venerdì 11 maggio 2012

ZITTI ZITTI


Quante volte ci è capitato. Sull'autobus, nelle sale d'aspetto, alla macchinetta del caffè. Con sconosciuti in un negozio o magari a tavola con chi conosciamo bene. Quante volte abbiamo sentito l'osservazione cinica, bestialmente indifferente, cattiva e profondamente ingiusta. Quante volte abbiamo sentito insultare e fare a pezzi con le parole ciò che ci sta a cuore, ripetendo magari giudizi e menzogne letti sui giornali, uditi da chi fa della falsità un mestiere.

E siamo stati zitti.

Zitti. Immobili. Nei casi peggiori con un sorrisetto, oppure scuotendo lievemente la testa, ma attenti a non farci vedere. Cauti nel lasciare nel dubbio cosa pensiamo veramente. Se pure lo pensiamo, se pure dentro a noi ancora c'è speranza. Quante volte la convenienza ci ha fatti tacere, l'opportunismo ci ha chiuso le labbra?

Salvo poi lamentarci del clima populista, del diffondersi della cattiveria e del sospetto, del malaffare e dell'inganno; del fatto che il vero e il buono è in minoranza.

 Toccava a noi difenderlo, e non eravamo disponibili a parlare.

Antonio\Berlicche
da Samizdatonline

leggi l'articolo di Marina Corradi tratto da Avvenire

Perché non lasciarci travolgere dall'amarezza


Il bene non è inutile e la misericordia è necessaria

Sull’autobus un ragazzo sui sedici anni legge un libro di scuola, intento. Accanto a lui un signore sui sessant’anni lo osserva, come diviso tra simpatia e amarezza.

Poi, giusto prima di scendere, gli fa: «Ragazzo, lascia perdere i libri. Non serve. In Italia, va avanti chi ruba». Poi le portiere si richiudono, l’uomo si allontana e lo studente, sorpreso, guarda gli altri viaggiatori, che non fiatano. Fissa il libro, lo chiude; e pensieroso osserva Milano scorrergli davanti, in una giornata come tante. Quanta amarezza e disincanto devono covare nell’animo di molti in Italia, perché un pensionato dica a uno sconosciuto adolescente: non studiare, ragazzo, qui non serve? E gli altri attorno zitti, come d’accordo, oppure semplicemente stanchi. Da questa amarezza poi, appena un passo dopo, può nascere la rabbia che pronuncia condanne prima di qualsiasi sentenza, la rabbia acre che non ha bisogno di prove per giudicare, e anzi vorrebbe soddisfazione, subito. La crisi intanto preme, in molti faticano ad arrivare a fine mese; e questo esaspera ancora gli animi e i giudizi; chi stenta ad andare avanti è meno disposto a essere generoso con il prossimo.

Può bastare una parola, magari tutta da verificare, per far precipitare chiunque nel fango, come se già tutto fosse certo, e già i giudici avessero emesso la sentenza. Fa un po’ paura questo vento, che ha in sé un odore di giacobinismo, e quasi una brutta voglia di 'fare giustizia' da sé; aumentando, intanto, i consensi a quelle voci che dicono che tutto è marcio, tutto da sfasciare. Ma mentre si spera che il Governo e la politica e l’Europa trovino la strada che conduca fuori da questa sacca, qualcosa almeno lo può fare ognuno di quei milioni in Italia che, magari distratti, magari lontani, comunque si riconoscono cristiani. Perché nel crescente gridare, accusare, lanciare pietre, c’è qualcosa di radicalmente non evangelico: cioè l’attitudine a sentirci, noi, del tutto innocenti. E dunque la durezza farisaica di chi ritiene, avendo la coscienza del tutto netta, di poter condannare. In una rabbia che si configura, anche, come un’eclisse della misericordia cristiana.

Coscienza netta? Ma chi davvero ce l’ha, chi, osservandosi con un minimo di attenzione, davvero può ritenersi 'a posto'? Guardando la folla eccitata a certi comizi dell’antipolitica viene da domandarsi: e voi? Mai rubato, d’accordo; sempre lavorato, bene; ma tradire la moglie o maltrattarla, o indurla a rifiutare un figlio che arriva 'per sbaglio'; o fermarsi a sera a raccattare una ragazza molto giovane, all’angolo di una strada; o semplicemente non vedere il vecchio solo che abita alla porta accanto, niente di tutto questo vi riguarda, davvero? Perché quel «confesso che ho molto peccato in pensieri, parole, opere...» che recitiamo in chiesa la domenica, forse distrattamente, è invece un passo essenziale della coscienza cristiana: è un guardarsi dentro e saper vedere – ogni sera, come insegnavano una volta le madri – il proprio, di male, prima che quello degli altri. E in questa coscienza scoprire di avere bisogno, disperatamente, anche noi, di misericordia; coscienza che smorza l’ira e la voglia di scagliare pietre, se ci sappiamo, per primi, bisognosi di perdono. In questo sguardo la giustizia non è affatto soppressa, ma procede e fa ciò che deve; liberi però noi dai vapori della rabbia, da quest’ansia che freme per una punizione immediata dei (presunti) colpevoli. Ansia che inquina l’aria e rende cinici e amari, tanto da dire a un ragazzino con il libro di chimica in mano: lascia perdere, studiare è inutile – il bene, in sostanza, è inutile.

Mentre ci domandiamo che cosa può liberarci dalla crisi materiale e morale che ci schiaccia, non dimentichiamo che, parlando cristiano, possiamo ricominciare ogni giorno proprio da noi. Dalla coscienza del male che anche noi facciamo; dalla memoria che anche noi siamo mendicanti di perdono, e che l’atteggiamento più umano è più vero è domandarlo, a mani aperte e vuote.



Marina Corradi

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