mercoledì 23 maggio 2012

LE CLINICHE DELLA FERTILITA'


Così si sfrutta la povertà delle donne per trasformarle in madri surrogate


Lo scenario è di quelli che qualcuno sogna anche qui. Cliniche della fertilità dove madri surrogate portano a termine gravidanze per conto terzi, con tutti che vissero felici e contenti: madre in affitto remunerata, bebé consegnato chiavi in mano, coppia committente (o singolo committente) che ottiene un figlio non ottenibile in altri modi. Poi succede, come è accaduto il 16 maggio in una clinica indiana specializzata in questo genere di servizi, che una madre-incubatrice muoia. Aveva trent’anni, si chiamava Premila Vaghela, aveva affittato l’utero per poter mantenere i propri due figli (le donne già madri sono la scelta “elettiva” per questo tipo di pratiche: sanno a che cosa vanno incontro) ed è morta all'ottavo mese di gravidanza a causa di “complicazioni inspiegabili”, che si sono manifestate con convulsioni e collasso proprio mentre la donna si sottoponeva a una visita di routine nella clinica della fertilità che l’aveva ingaggiata, il Women Hospital Pulse, con sede ad Ahmedabad, nello stato del Gujarat.

Il Times of India racconta che i medici della clinica sono riusciti a praticarle un cesareo di emergenza, prima di mandarla a morire in un altro ospedale. Premila Vaghela ha quindi “portato a termine il proprio lavoro”, commenta il quotidiano, e il bambino è stato consegnato alla donna americana che l’aveva commissionato. Il Women Hospital Pulse – una moderna struttura che opera in collegamento con un’analoga e importante clinica australiana della fertilità – garantisce prestazioni eccellenti e standard internazionali di assistenza. La morte della signora Vaghela è stata già catalogata come fatalità; nel contratto che aveva firmato, del resto, sollevava committenti e clinica da ogni responsabilità, se non per atti di negligenza difficilmente provabili. Tutti molto dispiaciuti ma che ci si può fare, incerti del mestiere di madre surrogata. L’infamia, infatti, è nel manico. E’ nell’idea che la povertà di una donna possa essere sfruttata in pratiche di moderna schiavitù, giustificata con l’altrui “diritto” a un figlio.

© - FOGLIO QUOTIDIANO



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