sabato 15 dicembre 2012

LA VERITA’ IN ARCHITETTURA: MIES VAN DER ROHE


CHE COS’È L’ARCHITETTURA

«Quando ero giovane iniziammo a chiedere a noi stessi: “Cosa è architettura?”. Lo chiedemmo a chiunque. Essi dicevano: “Quello che noi costruiamo è architettura”. Ma non eravamo soddisfatti di questa risposta. Finché capimmo che era una domanda inerente la verità: cercammo di scoprire che cosa realmente fosse la verità. Rimanemmo incantati trovando una definizione di verità di Tommaso d’Aquino: “Adaequatio rei et intellectus”. Non l’ho mai dimenticato».
Mies legge molto, fin da giovanissimo, «per avere le idee chiare su quanto accade, sui caratteri del nostro tempo e capire il significato di tutto». Per rispondere alle sue domande più profonde, gli sono d’aiuto soprattutto i filosofi e i teologi medievali, che Mies conosce per la sua origine e formazione cattolica romana: «Sant’Agostino e San Tommaso d’Aquino mi hanno spinto a pensare in modo più chiaro e credo che dopo averli studiati ho capito meglio i problemi». Si definisce un uomo religioso, anche se – afferma – «non sono affiliato a nessuna Chiesa».
Il suo mestiere, il fare architettura, è il campo su cui mette in gioco le questioni fondamentali: «Dobbiamo mirare al nocciolo della verità. Le domande relative all’essenza delle cose sono le uniche domande importanti». In architettura, per Mies, la verità ha a che fare innanzitutto con il tema della costruzione. L’architettura stessa è, nella sua definizione, «chiarezza costruttiva portata alla sua espressione esatta». Che cosa intenda per «chiarezza costruttiva» lo si comprende bene quando parla della cappella di Aquisgrana: «Ricordo che ad Aquisgrana, la mia città natale, c’era la cattedrale e la cappella era un edificio ottagonale fatto costruire da Carlo Magno. Nei secoli questa cattedrale è stata trasformata. In età barocca la intonacarono interamente e aggiunsero delle decorazioni. Quand’ero ragazzo tolsero l’intonaco. Poi però non poterono andare avanti perché vennero a mancare i fondi e così si potevano vedere le pietre originali. Guardando la costruzione antica priva di rivestimenti, osservando le belle murature in pietra o in mattoni, una costruzione limpida, fatta da artigiani davvero bravi, sentivo che avrei rinunciato a tutto per un simile edificio».


Chicago North lake shore drive
IL NOSTRO TEMPO È COME UN COMPITO CHE DOBBIAMO ASSOLVERE

«L’architettura è sempre legata al proprio tempo. Il nostro tempo non è per noi una strada estranea su cui corriamo. Ci è stato affidato come un compito che dobbiamo assolvere. Da quando l’ho capito, ho deciso che non avrei mai considerato con favore le mode in architettura e che dovevo cercare princìpi più profondi. L’essenza dell’epoca è l’unica cosa che possiamo esprimere davvero».
La premessa teorica dell’opera di Mies è la volontà di costruire un’architettura moderna, liberata dalla sovrastruttura dell’architettura ottocentesca. Un’architettura espressiva dei valori del proprio tempo, così come lo sono gli edifici antichi: le cattedrali romaniche e gotiche, gli acquedotti romani e i moderni ponti sospesi, architetture dalla cui forza Mies rimane impressionato. «Tutti gli stili, i grandi stili, erano passati, ma essi erano ancora lì».
Ma quali sono i valori di un’epoca e come si riconoscono? «Capire un’epoca – scrive – significa capire la sua essenza e non ogni cosa ci venga innanzi agli occhi». Per Mies il ‘900 è l’epoca dell’economia, della scienza, della tecnologia: «Niente più avviene che non sia osservabile. Dominiamo noi stessi e il mondo in cui ci troviamo. La forza guida del nostro tempo è l’economia».
Qual è allora il ruolo dell’architetto in un tempo così descritto? «Dobbiamo accettarlo – afferma – anche se le sue forze ci appaiono così minacciose. Dobbiamo diventare padroni delle forze incontrollate e disporle in un nuovo ordine, ossia un ordine che dia libero spazio al dispiegamento della vita. Sì, però un ordine che si riferisca agli uomini». Non si tratta di ritirarsi dal proprio tempo né di rimpiangere epoche passate. Al contrario, «per quanto gigantesco possa essere l’apparato economico, per quanto potente la tecnica, tutto ciò è soltanto materiale grezzo se confrontato con la vita. Non abbiamo bisogno di meno tecnica, bensì di più tecnica. Non abbiamo bisogno di meno scienza, ma di una scienza più spirituale; non di minori energie economiche, bensì di energie più mature».

Colpisce notare la totale coincidenza con quanto Romano Guardini scrive, nella nona delle Lettere dal Lago di Como, sullo stesso tema: «Per poter renderci padroni del “nuovo”, dobbiamo in giusto modo penetrarlo. Dobbiamo dominare le forze scatenate onde farle attendere alla elaborazione di un ordine nuovo, che sia riferito all’uomo. Ma, in ultima analisi, questa opera non può compiersi ove si prendano come punto di partenza i problemi tecnici; essa è resa possibile solo partendo dall’uomo vivente. Si tratta, è vero, di problemi di natura tecnica, scientifica, politica; ma essi non possono essere risolti se non procedendo dall’uomo. O meglio: ciò che ci occorre è una tecnica più forte, più ponderata, più “umana”. Ci occorre più scienza, ma che sia più spiritualizzata, più sottomessa alla disciplina della forma; ci occorre più energia economica e politica, ma che sia più evoluta, più matura, più cosciente delle proprie responsabilità».
Mies fa sue le parole di Romano Guardini, dando al Movimento Moderno una declinazione che potremmo definire umana. Egli si pone come missione quella di “umanizzare” il moderno, cogliendo quanto potessero essere pericolose quelle posizioni ideologiche che identificavano la modernità con il mito del progresso e della tecnica. Orientare la tecnica al servizio dell’uomo, e darle forma, sarà il lavoro di una vita.


LESS IS MORE

«Sapete, ogni cosa è così complicata in un edificio. Per raggiungere una chiarezza dobbiamo semplificare praticamente ogni cosa. È un lavoro duro. Bisogna combattere, e combattere, e combattere».
Tutto il lavoro di Mies e della sua scuola si fonda su due pilastri fondamentali: ordine e razionalità. Per Mies l’ordine non è qualcosa che si impone ma qualcosa che va cercato e trovato, il risultato di un processo di conoscenza della natura delle cose. L’architettura, allora, non è altro che una forma di conoscenza della realtà, la ricerca della forma più rispondente alla natura delle cose.
La forma è il risultato di un percorso razionale, che non ha nulla a che vedere col fantasioso o l’arbitrario, ma che procede di scelta in scelta, dalla complessità all’essenzialità, fino al punto in cui nulla può essere aggiunto e nulla tolto. La misura esatta, l’esatta proporzione, il giusto uso del materiale. Si può allora comprendere la sua frase più famosa – “Less is more” – al di là del banale minimalismo e razionalismo a cui spesso viene ridotta: la semplificazione non è fine a se stessa, non è uno stile né un linguaggio, ma la riduzione della complessità dei fenomeni della realtà alla loro qualità essenziale. Ciò che porta Mies a realizzare architetture classiche e al contempo moderne. Senza tempo.

Padiglione di Barcellona, 1929.
Padiglione di Barcellona, 1929. L’interno.
Il pilastro a croce del Padiglione di Barcellona.
Casa Farnsworth, Chicago, 1946-1950.
Lake Shore Drive Buildings Apartments, Chicago, 1948-1951.
Crown Hall, Chicago, 1950-1956.
Progetto per la Convention Hall, 1953-1954.
Seagram Building, New York, 1954-1958.
Lafayette Park, Detroit, 1955.
Con Ludwig Hilberseimer.
Neue Nationalgalerie, Berlino, 1962-1968

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