”. E se non è nato un partito, “si è realizzato comunque un passaggio politicamente significativo”. Come si chiama, nel metodo storiografico, l’occultamento delle fonti?

Per il resto, provoca un certo sconcerto l’infortunio del Giornale, che non ha bucato l’evento ma la notizia sì, e titola al di là di ogni irragionevole dubbio “Bagnasco evoca il ritorno alla Dc”. Meno male che su Libero c’è Antonio Socci (potete ascoltarlo anche in audio qui), che il tema del Corriere etero-direttore dei cattolici l’ha messo nel mirino da un pezzo, e scrive radicalizzando: “Bagnasco contro il Corriere”. E viva infine il manifesto, giornale snob della sinistra pura che non ha rinunciato a pensare, e che avendo riconosciuto con sana dialettica materialista che a Todi non è accaduto nulla di politicamente rilevante, non ha scritto neanche una riga. Neanche una.

di Maurizio Crippa



Tratto da Il Foglio del 19 ottobre 2011

UNA SFIDA ALLA POLITICA

«Stagione costituente»


"La fede fiorisce come gemma sul tronco solido della ragione".
Questa frase di San Gregorio di Nazanzio sintetizza in maniera mirabile il senso della fede. Non un a priori, un pregiudizio da utilizzare per forzare l’interpretazione della realtà, bensì uno stimolo a giudicare attraverso un uso vero e profondo della ragione.

La nostra libertà di cristiani impegnati nella costruzione del bene comune, si gioca tutta in questa sfida. Non esistono formule magiche. Supporre che potremmo essere diversi, ovviamente migliori, e le cose finalmente andare bene con la scomparsa dalla scena politica di Berlusconi, è sbagliato e ideologico.

Se davvero Berlusconi è l’origine di tutti i mali, tutti noi cattolici militanti nel Popolo della Libertà altro non siamo che complici risibili e inerti.

Al contrario, Berlusconi ha avuto la forza di mettere insieme, ciascuno con la propria identità e senza che nessuno si sentisse ospite, ciò che insieme apparentemente non poteva stare dando voce, pur non compiendola, alla speranza di molti di noi. Lo ha fatto attraverso un programma di riforme del sistema e di valori condivisi su cui oggi abbiamo il dovere di mettere in gioco tutta la nostra responsabilità.

Spetta a noi, quindi, e non a Berlusconi fare in modo che questo patrimonio non si disperda realizzando forme di partecipazione alla politica e riforme antistataliste nel segno di valori che non rappresentano un’esclusiva dei cattolici.

È la proposta politica che siamo chiamati a costruire oggi nel Popolo della Libertà, il suo fascino sta nei contenuti e non, invece, nella scommessa sterile su se e come si concluderà la stagione dell’uomo che ha contraddistinto la Seconda Repubblica.

Il problema non è il passo indietro di Berlusconi, ma il nostro passo avanti. La nostra assunzione di responsabilità a fronte di chi è tentato dallo scetticismo o peggio ancora dalla violenza. A chi cerca in piazza di surrogare la democrazia non si risponde solo con la polizia, ma proponendo una politica garante dei tentativi che le persone, le famiglie, le imprese fanno per vivere meglio. Garante, non padrona. Questo vuol dire, ad esempio, non rassegnarsi a un “Paese per vecchi”, dove il succo dello scontro politico appare essere la difesa a oltranza delle corporazioni che da anni tengono in ostaggio l’Italia e il suo sviluppo. Vogliamo spazio per libertà di educazione e di impresa.

Perché un partito che non difenda la creatività di coloro che nella società costruiscono, magari talvolta contestandoci, opportunità per tutti, non sarebbe difensore di interessi legittimi, ma una banda tenuta insieme solo dalla spartizione del potere.

La strada non è breve né semplice da percorrere. Dobbiamo mettere da parte i personalismi e promuovere in questi mesi la riconciliazione e il confronto tra tutti coloro che sono separati in Italia e uniti, guarda caso, in Europa sotto le insegne del Partito popolare europeo. Vivono cioè sotto lo stesso tetto, capaci di superare, attratti dall’affermazione di un ideale più grande, le contraddizioni che in Italia appaiono un muro invalicabile.

Una stagione costituente, capace di ridare slancio al nostro stare insieme, nasce insomma non da “ammucchiate” consociative, ma dalla proposta di un soggetto politico attore a pieno titolo di una visione dell’Europa corrispondente al progetto ideale dei padri fondatori, di un’economia sociale di mercato che coniughi la crescita e i diritti dei lavoratori, di una società in cui la fede e la libertà religiosa siano il cemento e non l’ostacolo per edificare la convivenza civile.

Ognuno di noi vuole vivere la responsabilità che gli è affidata con realismo, perché è da questo che dipende il nostro futuro.

Le ragioni che ci hanno spinto ad entrare in politica al fianco del premier Berlusconi vanno ben al di là delle sue qualità e delle sue incoerenze. Sono invece legate a ciò in cui crediamo, e che ha trovato in Berlusconi un catalizzatore imprevedibile e forte. Sarebbe ingratitudine addossare a lui solo ciò che non siamo stati capaci di fare. Sarebbe enormemente grave non batterci adesso perché i valori e le idee che abbiamo care vengano sottratte alla logica di un "cupio dissolvi".
Nella nostra unità, e in un sostegno convinto alle ragioni e alle esperienze di chi quotidianamente è impegnato in quella parte di Italia così attiva e così motivata al cambiamento del Paese, sta la strada giusta per accompagnarci in un tempo tanto difficile.
Se non siamo una corte, ma siamo parte di una storia, è il momento di dimostrarlo.


Mario Mauro, Maurizio Lupi, Raffaele Fitto, Franco Frattini, Maurizio Gasparri, Mariastella Gelmini, Alfredo Mantovano, Gaetano Quagliariello, Eugenia Roccella, Maurizio Sacconi, Antonio Tajani

IL MOVIMENTO DEI BAMBOCCIONI

Lasciamo stare i violenti, e concentriamoci sui pacifici: i manifestanti del 15 ottobre sono quanto di più conservatore la piazza italiana abbia espresso dai tempi delle Madonne pellegrine. Già la parola – “indignati” – non mi piace affatto, carica com’è di valenze morali (o moralistiche) che con la vita pubblica non dovrebbero aver niente a che fare.


Ma sono le richieste dal movimento a far venire i brividi, insieme alla rozzezza dell’analisi, all’ignoranza della storia, all’incultura economica e, soprattutto, alla rinuncia programmatica e persino al disprezzo per ogni forma di iniziativa individuale. Tutto ciò che vogliono gli “indignati” è il posto fisso che i loro padri si sono guadagnati in cambio del consenso al governo di volta in volta in carica.

“La questione generazionale è semplice – sostengono gli “indignati” in una lettera a Napolitano –: c’è una generazione esclusa dai diritti e dal benessere. La questione non si risolve togliendo i diritti a chi li aveva conquistati, ma riconoscendo diritti a chi non li ha, e per far questo ci vogliono risorse, altrimenti le parole girano a vuoto.” Ma come si fa a confondere “diritto” con “benessere”? Quale perversa scuola di pensiero ha inculcato in questi bamboccioni l’idea che il benessere sia un diritto? E che questo “diritto” vada finanziato, come spiegano poco dopo, “attraverso una tassazione delle rendite, delle transazioni, dei patrimoni mobiliari e immobiliari”?

La brillante idea degli “indignati” sarebbe dunque quella di tassare due volte quelli che lavorano (prima con l’Irpef, poi con la patrimoniale) per creare posti di lavoro fasulli da distribuire a chi non lavora. L’intera questione sarebbe ridicola se non fosse così largamente condivisa.
Che manifestino o no, milioni di ventenni e di trentenni credono davvero che il problema sia chiedere allo Stato di risolvere i loro problemi. Ragionano da sudditi, non da cittadini. Credono di essere liberi, ma sono già pronti alla servitù.

LA SENTENZA EUROPEA CHE PROTEGGE GLI EMBRIONI SEMBRA LA LEGGE 40

 "Scelta devastante perla ricerca" (Elena Cattaneo sul Sole 24 ore);
"Il divieto renderà intoccabili migliaia di embrioni che attualmente si trovano in freezer" (Carlo Alberto Redi, sulla Stampa); "E' una scelta che rimpiangeremo" (Ian Wilmut, citato da Repubblica).

Sono indignati - pure loro - i sostenitori della ricerca sugli embrioni umani considerati puro materiale da laboratorio, dopo la sentenza della Corte di giustizia europea di due giorni fa.

Senza addentrarsi minimamente in dispute sulla libertà di ricerca scientifica, la Corte ha infatti ribadito che procedure e farmaci ottenuti dalla ricerca sugli embrioni umani che ne comportino la distruzione non possono essere brevettati. Quel divieto lo stabiliva già dal 1998 una direttiva europea: "Sono considerati non brevettabili in particolare: (...) le utilizzazioni di embrioni umani a fini industriali o commerciali".

La vera novità è che la sentenza fa piazza pulita di tutte le definizioni acrobatiche con le quali si è negato all'embrione prima di un certo stadio di crescita (entro i cinque giorni dalla fecondazione) la qualifica, appunto, di embrione.

E' finita l'era dell"bolide" (definizione cara al prof. Flamigni) o del "pre embrione". La Corte dice che embrione è, fin dalla fecondazione e dai primissimi stadi di sviluppo, ciò che può svilupparsi in essere umano.

Qualità che sussiste anche quando ci sia il trasferimento del nucleo di una cellula adulta nell'ovulo (è la comune tecnica di donazione) o se l'ovulo si sviluppa per partenogenesi. Anche in questi due casi, dunque, si deve parlare di embrione e di impossibilità di brevettare alcunché derivi dalla sua distruzione.

La sentenza dunque non vieta la ricerca che usi e distrugga embrioni umani nei paesi europei che la consentono - non era chiamata del resto a pronunciarsi su questo punto - ma dice che da quella ricerca non può nascere nulla di brevettabile. Non è poco. Ed è il motivo per cui alcuni vestono oggi il lutto per la scienza tarpata: senza prospettiva di profitti, non arrivano nemmeno i fondi.

La Corte europea puntualizza poi che brevetti possono essere concessi a procedure e farmaci che, pur partendo da un embrione umano, abbiano ricadute terapeutiche o diagnostiche per "quello" specifico embrione, che ne deve trarre vantaggio e non deve essere distrutto. E', guarda caso, lo stesso principio adottato dalla legge italiana sulla procreazione medicalmente assistita (la vituperata legge 40), nella parte in cui stabilisce che "la ricerca clinica e sperimentale su ciascun embrione umano è consentita a condizione che si perseguano finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche a essa collegate volte alla tutela della salute e allo sviluppo dell'embrione stesso, e qualora non siano disponibili metodologie alternative".
Ai critici della sentenza - profeti di future e fantasmagoriche scoperte che, grazie alla distruzione di embrioni umani, faranno la ricchezza e la salute degli Stati Uniti e dell'Asia, con l'Europa a elemosinare innovazione biotecnologica - si può rispondere che la ricerca più promettente ha già da tempo preso altre strade, anche in Asia e negli Stati Uniti.
Merita però un breve commento la considerazione di Carlo Alberto Redi e di chi, come lui, parla di embrioni sottratti alla scienza anche quando sarebbero destinati comunque "al freezer". Redi non dice che nessun laboratorio oggi chiede di poter usare embrioni "avanzati" dalle tecniche di fecondazione artificiale. Se così fosse, la conservazione dei sovrannumerari non sarebbe il problema gigantesco e costoso che è per tutti i paesi che non prevedono limiti alla produzione di embrioni per la Fivet: basterebbe darli ai laboratori, mentre spesso sono distrutti.
La verità è che la ricerca chiede ormai embrioni ad hoc, fabbricati per essere distrutti, con caratteristiche controllate all'origine che ne facciano materiale da laboratorio affidabile. La favola dell'uso compassionevole, "tanto morirebbero comunque", è solo un povero trucco per giustificare l'eliminazione di ogni impaccio all'uso di esseri umani allo stato embrionale, costruiti per gli esperimenti.


http://www.ow3.rassegnestampa.it/MinisteroSaluteAc/View.aspx?ID=2011102019967305

Foglio di giovedì 20 ottobre 2011, pagina 2

LEGGI ANCHE L'ARTICOLO DI FERRARA

ONORE E ARMI IN PUGNO. COME SANNO MORIRE I NOSTRI NEMICI, NESSUNO

Come sanno morire i nostri nemici, nessuno. Come ha saputo morire il rais, armi in pugno, lo sapevano fare solo i nostri. Come a Bir el Gobi quando con onore, dignità e coraggio sorridevano alla morte. Fosse pure per fecondare l’Africa.


Sarà tutto tempo perso, dunque, sporcarne gli ultimi istanti, gravarne di dettagli i resoconti e anche quel disumano reportage sul volto fatto strame – tra sangue e calcinacci – non potrà spegnere il crepitare della mitraglia. Perché come ha saputo morire Muammar Gheddafi – così ridicolo, così pacchiano e così a noi ostile – come ha saputo farsi trovare, straziato come un Ettore, solo il più remoto degli eroi dimenticato nell’Ade l’ha saputo fare.

Come i nostri eroi. Come nel nostro Ade. Proprio come seppe morire Saddam Hussein che se ne restò sprezzante sul patibolo. Come neppure la più algida delle principesse di Francia davanti alla ghigliottina. Incravattato di dura corda al collo, l’uomo di Tikrit, degnò qualche ghigno al boia, si prese il tempo di deglutire il gelo della forca per poi gridare la sua preghiera: “Allah ‘u Akbar”. E fu dunque fatto morto. E, subito dopo, impudicamente fotografato.

Come nel peggiore degli Ade. Per quel morire che non conosciamo più perché gli stessi che fino a ieri stavano a fianco del rais, dunque Sarkozy, Cameron, lo stesso Berlusconi, tutto potranno avere dalla vita fuorché un ferro con cui fare fuoco.

La nostra unica arma è, purtroppo, il doppio gioco. I nemici di oggi sono i nostri amici di ieri – amico fu Gheddafi, ancor più amico fu Saddam Hussein – e quando li portiamo alla sbarra, facendone degli imputati, dobbiamo scrivere la loro sentenza di morte con l’inchiostro della menzogna perché è impossibile reggere il ghigno dei nemici. Perché – si sa – i nemici che sanno come morire, poi la sanno sempre troppo lunga su tutto il resto del Grande gioco. Ed è un lusso impossibile quello di stare ad ascoltarli in un’udienza.

Come sanno morire i nostri nemici, nessuno. L’unica cruda verità della vita è la guerra e solo i nostri nemici sanno creparci dentro. E’ veramente padre e signore di tutte le cose, il conflitto, ma l’impostura è così forte in noi da essere riusciti a muovere guerra alla Libia dandola per procura, lavandocene le mani, mandando avanti gli altri perché a forza di non sapere morire con le armi in pugno, se c’è da sparare, preferiamo dare in appalto la sparatoria. Giusto come un espurgo pozzi neri da affidare a ditta specializzata.

Come sanno morire i nostri nemici, nessuno. Quando gli eserciti dello zar ebbero ragione del loro più irriducibile nemico, Shamil il Santo – l’imam dei Ceceni, il custode della prima Repubblica islamica nella storia – nel vederselo venire avanti, finalmente sconfitto, non lo legarono a nessun ceppo, a nessuna catena, piuttosto gli fecero gli onori militari per accompagnarlo in un lungo viaggio fino al Palazzo reale dove lo zar, restituendo a Shamil il proprio pugnale, lo accolse quale eroe e lo destinò all’esilio, a Medina, affinché tutta quella guerra, spaventevole, diventasse preghiera e romitaggio.

Come c’erano una volta i nemici, non ce ne saranno più. Ed è per la vergogna di non sapere morire come loro che scacazziamo sui loro cadaveri. Ne facciamo feticcio e se fosse cosa sincera la memoria di ciò che fu, invece che produrre comunicati stampa di trionfo, se solo fossimo in grado di metterci sugli attenti, invece che mettere la morte in mostra, dovremmo concedere loro l’onore delle armi, offrire loro un sudario.

Sempre hanno saputo morire i nemici. E tutti quei corpi, fatti poltiglia dalla macelleria della rappresaglia, nel film della nostra epoca diventano tutti uguali: Benito Mussolini, Che Guevara, Gesù Cristo, Salvatore Giuliano. E con loro, anche i nemici morti ma fatti assenti, tutti uguali: da Osama bin Laden a Rudolph Hess. Fatti fantasmi per dare enfasi al feticcio, come quel Gheddafi armato e disperato che nel suo combattere e urlare, simile a un selvaggio benedetto dal coraggio e dalla rabbiosa generosità, mette a nudo la nostra menzogna.

A ogni pozza di sangue corrisponde l’onta della nostra vergogna e un Pupo che parla a Radio Uno e annunzia “una notizia meravigliosa” e si rallegra di Muammar Gheddafi, morto assassinato, è solo uno che si trova a passare e molla un calcio al morto. Pupo è come quello che sabato scorso, dalle parti di San Giovanni, vede la Madonnina sfasciata appoggiata a un muro e non sapendo che fare le dà un’altra pestata, non si sa mai.

Così come il black bloc, anche Pupo, è una comparsa chiamata a raccolta nella montante marea del nostro essere solo canaglie. La signora Lorenza Lei, direttore generale della Rai, dovrebbe cacciarlo lontano dai microfoni della radio di stato uno così ma siccome il nostro vero brodo è la medietà maligna, figurarsi quanto può impressionare l’offesa al morto. Pupo, infatti, è l’eroe perfetto per il peggiore degli Inferi, l’Ade cui destinare quelli che non sanno darsi uno stile nel morire

http://www.ilfoglio.it/soloqui/10856

giovedì 20 ottobre 2011

DE BORTOLI ULTIMO ANTIPAPA

Il direttore del Corriere invita i credenti a lasciar perdere i "valori non negoziabili". Bagnasco risponde: "Non stiamo zitti"


di Antonio Socci

Tratto da Libero del 18 ottobre 2011

Domenica scorsa, su queste colonne, ho spiegato come fosse in corso - al convegno delle associazioni cattoliche a Todi - un tentativo di “colonizzazione” del mondo cristiano da parte degli ambienti del Corriere, presenti in forze a quel simposio non solo col direttore Ferruccio de Bortoli, ma pure con il banchiere-editore Corrado Passera e con l’editorialista Galli della Loggia. In quell’articolo ho messo in guardia i movimenti cattolici e la Chiesa italiana dal rischio di una rovinosa subalternità culturale e politica a strategie e ambienti - quelli del Corriere - che negli ultimi anni sono stati i più viscerali avversari della Chiesa italiana guidata dal cardinale Ruini sulla via tracciata da papa Wojtyla e papa Ratzinger. De Bortoli - invece di smarcarsi da questa mia “ricostruzione” dei piani corriereschi - ieri l’ha confermata in pieno ed è andato spericolatamente oltre (troppa grazia!). Ha infatti firmato un editoriale nel quale lui, che è laico («noi laici», dice), si è improvvisato pontefice, presentandosi a Todi nei panni di papa Ferruccio I, nientemeno con la pretesa che la Chiesa italiana sconfessasse il cardinale Ruini e ribaltasse la sua linea, costruita sul magistero di due papi (quelli veri).

Un errore strategico plateale (Paolo Mieli, che è molto più navigato e accorto, probabilmente non l’avrebbe commesso). De Bortoli ha voluto addirittura disegnare per la Chiesa italiana una “nuova missione” (testuale). Perfino il titolo suonava così: «La missione dei cattolici». Forse il direttore del Corrierone ignora che tale missione è già stata definita duemila anni fa, da Qualcuno un po’ più titolato di lui. Che De Bortoli - dopo Ruini e il Papa - volesse scalzare pure nostro Signore? È vero che nell’azionariato del Corriere ci sono tanti signori che hanno ambizioni politiche, ma la Chiesa ha un Signore che sta perfino più in alto di loro e che del Corriere francamente se ne infischia. De Bortoli non lo sa, ma il cardinal Bagnasco sì. Così è accaduto che il direttore del Corriere, seduto a Todi in prima fila, ha dovuto prendersi dal successore di Ruini alla presidenza della Cei, la più solenne e clamorosa delle bocciature e delle reprimende. Una vera e propria porta in faccia.

Il passaggio decisivo dell’editoriale di De Bortoli, quello dove pretendeva di dettare la linea alla Chiesa italiana, chiamava alla «pacificazione del dopo Berlusconi», e poi recitava testualmente così: «I cattolici possono intestarsi una nuova missione... Riscoprire un tratto più marcatamente conciliare dopo l’era combattiva e di palazzo di Ruini. Una missione sociale, in questi anni, poco valorizzata, mentre si è insistito tanto sulla difesa dei valori cosiddetti non negoziabili, dal diritto alla vita alle questioni bioetiche, al punto di estendere l’incomunicabilità con le posizioni laiche all’insieme delle questioni civili ed economiche. Un dialogo va ripreso su basi differenti, nel rispetto delle libertà di coscienza». In sostanza significa: ora dovete rinnegare Ruini e i «valori non negoziabili» e qualificarvi su discorsi di tipo sociale con cui possiate fare da portatori di acqua (e di voti) per i disegni di potere altrui.

Bagnasco, nel suo intervento gli ha dato una risposta precisa e perentoria: «La giusta preoccupazione verso questi temi (lavoro, economia, politica, solidarietà, pace) non deve far perdere di vista la posta in gioco che è forse meno evidente, ma che sta alla base di ogni altra sfida: una specie di metamorfosi antropologica. Sono in gioco, infatti, le sorgenti stesse dell’uomo: l’inizio e la fine della vita umana, il suo grembo naturale che è l’uomo e la donna nel matrimonio, la libertà religiosa ed educativa che è condizione indispensabile per porsi davanti al tempo e al destino. Proprio perché sono “sorgenti” dell’uomo, questi principi sono chiamati “non negoziabili”... Ogni altro valore necessario al bene della persona e della società, infatti, germoglia e prende linfa dai primi».

Non si potrebbe dir meglio. Poi, casomai De Bortoli facesse finta di non aver capito, il cardinale è stato ancora più specifico nel ribattere al suo editoriale: «A volte si sente affermare che di questi valori non bisognerebbe parlare perché “divisivi” e quindi inopportuni e scorretti, mentre quelli riguardanti l’etica sociale avrebbero una capacità unitiva generale. L’invito, non di rado esplicito, sarebbe quello di avvolgerli in un cono d’ombra e di silenzio, relegarli sempre più sullo sfondo privato di ciascuno, come se fossero un argomento scomodo, quindi socialmente e politicamente inopportuno. L’invito è spesso di far finta di niente, di “lasciarli al loro destino”, come se turbassero la coscienza collettiva. Tutt’al più si vorrebbe affidarli all’opera silenziosa e riservata della burocrazia tecnocratica. Ma è possibile perseguire il bene comune tralasciandone il fondamento stabile, orientativo e garante? Il bene è possibile solo nella verità e nella verità intera. Per questa ragione non sono oggetto di negoziazione».

È stata una bocciatura così clamorosa che ieri sera, Sandro Magister, nel suo blog sull’Espresso, ha titolato: «A Todi Bagnasco mette a tappeto il Corriere».

Il vaticanista sostiene che la prolusione di Bagnasco ha affondato - oltre al Corriere - pure «tutti quei cattolici che hanno contribuito per giorni, su pagine e pagine del giornalone milanese, a fare impropriamente dell’appuntamento di Todi un evento epocale: a cominciare dal fondatore della comunità di Sant’Egidio, Andrea Riccardi». Sono stati tanti in effetti che sulle pagine di quel quotidiano sono corsi a dare il benservito a Ruini sostenendo l’assurda tesi del Corriere (la presunta «irrilevanza» dei cattolici nell’epoca Ruini).

Il disegno politico che stava dietro a tutta questa campagna poteva essere, ha scritto Magister, «quello di “federare” i cattolici in una formazione di centro che alleata al Pd raccolga alle urne quel 60 per cento di elettori vagheggiato da Massimo D’Alema in una solenne intervista al Corriere pubblicata proprio alla vigilia di Todi». Ma a Todi la strategia è - almeno per ora - naufragata. Oltretutto invece di accantonare i «valori non negoziabili», che secondo De Bortoli dividono, i cattolici in questi giorni hanno trovato alleati insperati che hanno fatto esplodere il problema anche nel Pd, con un «manifesto» sull’«emergenza antropologica» e sulla necessità dell’ascolto e del confronto con la Chiesa, firmato addirittura da nomi pesantissimi del pensiero di sinistra come Giuseppe Vacca, Mario Tronti e Pietro Barcellona (insieme al cattolico, ex marxista, Paolo Sorbi). Invece che «divisivi», proprio quei valori oggi costruiscono ponti e uniscono.

Sarebbe sensato che proprio nel momento in cui la preoccupazione della Chiesa per i valori fondamentali della vita sta facendo breccia perfino nell’antico, roccioso mondo degli intellettuali marxisti, oggi di area Pd, i cattolici abbandonassero quella loro battaglia vittoriosa per andar dietro al Corriere?

Ovviamente no.

martedì 18 ottobre 2011

A TODI BAGNASCO METTE AL TAPPETO IL CORRIERE


Lunedì 17 ottobre a Todi, nella sua conferenza di prima mattina, il cardinale Angelo Bagnasco ha messo subito in chiaro quello che il “Corriere della Sera”, grande sponsor laico di quel conciliabolo tra cattolici, non avrebbe proprio voluto sentirsi dire.


Va bene discutere e operare politicamente, ha concesso il cardinale, “sulle vie migliori per assicurare giustizia sociale, lavoro, casa e salute, rete accogliente e solidale, pace: valori, questi e altri, che vanno a descrivere ciò che è chiamata etica sociale”.

Ma la posta in gioco decisiva non sta qui, ha immediatamente aggiunto:

“La giusta preoccupazione verso questi temi non deve far perdere di vista la posta in gioco che è forse meno evidente, ma che sta alla base di ogni altra sfida: una specie di metamorfosi antropologica. Sono in gioco, infatti, le sorgenti stesse dell’uomo: l’inizio e la fine della vita umana, il suo grembo naturale che è l’uomo e la donna nel matrimonio, la libertà religiosa ed educativa che è condizione indispensabile per porsi davanti al tempo e al destino. Proprio perché sono ’sorgenti’ dell’uomo, questi principi sono chiamati ‘non negoziabili’. Quando una società s’incammina verso la negazione della vita, infatti, ‘finisce per non trovare più le motivazioni e le energie necessarie per adoperarsi a servizio del vero bene dell’uomo. Se si perde la sensibilità personale e sociale verso l’accoglienza di una nuova vita, anche altre forme di accoglienza utili alla vita sociale si inaridiscono’ (Benedetto XVI, Caritas in veritate, n. 28). Senza un reale rispetto di questi valori primi, che costituiscono l’etica della vita, è illusorio pensare ad un’etica sociale che vorrebbe promuovere l’uomo ma in realtà lo abbandona nei momenti di maggiore fragilità. Ogni altro valore necessario al bene della persona e della società, infatti, germoglia e prende linfa dai primi, mentre staccati dall’accoglienza in radice della vita, potremmo dire della ‘vita nuda’, i valori sociali inaridiscono. Ecco perché nel ‘corpus’ del bene comune non vi è un groviglio di equivalenze valoriali da scegliere a piacimento, ma esiste un ordine e una gerarchia costitutiva. Nella coscienza universale sancita dalle Carte internazionali è espressa una acquisita sensibilità verso i più poveri e deboli della famiglia umana, e quindi è affermato il dovere di mettere in atto ogni efficace misura di difesa, sostegno e promozione. Ciò è una grande conquista, salvo poi – questa dichiarazione – non sempre corrispondere alle politiche reali. Ma, ci chiediamo, chi è più debole e fragile, più povero, di coloro che neppure hanno voce per affermare il proprio diritto, e che spesso nemmeno possono opporre il proprio volto?… Vittime invisibili ma reali! E chi è più indifeso di chi non ha voce perché non l’ha ancora o, forse, non l’ha più? E, invero, la presa in carica dei più poveri e indifesi non esprime, forse, il grado più vero di civiltà di un corpo sociale e del suo ordinamento? E non modella la forma di pensare e di agire – il costume – di un popolo, il suo modo di rapportarsi nel proprio interno, di sostenere le diverse situazioni della vita adulta sia con codici strutturali adeguati, sia nel segno dell’attenzione e della gratuità personale? Questo insieme di atteggiamenti e di comportamenti propri dei singoli, ma anche della società e dello Stato, manifesta il livello di umanità o, per contro, di cinismo paludato, di un popolo e di una Nazione. La nostra Europa, come l’intero Occidente segnato da una certa cultura radicale fortemente individualista, si trova da tempo sullo spartiacque tra l’umano e il suo contrario. Questi temi non sono rimandabili quasi fossero secondari; in realtà formano la ’sostanza etica’ di base del nostro vivere insieme”.

E più avanti:

“A volte si sente affermare che di questi valori non bisognerebbe parlare perché ‘divisivi’ e quindi inopportuni e scorretti, mentre quelli riguardanti l’etica sociale avrebbero una capacità unitiva generale. L’invito, non di rado esplicito, sarebbe quello di avvolgerli in un cono d’ombra e di silenzio, relegarli sempre più sullo sfondo privato di ciascuno, come se fossero un argomento scomodo, quindi socialmente e politicamente inopportuno. L’invito è spesso di far finta di niente, di ‘lasciarli al loro destino’, come se turbassero la coscienza collettiva. Tuttalpiù si vorrebbe affidarli all’opera silenziosa e riservata della burocrazia tecnocratica. Ma è possibile perseguire il bene comune tralasciandone il fondamento stabile, orientativo e garante? Il bene è possibile solo nella verità e nella verità intera. Per questa ragione non sono oggetto di negoziazione: su molte questioni, infatti, si deve procedere attraverso mediazioni e buoni compromessi, ma ci sono valori che, per il contenuto loro proprio, difficilmente sopportano mediazioni per quanto volenterose, giacché, questi valori, non sono né quantificabili né parcellizzabili, pena trovarsi di fatto negati”.

Con questo, il cardinale Bagnasco ha messo d’un colpo nell’angolo non solo quelli del “Corriere” – presenti in forze con il direttore Ferruccio de Bortoli, con l’editorialista Ernesto Galli della Loggia e con l’azionista di riferimento Corrado Passera – ma anche tutti quei cattolici che hanno contribuito per settimane, su pagine e pagine del giornalone milanese, a fare impropriamente dell’appuntamento di Todi un evento epocale: a cominciare dal fondatore della comunità di Sant’Egidio, Andrea Riccardi.

Qual è, infatti, in parole povere, il disegno politico di tutti costoro se non quello di “federare” i cattolici in una formazione più o meno nuova, a più anime, di centro, che alleata al PD raccolga alle urne quel 60 per cento di elettori vagheggiato da Massimo D’Alema in una solenne intervista al “Corriere” pubblicata proprio alla vigilia di Todi?

È chiaro che una simile alleanza può nascere e funzionare solo a patto di tenerne fuori i “divisivi” principi richiamati dal cardinale. Come ben spiega il direttore del “Corriere” de Bortoli nel fondo di prima pagina uscito in concomitanza con Todi, quando esorta i cattolici a “riscoprire [nel dialogo con i laici] un tratto più marcatamente conciliare dopo l’era combattiva e di palazzo di Ruini. Una missione sociale, in questi anni, poco valorizzata, mentre si è insistito tanto sulla difesa dei valori cosiddetti non negoziabili, dal diritto alla vita alle questioni bioetiche, al punto di estendere l’incomunicabilità con le posizioni laiche all’insieme delle questioni civili ed economiche”.

Non meraviglia, quindi, che il giornale di via Solferino, talmente ostinato a dettare una via politica, la sua, ai cattolici italiani, abbia rifiutato di pubblicare – alla vigilia di Todi – quel “manifesto” dei quattro intellettuali di area PD riprodotto nel precedente post, che chiede al loro partito di mettere al centro della nuova politica proprio “l’emergenza antropologica” rappresentata dai principi non negoziabili richiamati da Bagnasco e da Benedetto XVI.

Il manifesto di Giuseppe Vacca, Mario Tronti, Paolo Sorbi e Pietro Barcellona scompagina infatti il disegno del “Corriere” sul versante della sinistra, tanto quanto il cardinale Bagnasco lo mette in fuga sul versante cattolico.

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