martedì 20 marzo 2012

IL MATRIMONIO E' UN OPTIONAL


di Stefano Spinelli

1. Non c’è pace per famiglia e matrimonio.

“Il matrimonio non è un’opinione”, avevo titolato un mio precedente commento alla sentenza della Corte Costituzionale 138/2010, che aveva ribadito la tutela costituzionale del matrimonio tra uomo e donna, legittimando le norme attuali che impediscono a due persone di sesso maschile di procedere alla pubblicazione del matrimonio.

“Il matrimonio è un optional”, si potrebbe invece titolare questa sentenza della Cassazione 4184/2012, depositata pochi giorni fa, che afferma che – indipendentemente dal matrimonio – agli omosessuali “spetta un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata”.


Due cittadini italiani entrambi di sesso maschile hanno contratto matrimonio nella progressista, libera, aperta e moderna Olanda. Vivendo in Italia, hanno chiesto la trascrizione del relativo atto nel nostro paese. La retrograda, medievale, cattolica, tradizionalista e omofoba Italia ha risposto però picche, perché qui – per quanto strano possa apparire – la “diversità di sesso è (ancora) considerata elemento essenziale del matrimonio, assieme alla manifestazione di volontà dei nubendi”. D’altronde, non si vorrà mica mettere sullo stesso piano l’Aja, dove i nostri si sono sposati, con Latina, dove vivono. Anche nel nome si avverte l’aura d’internazionalità che promana dalla prima, rispetto alla gretta chiusura provincialistica della seconda.

Ma tant’è. Questa è la situazione, anche se va precisato che sono infinitamente di più le Latine nel mondo che non le Aje. Sicché si potrebbe concludere che l’intero mondo è una piccola provincia, con poche eccezioni asseritamente illuminate. La saggezza e ragionevolezza del piccolo Davide continua a resistere, nonostante il lobbysmo avanguardista del gigante Golia.

2. Comunque, i due cittadini fanno partire un iter giudiziario volto a ottenere la trascrizione del loro matrimonio. In primo e secondo grado il richiesto diritto viene loro negato, sul presupposto dell’ “inesistenza di un matrimonio siffatto nell’ordinamento italiano”.

La questione arriva in Cassazione che, con la pronuncia in commento, conferma le precedenti decisioni.

Allora, si potrebbe dire, dove sta la novità? Perché tanta eco ha avuto nei mass media?

Già, ce lo domandiamo anche noi. Il commento potrebbe finire qui.

Il fatto è che la Cassazione non si è accontentata di decidere il caso, ma è arrivata ad affermare alcuni propri principi in materia, che l’hanno portata a modificare il motivo del rigetto delle sentenze di merito. Gli atti matrimoniali dell’Aja sarebbero intrascrivibili non più perché nell’ordinamento italiano è “inesistente” il matrimonio tra persone dello stesso sesso, ma per la loro “inidoneità a produrre, quali atti di matrimonio, qualsiasi effetto giuridico nell’ordinamento italiano”.

Che è come dire: il matrimonio omosessuale è già oggi in potenza presente nel nostro ordinamento, ma è come se fosse in stand by e non producesse alcun effetto giuridico. Però la sua esistenza potenziale comporta che un trattamento omogeneo a quello delle coppie coniugate ossa essere sin d’ora ottenuto dagli interessati per via giudiziale.

Avete letto bene. Non c’è, ma è come se già ci fosse.

3. Vediamo il ragionamento dei giudici.

La Corte è – per così dire – costretta a chiudere il caso affermando che “il diritto fondamentale di contrarre matrimonio non è riconosciuto dalla nostra costituzione a due persone dello stesso sesso”, in conformità peraltro a quanto già deciso dalla Corte Costituzionale nella richiamata sentenza 238/2010. Peraltro, è già significativo il fatto che – per arrivare a detta conclusione – abbia dovuto utilizzare il concetto di “postulato implicito”. Poiché da nessuna parte sta scritto esattamente che il matrimonio è quello tra un uomo e una donna, detta condizione la si è rinvenuta implicitamente in numerose norme del nostro ordinamento che parlano di “marito e moglie”, da ciò desumendosi la necessità di una parte maschile e di una parte femminile nell’atto matrimoniale. Per fortuna. Diversamente – aggiungo io – l’ordinamento italiano avrebbe rischiato di ritrovarsi in casa già ora il matrimonio omosessuale… praticamente senza accorgersene.

Evidentemente, la Cassazione non si accontenta di detta conclusione.

Propone allora una propria ricostruzione della materia, avvalendosi delle considerazioni interpretative contenute nella sentenza della Corte Europea del 24 giugno 2010 (altra decisione illuminata), che peraltro conclude anch’essa per il rigetto della richiesta di due cittadini austriaci di sesso maschile che avevano sostenuto di essere discriminati per non aver potuto contrarre matrimonio.

Ebbene gli ermellini sostengono che dai brani della sentenza europea emergerebbero due novità. La prima sarebbe che il diritto al matrimonio riconosciuto dall’art. 12 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (1950), secondo il quale “uomini e donne in età adatta hanno diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali regolanti l’esercizio di tale diritto”, includerebbe “anche il diritto al matrimonio tra persone dello stesso sesso”, se lo si consideri in combinato disposto con l’art. 9 della Carta di Nizza (2000), secondo cui “il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio”. Quest’ultimo, infatti, avrebbe “volutamente evitato il riferimento a uomini e donne”.

Mi pare, questo, un buon esempio del grado di stravolgimento a cui possono essere sottoposte le norme, per far dire alle stesse ciò che si vuole, operazione che riesce tanto più facilmente quanto più generiche esse sono.

La seconda novità farebbe riferimento all’art. 14 della CEDU (“il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente convenzione deve essere assicurato senza distinzione di alcuna specie, come di sesso…”) in combinato disposto con l’art. 8 (“ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare”).

Come possa desumersi, da questi due articoli, la conclusione degli ermellini, secondo cui “una coppia omosessuale convivente con una stabile relazione di fatto rientra nella nozione di ‘vita familiare’, proprio come rientrerebbe la relazione di una coppia eterosessuale nella stessa situazione”… è un mezzo mistero, è un’affermazione apodittica. Fatto salvo il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti ad ogni persona in quanto tale, e quindi anche agli omosessuali, la titolarità dei diritti attinenti alla “vita familiare” è invece riservata ai coniugi intesi come marito e moglie.

In ogni caso, concludono i giudici della Suprema Corte, il nostro legislatore sarebbe vincolato a riconoscere giuridicamente le unioni di fatto stabili tra omosessuali. Questi ultimi, pur non potendo far valere il diritto a contrarre matrimonio, né il diritto alla trascrizione del matrimonio contratto all’estero, potrebbero far valere in giudizio il proprio “diritto ad un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata”, ed eventualmente sollevare questione di legittimità costituzionale.

4. Mi pare che le considerazioni degli ermellini cozzino con quelle espresse dai giudici costituzionali nella sentenza 238/2010: “i costituenti, elaborando l’art. 29 Cost., tennero presente la nozione di matrimonio definita dal codice civile entrato in vigore nel 1942, che, come sopra si è visto, stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso”; “questo significato del precetto costituzionale non può essere superato per via ermeneutica, perché non si tratterebbe di una semplice rilettura del sistema o di abbandonare una mera prassi interpretativa, bensì di procedere ad un’interpretazione creativa”.

In sostanza, checché ne dica la Cassazione, la Consulta ribadisce che la diversità di sesso dei nubendi è (continua ad essere) requisito minimo indispensabile per la stessa esistenza del matrimonio civile, nel nostro ordinamento giuridico.

In secondo luogo, la Consulta ha anche escluso che in materia possa rinvenirsi violazione del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., in quanto “le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio”.

Viene così disatteso il principio dell’estensione della nozione di “vita familiare”. Viene disatteso anche il principio del diritto al “trattamento omogeneo” riconosciuto giudizialmente.

Come abbiamo già sostenuto a suo tempo, la stessa Consulta appare criticabile nella parte in cui non esclude un intervento del legislatore che individui “forme di garanzia e di riconoscimento” anche di tali forme di convivenza.

Ma, per i giudici costituzionali, il presunto riconoscimento non può prescindere dall’intervento discrezionale del Parlamento. Soprattutto non può risolversi in una disciplina parafamiliare con equiparazione all’istituto matrimoniale, perché allora si violerebbe l’art. 29 Cost. e il principio della famiglia come “società naturale fondata sul matrimonio”.

5. In conclusione, vorrei evidenziare che la maggior parte della sentenza della Cassazione non è affatto inerente alla questione sottoposta al suo esame, che è la trascrivibilità del matrimonio omosessuale contratto all’estero, e la cui risposta negativa è stata data già sin dall’inizio.

La sentenza si dilunga invece a spiegare che anche a Latina, oltre che all’Aja, deve affermarsi a priori che l’unione omosessuale rientri a pieno titolo nel concetto di “vita familiare” e che nella nozione di matrimonio non possa più considerarsi la diversità di sesso quale presupposto per il suo riconoscimento. Dunque sarebbe erroneo l’ordinamento italiano che non ha ancora introdotto il matrimonio omosessuale. In sede giudiziale potrebbero poi ottenersi trattamenti omogenei a quelli assicurati alle coppie coniugate.

Queste due affermazioni dogmatiche non costituiscono applicazione delle norme esistenti, che anzi sono tali da configurare il matrimonio come quello esistente tra un marito e una moglie, e la stessa Corte non può far altro che rigettare il ricorso. Questi dogmi affermati in sentenza “a prescindere” (ma una volta i dogmi non erano un’esclusiva della Chiesa?) sono, potremmo dire, opinioni personali dei giudici della Suprema Corte (presidente Luccioli, relatore De Palma), che auspicano un ordinamento giuridico diverso, propugnano una società diversa, a loro modo di vedere, più giusta, più umana, più tollerante, più internazionale, più moderna, più… tutto.

In termini tecnici si parla di attività de jure condendo, che spetta al legislatore o comunque a chi è abilitato ad assumere le scelte per il popolo secondo la democrazia rappresentativa.

Ebbene, è questo il compito dei giudici?

Ciò che mi colpisce leggendo il testo della sentenza è che la questione sottoposta all’esame dei giudici è stata risolta e rigettata dai giudici nelle prime 34 pagine (compresa la ricostruzione dei fatti e compreso l’iter delle fasi processuali precedenti). La sentenza è composta di ben 76 pagine. Nelle successive 42 pagine, cosa hanno detto gli ermellini?

Ben più della metà della sentenza è destinato a sostenere un’idea, un auspicio di una situazione normativa futura, la rappresentazione nostalgica di una realtà che si dà contraddittoriamente come esistente in potenza ma che in realtà non c’è, che si vorrebbe come espressione di diritti fondamentali ma che non esiste. E’ un giudizio politico-culturale, e non giuridico. E’ un’aspettativa di società disattesa. E’ un desiderio non corrispondente alla realtà. In una parola è ideologia. Si violenta la realtà per renderla corrispondete a ciò che si pensa.

Veramente ritengo che si debba tornare ai giudici che fanno i giudici, applicando la legge, lasciando la regolamentazione della società alla libera espressione del principio democratico.


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