sabato 22 ottobre 2011

IL MOVIMENTO DEI BAMBOCCIONI

Lasciamo stare i violenti, e concentriamoci sui pacifici: i manifestanti del 15 ottobre sono quanto di più conservatore la piazza italiana abbia espresso dai tempi delle Madonne pellegrine. Già la parola – “indignati” – non mi piace affatto, carica com’è di valenze morali (o moralistiche) che con la vita pubblica non dovrebbero aver niente a che fare.


Ma sono le richieste dal movimento a far venire i brividi, insieme alla rozzezza dell’analisi, all’ignoranza della storia, all’incultura economica e, soprattutto, alla rinuncia programmatica e persino al disprezzo per ogni forma di iniziativa individuale. Tutto ciò che vogliono gli “indignati” è il posto fisso che i loro padri si sono guadagnati in cambio del consenso al governo di volta in volta in carica.

“La questione generazionale è semplice – sostengono gli “indignati” in una lettera a Napolitano –: c’è una generazione esclusa dai diritti e dal benessere. La questione non si risolve togliendo i diritti a chi li aveva conquistati, ma riconoscendo diritti a chi non li ha, e per far questo ci vogliono risorse, altrimenti le parole girano a vuoto.” Ma come si fa a confondere “diritto” con “benessere”? Quale perversa scuola di pensiero ha inculcato in questi bamboccioni l’idea che il benessere sia un diritto? E che questo “diritto” vada finanziato, come spiegano poco dopo, “attraverso una tassazione delle rendite, delle transazioni, dei patrimoni mobiliari e immobiliari”?

La brillante idea degli “indignati” sarebbe dunque quella di tassare due volte quelli che lavorano (prima con l’Irpef, poi con la patrimoniale) per creare posti di lavoro fasulli da distribuire a chi non lavora. L’intera questione sarebbe ridicola se non fosse così largamente condivisa.
Che manifestino o no, milioni di ventenni e di trentenni credono davvero che il problema sia chiedere allo Stato di risolvere i loro problemi. Ragionano da sudditi, non da cittadini. Credono di essere liberi, ma sono già pronti alla servitù.

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