lunedì 27 febbraio 2012

IL FASCISMO DEGLI ANTIFASCISTI

Caselli viene contestato e si lamenta Gli spiego che significa affrontare i violenti

 Gli estremisti contro il magistrato, così come accade a decine di autori come il sottoscritto. Ecco perché lui rischia di diventare ridicolo
di Giampaolo Pansa
Tratto da Libero del 26 febbraio 2012

Diventare un uomo ridicolo. Dopo aver tanto lottato contro terroristi e mafiosi, è questo il rischio che corre Giancarlo Caselli, super magistrato e capo della Procura di Torino. Lo corre per un motivo sciocco: considerarsi l’unica vittima di estremisti violenti che contestano i suoi libri e il suo lavoro. Caselli dimentica di essere soltanto l’ultimo dei tanti costretti a fare la stessa esperienza. E adesso gli racconterò il mio caso. Nel 2003 pubblico Il sangue dei vinti, libro che racconta le vendette dei partigiani dopo il 25 aprile, contro i fascisti sconfitti. Nasce un trambusto pazzesco sui giornali e alla tivù. Vecchi amici di sinistra mi accusano di averlo scritto per soldi e su ordine di Silvio Berlusconi, in quel momento al governo. Ma la piazza, o la piazzetta, non si muove. Deve assalire il Caimano e non ha tempo da perdere con un microbo come me. Continuo a scrivere libri revisionisti sulla guerra civile e nell’ottobre 2006 esce La grande bugia. La stagione politica è cambiata. Adesso al governo c’è il secondo centrosinistra di Romano Prodi. Il Cavaliere è sconfitto e può essere lasciato in pace. L’attenzione si sposta sul microbo Pansa. Un testardo che si merita una bella lezione. Il 16 ottobre 2006 si tiene a Reggio Emilia il primo di una serie di dibattiti su quel libro. Il salone di un hotel della città è strapieno. A dialogare con me c’è Aldo Cazzullo, giornalista, inviato speciale del Corriere della sera. Sto per rispondere alla sua domanda iniziale quando nella sala, tra la gente, emerge una dozzina di violenti. Vogliono interrompere la serata e punirmi.

Il capo del gruppo corre verso il nostro tavolo e mi scaglia addosso una copia della Grande bugia, urlando: «È un libro infame, sono venuto da Roma apposta per gettarglielo in faccia!». Segue un lancio di volantini stampati con cura. Riproducono una banconota da 50 euro con la scritta: «Pansa prezzolato - con l’infamia ci hai speculato». Arrivato alla nostra pedana, il gruppo srotola un lenzuolo color sangue, con lo slogan «Triangolo rosso? Nessun rimorso». Come a dire, i partigiani comunisti hanno fatto bene ad accoppare tanti nemici della rivoluzione. I violenti sono molto agitati. Urlano da forsennati. Mostrano al pubblico il pugno chiuso. Uno di loro strilla di continuo, a macchinetta: «Viva Schio! Viva Schio!». È la città veneta dove nel luglio 1945 la polizia partigiana rossa ha occupato il carcere e ammazzato cinquantatré persone.

Aldo Cazzullo e io restiamo al nostro posto e mandiamo al diavolo il capo del gruppo che pretende di leggere un volantino interminabile. A quel punto, la gente in sala comincia a scandire «Libertà, libertà!». I violenti si rendono conto di essere in minoranza e due poliziotti li allontanano. Si saprà dopo che appartengono a una fazione di ultrà rossi, «Antifascist Militant». Sono tipi senza faccia, sconosciuti. Tranne uno che si rivela tre mesi dopo in un convegno antifascista a Roma, organizzato da Rifondazione comunista. È Simone Sallusti, responsabile organizzativo del partito nella capitale. Rivolto ai compagni, si presenta e dice: «Sono andato a Reggio Emilia per contestare Pansa. E ne sono orgoglioso!». Applausi e pugni chiusi. Adesso siamo al 17 ottobre. La faccenda di Reggio sta su molti quotidiani e nei telegiornali. Nel pomeriggio ricevo qualche telefonata di solidarietà. Ma soltanto di politici moderati, ricordo Pier Ferdinando Casini e Clemente Mastella. Tuttavia, verso sera arriva il messaggio più importante. Giorgio Napolitano, da pochi mesi presidente della Repubblica, con un comunicato del Quirinale, esprime «la sua profonda deplorazione per gli atti di violenza» a Reggio Emilia.

Soltanto dopo il suo intervento, spuntano un paio di telefonate da sinistra, di Prodi e di Piero Fassino. Chiamate personali e riservate, niente di pubblico perché a sinistra il Pansa è considerato un diffamatore della Resistenza. Per ultima si fa viva una redattrice della Stampa, Egle Santolini. Su incarico della direzione, mi avvisa che l’indomani troverò sul loro giornale due articoli che mi riguardano. Mi consiglia: «Li legga con calma». Li leggo il 18 ottobre. Alla Stampa, dove ho lavorato per anni, devo avere qualche amico del giaguaro. Entrambi i pezzi sono contro di me, con una rabbia speciale. Un articolo del professor Angelo d’Orsi e un’intervista, manco a dirlo, di Giorgio Bocca. Il professore ricicla un suo vecchio articolo, con l’aggiunta di un falso. Lui descrive l’aggressione di Reggio Emilia così: «Insulti e baruffe tra giovani di sinistra che contestavano Pansa e giovani di destra che ne prendevano le parti».

Sempre il 18 ottobre, mi telefona uno dei vicedirettori della Stampa, Massimo Gramellini, la cosiddetta penna brillante del giornale. Un pennacchione giulivo che si ritiene di sinistra. Con ilare cautela, mi chiede se voglio rispondere, ma lo mando a quel paese. Subito dopo mi chiama il direttore, Giulio Anselmi. Ci conosciamo da anni. E abbiamo lavorato insieme all’Espresso. Anselmi deve essersi reso conto di aver pubblicato una carognata. Si lava subito le mani e mi indica come bersaglio il suo vice: «Guarda che quella pagina l’ha messa insieme Gramellini. Ha fatto tutto lui ed è lui che devi ringraziare, non è colpa mia». Gli ribatto: «Ma il direttore non sei tu?». Anselmi: «Io non potevo farci nulla». Penso: misteri del giornalismo italiano, con troppi direttori senza autorità.

L’assalto di Reggio fa scuola. Il 19 ottobre devo presentare il libro a Bassano del Grappa. Ma nella notte, gli ultrà rossi hanno sabotato le serrature dei tre ingressi della libreria. Ci vuole un lavoro di tre ore per sbloccarle. Riesco a fare il dibattito, mentre in strada urlano dei giovanotti che pretendono di entrare e leggere un documento contro di me. Dopo Bassano, parlo in altre due città venete, Castelfranco e Carmignano di Brenta. E mi rendo conto di avere addosso l’Anpi, il club dei partigiani rossi, e le solite bande di ultrà. Ma ormai sono protetto dalla polizia e dai carabinieri. Il capo della Digos di Padova mi spiega che dovunque troverò le medesime ostilità. Aggiunge: «Li conosciamo, lei deve stare tranquillo perché sarà sempre tutelato dalle forze dell’ordine».

Presentare un libro scortato da agenti e carabinieri? La faccenda non mi piace per niente. Mi amareggia e mi obbliga a domandarmi perché mai debba sottrarre a compiti ben più importanti tanti ragazzi in divisa. È in quel momento che decido di annullare quattordici dibattiti dei trenta già previsti. Lo faccio pensando: «Credevo di essere un cittadino libero in un paese libero, ma devo arrendermi: non è per niente così».

Da allora sono trascorsi cinque anni e non ho più presentato in pubblico i miei libri. Mi sono reso conto che questa rinuncia non ha influenza sulla diffusione, però mi sento dimezzato. Lo stesso accade a tanti autori di destra. E oggi anche a eccellenze di sinistra, come Giancarlo Caselli. La ruota è girata, ma il risultato è sempre un brutto affare. Signor procuratore capo di Torino, ci rifletta. Smetta di fare la vittima. Gioverà a lei e a tutti noi

VENTICINQUE A ZERO

Prosciolto per il caso Mills:  Berlusconi - pm: 25 a zero
Fallisce l’ennesimo assalto delle toghe. Tanti tentativi, mai una condanna. Il Cav soddisfatto: "Mezza giustizia è fatta". Ma ora chi paga per questo accanimento?
di Vittorio Feltri - 26 febbraio 2012
Tutto previsto. Tutto ridicolo. Dopo 2.600 e passa udienze non sono ancora riusciti a condannare Silvio Berlusconi. Se lui non è un santo, e a questo punto neppure beato ( con le rotture che gli hanno inflitto), i magistrati non sono dei fenomeni, altrimenti almeno una condannina, magari fasulla, sarebbero stati capaci di ammollargliela.
Il caso Mills più che un caso era un casino. Secondo l’accusa, il Cavaliere avrebbe pagato (corrotto) l’avvocato inglese affinché raccontasse balle. Peccato non esista lo straccetto di una prova. Se io do del denaro a te, qualche traccia di movimentazione su conti correnti dovrebbe rimanere, o no? Certo che dovrebbe rimanere, invece non è rimasta. E allora? Ciccia.
Questo, all’osso, sul piano giudiziario. Nonostante ciò, la giustizia ha fatto i salti mortali per dimostrare che l’ex premier è un fior di farabutto. Ma ha fallito. Sennonché le toghe (in buona fede? Forse sì, forse no, chi lo può dire?) hanno insistito, con tigna degna di miglior causa, per dimostrare di aver ragione. E sono andate avanti anni e anni, cavalcando ogni argomento, compresi i più stravaganti, al fine di giungere a un verdetto di colpevolezza dell’imputato (eccellente o eccedente?).
D’altronde un bocconcino come Berlusconi fa gola a chiunque, figuriamoci alla casta giudiziaria, non insensibile al bagliore dei riflettori. Ma c’è un ma. Sbattere in galera un povero cristo qualunque è facile: non dà molta soddisfazione, però si può fare agevolmente. Sbattere in galera un grande imprenditore, per di più presidente del Consiglio per lustri e lustri, non è, invece, un gioco da prendere sottogamba. Bisogna avere in mano qualcosa di solido, molto solido, non bastano le congetture. Per di più debolucce. Occorre prudenza.
Gli uomini e le donne dei tribunali non sono caporali, tengono alla carriera. Che fare per non rovinarla? Evitare azzardi. Se condanni il Cavaliere in primo grado e, in secondo o in terzo, poi te lo assolvono (o prosciolgono per prescrizione), non è bello. Non depone a tuo favore. Meglio procedere coi piedi di piombo. Attenzione. Se ieri il tribunale avesse detto: a casa per non aver commesso il fatto o roba simile, l’obiezione del pueblo sarebbe stata disarmante. Questa: scusate toghe, avete messo in piedi un cancan del genere per concludere che era tutta una barzelletta, siete matti? Quindi, è vera la storia dell’accanimento giudiziario? Date addosso a Silvio per sputtanarlo, squalificarlo politicamente e, alla fine, ammettete che si è trattato di un equivoco. Non regge.
La categoria dei giudici non poteva e non può esporsi a critiche tanto pesanti. Le conveniva trovare una strada diversa. Quale? La prescrizione. Che accontenta tutti e tutti (in apparenza) scontenta, perché si presta a qualsiasi interpretazione: non è una condanna né un’assoluzione.Non fa danni e consente varie letture. La giustizia salva la faccia e il Cavaliere salva ben altro, il Pdl resta compatto attorno al suo leader e continua, come convenuto, ad appoggiare il governo alle prese con riforme che richiedono tempo e coesione della maggioranza.
E il Quirinale? Supponiamo abbia tirato un sospiro di sollievo. Non era il momento di turbare il lavoro di Mario Monti,il quale-piaccia o no-è considerato indispensabile per tentare di porre l’Italia al riparo dal rischio di deragliare in senso greco.
Indubbiamente, questa vicenda è stata destabilizzante, ha complicato la gestione del Paese, ha gettato ombre sia su Berlusconi sia sull’operato della Procura di Milano. L’epilogo è una sorta di compromesso e sappiamo che, lungi dal troncare le polemiche, le alimenterà. Gli antiberlusconiani seguiteranno a dire che il Cavaliere non è innocente e i berlusconiani seguiteranno a dire che non è colpevole.
La guerra prosegue. Ma la voglia di combattere va scemando. La gente si è accorta che il prezzo delle ostilità è a proprio carico, e reclama la pace o, almeno, un armistizio. Sarebbe ora di darglielo.

PER NON DIMENTICARE



Ritratto del pm De Pasquale: dal suicidio di Cagliari durante Tangentopoli al "confino" per Colucci. Perfino Borrelli lo sgridò
di Filippo Facci
Tratto da Libero del 26 febbraio 2012

Il proscioglimento per prescrizione era stato richiesto dalla difesa in subordine all’assoluzione piena: e basterebbe questo a decretare vincitori e vinti. O forse bastava il sorriso dell’avvocato Ghedini, o meglio ancora: bastava la faccia del pm Fabio De Pasquale, che non si capisce neanche che cosa sperasse di ottenere. Forse una condanna «morale»: come se il sistema penale servisse a questo.

I giudici non hanno deciso sul merito, ecco tutto: sicché per appiccicare a Berlusconi lo status di «corruttore» (che i suoi nemici, tanto, gli attribuivano già) occorre riesumare la Cassazione del processo Mills (il primo) laddove l’avvocato inglese in effetti figura corrotto: dimenticando che però Berlusconi, in quel processo, non era imputato, anche perché nessuno può essere processato due volte per lo stesso reato. Pare invero pretestuoso anche appellarsi all’ennesima legge ad personam: la norma che ha accorciato la prescrizione (da 15 a 10 anni, in questo caso) è del 2005, prima ancora del rinvio a giudizio e due anni prima che il processo, tra un rinvio e l’altro, cominciasse effettivamente. Significa, non fosse chiaro, che non è mai esistito il minimo dubbio - sin dall’inizio - sul fatto che sarebbe finita così: ci si poteva soltanto accapigliare sulla data precisa della prescrizione, ma non su di essa. Il primo novembre 2006, senza particolari doti divinatorie, lo scrivente la mise così: «L’ottavo rinvio a giudizio per Berlusconi su tredici tentativi non andrà a finire da nessuna parte: la prescrizione è pressochè garantita». Prescrizione che perciò non può certo definirsi un «incidente», e che pone dubbi retorici circa una giustizia che a fronte di tre milioni di arretrati butta via tempo e soldi e stipendi (quelli dei magistrati) per inseguire una prescrizione certa, un proscioglimento certo, e tutto per il puntiglio di toghe ad personam. Tra l’altro c’è il forte rischio che non sia ancora finita, visto che le difese paiono decise a impugnare la sentenza - per ottenere l’assoluzione piena - e così pure il pm ha detto che «valuterà» se ricorrere in Cassazione. La follia potrebbe continuare, insomma: ma qui meriterebbe un discorsetto personale il pm Fabio De Pasquale, se non fosse che ha la querela facile.

Occorrerebbe chiedersi, tuttavia, che cosa sarebbe di un pm come lui se fossimo negli Usa, laddove la carriera dell’accusa è commisurata ai successi che ottiene. De Pasquale, per dire, nei primi anni Novanta fu capace di mettere d’accordo l’intero Parlamento a margine di un’inchiesta sui fondi neri Assolombarda, quando l’intero emiciclo - sinistre e forcaioli compresi - respinse le richieste di autorizzazione a procedere per due deputati liberali e due repubblicani: l’intento del pm fu giudicato «persecutorio» dall’intero arco costituzionale. Poi ci furono le frizioni col Pool e in particolare con Di Pietro: litigarono per la gestione dell’indagato Pierfrancesco Pacini Battaglia (Di Pietro, accentratore, lo voleva tutto per sé) sino a un litigio furioso nel tardo settembre 1993, quando un certo latitante, Aldo Molino, sbarcò a Linate e si consegnò a Di Pietro nonostante fosse ricercato da De Pasquale. Volarono urla.

È lo stesso periodo in cui il pm condusse anche la chiassosa indagine sul regista Giorgio Strehler (chiese la pena massima, ma Strehler fu assolto con formula piena) e così pure l’indagine sui fondi Cee, roba con percentuali di assoluzione mostruose. Pochi ricordano quest’ultimo caso, eppure fu cornice di uno degli episodi più raccapriccianti del periodo di Mani pulite, stigmatizzato anche dal procuratore capo Francesco Saverio Borrelli: l’indagato Michele Colucci, socialista, fu ammanettato e trascinato nella calca dei giornalisti sinché svenne; in precedenza De Pasquale aveva ottenuto per Colucci il provvedimento addirittura del confino, soluzione adottata di norma per i mafiosi. Arrestato, le condizioni del detenuto sessantenne si fecero drammatiche (come svariate perizie mediche confermarono) ma l’atteggiamento di De Pasquale rimase durissimo, tanto che fece di tutto per farlo finire comunque a San Vittore anziché in ospedale. La figlia di Colucci, giornalista della Rai, fece un pubblico appello che fu raccolto da politici e da giornalisti anche noti, come Gad Lerner. Nonostante la ferocia dell’opinione pubblica di quel periodo, alla fine Colucci, da poco trapiantato di cuore, ottenne gli arresti domiciliari per quanto strettissimi. Dopo nove mesi di carcerazione detentiva, alla fine, il pericoloso criminale potè uscire: sarà assolto in Cassazione. Un altro successo di De Pasquale.

Poi c’è il noto caso di Gabriele Cagliari, celebre indagato di Mani pulite. Dai verbali del suo legale, Vittorio D’Ajello: «Il dottor Fabio De Pasquale, alla fine dell’interrogatorio, disse al Cagliari che avrebbe dato parere favorevole alla sua libertà, affermando espressamente rivolto al Cagliari: “Lei me l’ha messo in culo, ma io devo liberarla”». Gli ispettori ministeriali, senza punire il magistrato, conclusero: «Il dott. De Pasquale, con espressioni non consone, ha tenuto dei comportamenti certamente discutibili (...) soprattutto per avere promesso a un indagato che era in carcere da oltre centotrenta giorni, di età avanzata e in condizione di grave prostrazione psichica, che avrebbe espresso parere favorevole (...) e di avere invece assunto una posizione negativa senza però interrogare nuovamente lo stesso indagato, impedendogli, così, di fatto, di potersi ulteriormente difendere. È mancato quel massimo di prudenza, misura e serietà che deve sempre richiedersi quando si esercita il potere di incidere sulla libertà altrui». Cagliari si ammazzò in carcere, per chi non lo ricordasse: dopo che De Pasquale gli aveva promesso la liberazione e invece se n’era partito per le ferie estive, fra Capo Peloro e Punta Faro, Sicilia orientale. Poi via, verso nuovi insuccessi. Tipo quello di ieri.

ICI ATTACCO ALLA CARITA'

L'Ici alla Chiesa ha il sapore della vendetta
La questione  non è economica, ma nasconde un malcelato odio verso la Chie­sa
di Alessandro Sallusti - 27 febbraio 2012
Anche la Chiesa dovrà pagare l’ex Ici sugli immobili non di culto. Pare essere questa la notizia del giorno. Di più. L’enfasi con la quale viene raccontata e discussa pone la questione in una dimensione assoluta, quasi l’esenzione fosse stato il problema e la sua introduzione sia ora la soluzione della crisi del Paese.
  La cosa è ridicola. Il gettito previsto per le casse dello Stato è di circa 600 milioni, meno di quanto un singolo cittadino, Silvio Berlusconi, ha pagato in una contesa giudiziaria a un altro privato, Carlo De Benedetti.
 La questione quindi non è economica, la tassa non sposterà che di un millimetro il carrozzone dello Stato sulla via del risanamento. Tanto che i commenti sfumano l’analisi tecnica e trasudano invece di soddisfazione politica e culturale: nelle parole e nei ragionamenti c’è un malcelato odio verso la Chiesa e i suoi presunti privilegi.
Tutto questo sa di ingratitudine, e noi laici dovremmo sottrarci al coro laicista. In 150 anni, la Chiesa, nonostante sia stata inizialmente vessata e derubata dei suoi beni, non ha mai fatto mancare il suo contributo alla crescita dello Stato unitario, laico e spesso massone. Lo ha fatto a modo suo, per alcuni aspetti interessato, ma con una generosità senza eguali. Il suo compito era di salvare anime, ma già che c’era ha salvato e fatto crescere corpi, senza fare pagare tessere d’iscrizione e neppure chiedere preventivamente certificati di battesimo. In decenni nei quali lo Stato non arrivava praticamente da nessuna parte, milioni di italiani hanno imparato a leggere, scrivere, giocare a pallone, sono stati curati, aiutati e consolati senza pagare una lira. Ognuno di questi cittadini ha poi preso la sua strada, e i non pochi che hanno preferito non seguire quella dei Vangeli non hanno dovuto restituire nulla.
Negare o dimenticare questa storia è da disonesti. Io non sono sicuro che le nuove povertà domestiche e quelle importate con l’immigrazione non abbiano più bisogno di una assistenza extra Stato che uno Stato giusto debba in qualche modo compensare. Ma anche se così fosse, se i tempi moderni non giustificassero più una corsia fiscale privilegiata, si introduca pure l’Ici per la Chiesa, ma senza compiacimento o senso di rivalsa. Anzi,semmai con un grazie e un po’ di imbarazzo per il conto non pagato a dovere

DA IL GIORNALE

domenica 26 febbraio 2012

RATZINGER E GIUSSANI


CELEBRAZIONE DELLE ESEQUIE DI MONS. LUIGI GIUSSANI
OMELIA DEL CARD. JOSEPH RATZINGER
Duomo di Milano
Giovedì, 24 febbraio 2005


Cari fratelli nell’episcopato e nel sacerdozio,

"I discepoli al vedere Gesù gioirono". Queste parole del Vangelo ora letto ci indicano il centro della personalità e della vita del nostro caro don Giussani.

Don Giussani era cresciuto in una casa – come dice – povera di pane, ma ricca di musica, e così dall’inizio era toccato, anzi ferito, dal desiderio della bellezza e non si accontentava di una bellezza qualunque, di una bellezza banale: cercava la Bellezza stessa, la Bellezza infinita, e così ha trovato Cristo, in Cristo la vera bellezza, la strada della vita, la vera gioia.

Già da ragazzo ha creato con altri giovani una comunità che si chiamava Studium Christi; il loro programma fu di parlare di nient’altro se non Cristo, perché tutto il resto appariva come perdita di tempo. Naturalmente ha saputo poi superare l’unilateralità, ma la sostanza gli è sempre rimasta, che solo Cristo dà senso a tutto nella nostra vita, sempre ha tenuto fisso lo sguardo della sua vita e del suo cuore verso Cristo. Ha capito in questo modo che il cristianesimo non è un sistema intellettuale, un pacchetto di dogmi, un moralismo, ma che il cristianesimo è un incontro, una storia di amore, è un avvenimento. Questo innamoramento in Cristo, questa storia di amore che è tutta la sua vita era tuttavia lontana da ogni entusiasmo leggero, da ogni romanticismo vago; realmente, vedendo Cristo, ha saputo che incontrare Cristo vuol dire seguire Cristo, che questo incontro è una strada, un cammino, un cammino che attraversa – come abbiamo sentito nel salmo – anche la "valle oscura".

E nel Vangelo, nel secondo Vangelo abbiamo sentito proprio l’ultimo buio della sofferenza di Cristo, della apparente assenza di Dio, dell’eclisse del Sole del mondo. Sapeva che seguire è attraversare una "valle oscura", vuol dire andare sulla via della croce, e tuttavia vivere nella vera gioia. Perché è così? Il Signore stesso ha tradotto questo mistero della croce, che in realtà è il mistero dell’amore, con una formula nella quale si esprime tutta la realtà della nostra vita. Il Signore dice: "Chi cerca la sua vita, vuol avere per sé la vita, la perde e chi perde la sua vita, la trova".

Don Giussani realmente voleva non avere per sé la vita, ma ha dato la vita, e proprio così ha trovato la vita non solo per sé, ma per tanti altri. Ha realizzato quanto abbiamo sentito nel primo Vangelo: non voleva essere un padrone, voleva servire, era un fedele servitore del Vangelo, ha distribuito tutta la ricchezza del suo cuore, ha distribuito la ricchezza divina del Vangelo, della quale era penetrato e, servendo così, dando la vita, questa sua vita ha portato un frutto ricco come vediamo in questo momento, è divenuto realmente padre di molti e, avendo guidato le persone non a sé, ma a Cristo, proprio ha guadagnato i cuori, ha aiutato a migliorare il mondo, ad aprire le porte del mondo per il cielo. Questa centralità di Cristo nella sua vita gli ha dato anche il dono del discernimento, di decifrare in modo giusto i segni dei tempi in un tempo difficile, pieno di tentazioni e di errori, come sappiamo.

SOTTERFUGI E VIGLIACCATE


Anticlericalismo alla Monti

Renato Farina

ICI E CHIESA. L'unica cosa chiara per ora è l'effetto annuncio. Cioè, la Chiesa pagherà l'Ici o Imu, o quel che sia. Comunque pagherà. A questo punto alcune sparse osservazioni sono necessarie.

1. Il sotterfugio. Per impedire discussioni, che in fondo sono il sale della democrazia, Monti ha taciuto di questa decisione, tenendo segreto il testo. Emendamento infilato all'ultimo istante nel decreto sulle liberalizzazioni. Come dire. Non voglio problemi, meno se ne parla meglio è. Personalmente nutro una profonda stima nei confronti di Monti e non mi aspettavo un giochetto da vecchio giocatore di poker.

2. La vigliaccata. Monti ha detto testualmente che l'Ici fatta pagare alla Chiesa serve a far abbassare le tasse. Come dire: la Chiesa godeva di un privilegio ignobile. Tu pensionato pagavi più tasse per fare un piacere ai preti. Questo tipo di ragionamento di Monti è da falsario. Lo dico con durezza. Non si fa cosi. Non è proprio giusto.

3. Non è ancora chiaro che cosa la Chiesa dovrà versare e per quali edifici. Infatti, si dice che le strutture destinate ad attività commerciali verseranno d'ora in poi l'obolo allo Stato. In realtà anche il bar dell'oratorio, il negozietto dei rosari al santuario commerciano. Gli utili eventuali, irrisori peraltro, finiscono nel calderone di ciò che non è "destinato alla suddivisione di profitti, ma alla carità e all'aiuto sociale". Dovranno pagare l'Imu? Non si capisce. Di certo ci saranno contenziosi spaventosi. Chiuderemo gli oratori?

4. E gli asili? E le scuole? Non si capisce. Vendere magliette o la liquirizia fa sì che si debba pagare qualche migliaia di euro di Imu? Il tutto per far pagare meno tasse? Ridicolo. Demagogia. Anzi molto grave. È il ribaltamento del principio di sussidiarietà. Lo Stato diffida a prescindere da chi vuole fare. Del bene mettendosi insieme con altri. Qualcuno dice: ci sono alberghi lussuosi in mano a enti ecclesiastici. Che paghino, sia chiaro. Ma i convitti legati a parrocchie e a scuole o università?

5. Io resto dell'idea che, specie oggi, togliere denari alla Chiesa sia levare risorse ai poveri. Ovvio: guai a chi abusa, a chi ingrassa fingendo carità e in realtà lucrando sulle opere di bene. I lussi di certi prelati e di loro enti sono intollerabili (e ce ne sono). Ma non si possono punire gli ultimi per i vizi di qualche finto benefattore.

6. Mi colpisce molto, e deve far riflettere, che un documento per tutelare il no profit, che non sono solo le opere della Chiesa, sia stato firmato da personalità di sinistra come il vecchio tesoriere dei Ds, Ugo Sposetti. Occorre tutelare l'iniziativa gratuita di ci si impegna per un ideale. Qualunque sia la tradizione di riferimento. Ora pensare che si possano spremere 600 miloni o addirittura due miliardi di euro dalla Chiesa e dal non profit significa che si intende procedere a una spremitura pazzesca di risorse.

7. Vedremo come sarà in dettaglio il famoso emendamento. Se farà pagare anche un euro di tasse al mio oratorio sotto casa, o alla scuola libera fondata con tanti sacrifici, o al santuario di Caravaggio perché vende le candele votive nel negozietto, come deputato negherò la fiducia a Monti. E, se non mi vedono, gli taglierò le gomme della sua sobria auto blu.
sabato 25 febbraio 2012
LEGGI ANCHE

DIVORZIO BREVE


 Risé: una legge che rende "schiavi" i nostri figli

DIVORZIO BREVE. Ciò che tradizionalmente si intende definire “società” assume via via la parvenza di un pulviscolo indifferenziato. Le forme relazionali che di consueto si instauravano tra le persone sono, sempre più spesso, sostituite da temporanei e quasi accidentali interscambi tra singoli. Come leggere, altrimenti, l’ennesimo passo del Parlamento italiano nella direzione di favorire sempre di più non tanto la famiglia, quando chi ne ha una e vuole disfarsene? Ieri, infatti, la Commissione Giustizia della Camera ha completato l'esame degli emendamenti sulla proposta di legge relativa al divorzio breve. Tutte le correzioni sono state ritirate, salvo quella del relatore Maurizio Paniz che prevede la riduzione a un anno per il periodo di separazione prima di ottenere il divorzio (ora è di tre) mentre sarà di due anni in caso della presenza di figli minori. Cosa sta succedendo all’Italia (e al mondo)? Lo abbiamo chiesto a Claudio Risé.

Come interpreta la decisione della Commissione?

Mi sembra che la società occidentale si sia incamminata ormai da tempo, almeno dagli anni 70, sulla strada della precarietà dei rapporti tale per cui il rapporto breve viene reputato pratica normale, mentre quello di chi decide di impegnarsi per tutta la vita è valutato eccezionalmente.

E’ una posizione generalizzata?

Basta osservare la crescita dei divorzi che, seppur con delle variabili di Paese in Paese, è comune a tutto l’Occidente. Vi è, del resto, la tendenza prevalente ad agevolare i legami instabili a scapito di quelli duraturi.

La politica, in tal caso, registra una esigenza o la determina?

Le leggi - così come l’induzione provocata dai media - sono scritte anticipando le richieste di separazione e divorzi e, di conseguenza, le hanno provocate. La tendenza prevalente ad agevolare i legami instabili a scapito di quelli duraturi è stata una scelta ben precisa dei legislatori occidentali.

Quali effetti si riversano sulla società?

Abbiamo evidenze abbastanza ampie di disagi che coinvolgono, specialmente, i bambini, ma anche gli adulti. Vi è una variegata documentazione di tipo sociologico, psichiatrico, psicologico e clinico. Benché non vi siano statistiche globali dedicate, in grado di stabilire una correlazione specifica, disponiamo di una serie di studi, specialmente a livello nazionale e, soprattutto, provenienti dagli Usa, che ci consentono di indurre tale relazione tra legami deboli e patologie.

Ci spieghi meglio.

Sappiamo, ad esempio, che i figli cresciuti in famiglie senza padri sono in testa a tutte le classifiche di tutti i disagi psichici possibili. E che al moltiplicarsi dei legami deboli le malattie psichiatriche di ogni genere, dalle nevrosi alle psicosi, sono aumentate.

In sostanza, al di là delle patologie, indebolire i legami ha reso la gente più soddisfatta?

Non possiamo affermare “al di là delle patologie”. Quando esse diventano così diffuse, quando, ad esempio, l’Oms ci comunica che, entro il 2020, un quarto della popolazione mondiale sarà affetta da disturbi di questo genere, la patologia diventa modalità d’essere, non più relegabile alle casistiche cliniche.

Il matrimonio, laico o religioso, ha sempre rappresentano una tra le principali dimensioni di realizzazione di sé nel tempo. Tolta la caratteristica della durata temporale, cosa rimane?

La realizzazione di sé, oggi, è intesa in maniera essenzialmente individualistica; non solo dal punto di vista del matrimonio ma anche da quello degli altri legami sociali. La civiltà occidentale è fortemente de-socialitzzata, tutti i legami prevalenti, quali la famiglia, il quartiere, il gruppo, sono indeboliti. Di conseguenza i soggetti (sempre più individualizzati, cioè soli), tendono a individuare il proprio compimento nel successo economico, nella carriera, o nell’immagine che danno al mondo di sé. La coppia, intesa come modello provvisorio, è indicativa, quindi, di un nuovo modello sociale che è sempre più incline all’atomizzazione degli individui.
venerdì 24 febbraio 2012
(Paolo Nessi)

UNA NUOVA POLITICA?


è iniziato un altro film della storia politica del Paese?  Le letture "anti" o "pro" usate fino a ieri sono tramontate

Forza Monti? E perché no? L’incontro tra Silvio Berlusconi e il presidente del Consiglio conferma che è iniziato un altro film della storia politica del Paese e le letture «anti» o «pro» usate fino a ieri sono tramontate.
C’è un nuovo schema di gioco. Nell’istante in cui il Cavaliere è salito al Quirinale e ha consegnato a Giorgio Napolitano il timone della crisi, in quel preciso momento Berlusconi ha cominciato a scrivere un’altra sceneggiatura: non tornerà a Palazzo Chigi, sa che il suo partito, il Pdl, è in fase di trasformazione e probabilmente patirà una sconfitta alle prossime elezioni amministrative, ma è da questa consapevolezza che una storia politica ritrova il filo del discorso, è così che dopo l’uscita di un leader carismatico si evita di finire in un angolo della storia, cosa che accadde ai conservatori inglesi dopo l’addio di Margaret Thatcher a Downing Street. Appoggiare Monti oggi e trovare una soluzione condivisa anche per il domani facilita la transizione più che mai necessaria per tutti i partiti.
Lo stesso discorso vale anche per il Partito democratico di Pier Luigi Bersani. Non andrà da nessuna parte (o meglio, andrà contro un muro di titanio) se non affronterà e risolverà le sue contraddizioni. Il Pd deve decidere tra Essere e Avere. Essere un partito che ha una linea riformista, pronto a cogliere le sfide della contemporaneità; o Avere un volano con il sindacato della Cgil ma subirne i diktat, la visione di un mondo retrò che non corrisponde neppure alla realtà industriale. Bersani in questo scenario ora ha più difficoltà di Berlusconi. Il paradosso democratico è emerso fin dal primo momento in cui il Cav ha lasciato il governo. Proprio nella fase storica in cui il Pd poteva andare alle elezioni, vincere e tornare a Palazzo Chigi, un suo leader storico, Napolitano, si è incaricato di scrivere la parola «fine» sull’equivoco cominciato dopo la caduta del Muro. Il presidente della Repubblica ha chiare tre cose: il berlusconismo è nella fase finale, il Pd non ha la forza per governare e al sistema serve un atterraggio morbido e un salvataggio rapido. Per questo c’è Monti. Per questo Berlusconi lo appoggia e Bersani non può farlo cadere. È il traghettatore senza il quale i partiti restano in mezzo al fiume. E affogano.
di Mario Sechi
Tratto da Il Tempo del 23 febbraio 2012

giovedì 23 febbraio 2012

IL TESTIMONE GIUSSANI

Scola ricorda don Giussani
«L'uomo post-moderno

ha bisogno di testimoni»

Immagine pagina

D1. «Nessun uomo è padrone del suo soffio vitale tanto da trattenerlo» (Prima Lettura, Qo 8,8).
L’autore del Libro di Qoèlet, un “Predicatore” tristemente smaliziato vissuto all’inizio del II secolo a.C. che si immedesima con il re Salomone, indaga con crudo realismo la precarietà dell’umana esistenza. In particolare è scandalizzato dall’impossibilità di fare giustizia nella storia degli uomini: «Ho visto malvagi condotti alla sepoltura» - anche loro non sono in grado di trattenere il loro soffio vitale (Prima Lettura, Qo 8,10). Questo calcolato oblìo è intensificato dal fatto che «contro la cattiva azione non si pronuncia una sentenza immediata. Per questo il cuore degli uni è pieno di voglia di fare il male» (cfr Prima Lettura, Qo 8,11).
La profondità della constatazione («ho visto» è l’espressione che Qoèlet usa più volte) è pari solo alla sua straordinaria attualità. Qoèlet non si limita infatti a rilevare l’inevitabilità della morte che, come un rumore di fondo, accompagna la vita di tutti gli uomini. Neppure si ferma all’angosciosa domanda: «L’uomo infatti ignora che cosa accadrà; chi mai può indicargli come avverrà?» (Prima Lettura, Qo 8,7). Entra nel quotidiano della esistenza in cui si mescolano verità e menzogna, bene e male, giustizia e ingiustizia.
L’intreccio dei fattori in gioco gli consente di tessere la tela dell’umana vanitas. Chi di noi, qui convenuti, in preghiera, per rinnovare il paterno vincolo di comunione che ci lega al caro Mons. Giussani, può restare indifferente agli interrogativi angosciosi e alle amare constatazioni del Qoèlet? Infatti la Chiesa, Madre e Maestra, ci invita a leggere la circostanza che ci unisce attraverso questa santa azione eucaristica. La liturgia è la forma (il paradigma) della vita che illumina la realtà, trama di circostanze e di rapporti come Mons. Giussani amava definirla.
Vanitas afferma il Qoèlet, cioè inconsistenza. Inconsistenza del nostro umano essere e del nostro agire.


2. «Tuttavia so che saranno felici coloro che temono Dio… e non sarà felice l’empio» (Prima Lettura, Qo 8,12-13).
Riflettendo su ogni azione che si compie sotto il sole, Qoèlet incontra nel timor di Dio un legno a cui aggrapparsi nel vasto gorgo del male. Questo però non sembra liberarlo completamente dal rischio del naufragio, poiché «vi sono giusti ai quali tocca la sorte meritata dai malvagi con le loro opere, e vi sono malvagi ai quali tocca la sorte meritata dai giusti con le loro opere. Io dico che anche questo è vanità» (Prima Lettura, Qo 8,14).
Questa stretta del male che attanaglia il nostro io e fa sentire tutto il suo peso nel male del mondo, e di cui si parla a proposito e a sproposito in questi tempi di travaglio, non si può dunque sciogliere? Qoèlet anticipa il grido di Paolo: «Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?» (Rm 7,24).
Un aspetto geniale della proposta educativa di Mons. Giussani non è stato forse l’efficace riproposizione della verità cristiana che nessuno può salvarsi da sé?
La scelta di celebrare la Messa votiva del Santissimo Nome di Gesù nel VII anniversario della morte di Mons. Giussani e per ricordare il XXX anniversario del riconoscimento pontificio della “Fraternità di Comunione e Liberazione”- indica chiaramente la strada della salvezza offerta ad ognuno di noi e all’umanità intera.
Così infatti ci ha fatto pregare l’Orazione dell’inizio dell’Assemblea liturgica: «Per il Figlio tuo venuto tra noi hai scelto, o Dio, un nome che chiaramente lo manifestasse come salvatore del genere umano…». Il nome di Gesù significa “Dio salva”. Veramente Gesù ha sciolto l’enigma dell’uomo rivelandogli la sua consistenza. Essa si radica nell’amore con cui «Dio ci sazia fin dal mattino» e «rende salda per noi l’opera delle nostre mani» (Salmo responsoriale, Sal 90,14a. 17).


3. In Gesù la vanitas (inconsistenza) è vinta. «Adorno del nome mirabile che esprime salvezza» - dice il Prefazio - Gesù ci accompagna, riscattandoci dal nostro peccato. E il testo liturgico aggiunge, dettagliando con intensità: «Dolce e rasserenante certezza è la sua protezione nei pericoli della vita, e nel momento della morte il suo nome invocato è speranza e conforto».
Ogni cosa in Lui ha consistenza: «Omnia in Ipso constant» (Col 1,17). È importante meditare a lungo e piegare il nostro quotidiano vivere a questa convinzione. Ogni cosa significa tutto. Nel mistero glorioso del Verbum caro tutto è stato salvato perché tutto è stato assunto. Fin dai suoi primordi la tradizione della Chiesa ambrosiana ha trasformato il metodo dell’azione di Dio nella storia degli uomini (incarnazione) in una feconda proposta educativa. Ha così generato lungo i secoli figli consapevoli che “troppo perde il tempo chi ben non ama” Gesù.
Monsignor Giussani ha espresso questa sensibilità ambrosiana con forza profetica fin dalla fine degli anni ’50, educando all’assunzione integrale di ogni aspetto dell’umana esistenza. Per la logica dell’incarnazione il cristiano è colui che testimonia - in famiglia, al lavoro, nel sociale a tutti i livelli fino ad arrivare all’impegno politico - l’opera salvifica del Crocifisso Risorto.


4. Amici, l’azione eucaristica di questa sera pone ognuno di noi davanti ad un aut-aut che, a volte tacito e quasi impercettibile a volte prepotente, accompagna ogni nostra azione. Sotto la pressione del male, fisico e soprattutto morale, può prender peso anche nel cristiano la tentazione di pensare che tutto sia vanitas, inconsistenza. O il cristiano presume nei fatti di salvarsi da sé finendo talvolta come gli scribi per «cercare i primi seggi nelle sinagoghe» (Vangelo, Mc 12,38 e 39). Oppure la sua libertà cede all’amorevole sferzata del Salmo: «Tu fai ritornare l’uomo in polvere, quando dici: “Ritornate, figli dell’uomo”» (Salmo responsoriale) come ci ricorderà tra qualche giorno l’imposizione delle Ceneri.
Il ritorno, frutto del perdono, rende capaci di amore oggettivo ed effettivo. Come Qoèlet anche Gesù è un attento osservatore della realtà: «Seduto di fronte al tesoro, osservava …» (Vangelo, Mc 12, 41). La vedova, che ha gettato nel tesoro «tutto quanto aveva per vivere» (Vangelo, Mc 12, 44), mostra la forma piena della libertà del cristiano. In ogni azione egli è chiamato ad esprimere il primato di Dio nella sua vita. La vittoria sulla vanitas, la grazia della consistenza, sta tutta nel riconoscimento di Cristo presente che chiede il dono totale di sé. Memoria ed offerta esprimono in tal modo la pienezza affettiva cui ogni uomo anela e di cui il cristiano autentico può fare esperienza.


5. Il Vangelo di oggi ci offre un ultimo prezioso insegnamento. È contenuto in un piccolo passaggio narrativo, celato come una perla nelle pieghe del brano evangelico proclamato. «Chiamati a sé i suoi discepoli » (Vangelo, Mc 12, 43) Gesù li aiuta a comprendere il gesto della vedova.
Cosa traspare da questo gesto di Gesù? Il legame solido tra i membri di quella prima compagnia da Lui generata. Una parentela più potente di quella della carne e del sangue, una fraternità in cui si anticipa – come traspare nella Santa Eucaristia – la vita del Paradiso. Cristo chiama i Suoi a fare l’esperienza inaudita che la consistenza dell’io si chiama comunione.
Comunione come stima a priori per l’altro, perché abbiamo in comune Cristo stesso. Comunione disponibile ad ogni sacrificio per l’unità affinché il mondo creda. «L'espressione matura del condividere cristiano è perciò l'unità fin nel sensibile e nel visibile. Questa fu l'espressione del tormento finale di Cristo nella sua preghiera al Padre, quando in tale unità sensibile e visibile indicò consistere la decisiva testimonianza dei suoi amici» (L. Giussani, Il cammino al vero è un’esperienza, 52-53). Qui sta la vittoria sulla vanitas. Qui comunione è liberazione.
«La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo» (1Gv 1, 3b). Quando per grazia si diventa amici di Dio, la comunione sviluppa un irresistibile moto di condivisione della vita di tutti i fratelli uomini in ogni ambiente dell’umana esistenza. La gratitudine per avere tutto ricevuto genera gratuità nel tutto dare.


6. Carissimi, il carisma cattolico che lo Spirito ha dato a Mons. Giussani, che la Chiesa ha universalmente riconosciuto, e di cui decine di migliaia di persone in tutto il mondo possono oggi godere, è fiorito in questa santa Chiesa ambrosiana. L’amore che Mons. Giussani le portava è documentato da mille e mille segni e testimonianze. Per i fedeli di questa diocesi appartenenti al Movimento di Comunione e Liberazione questo dato di fatto costituisce una responsabilità che chiede di essere sempre rinnovata: praticare, nella cordiale assunzione del principio della pluriformità nell’unità, una profonda comunione con tutta la Chiesa diocesana che vive ad immagine della Chiesa universale. Questa comunione è con l’Arcivescovo, con i sacerdoti, con i religiosi e le religiose, con tutte le aggregazioni di fedeli, con tutti i battezzati e con tutti gli abitanti della nostra “terra di mezzo”.
L’Incontro dei Movimenti ecclesiali e delle Nuove comunità del 30 maggio 1998 con il Beato Giovanni Paolo II ha segnato un irreversibile passaggio a una nuova fase che gli eventi che si stanno producendo nel nostro Paese e nella Chiesa ha confermato.
Come ricorda incessantemente Benedetto XVI questo è il tempo della nuova evangelizzazione a cui tutte le realtà ecclesiali debbono concorrere in armoniosa unità.
L’uomo post-moderno domanda salvezza, consistenza: per questo ha bisogno di testimoni di quella forma bella del mondo (Ecclesia forma mundi) che è la santa Chiesa di Dio.


7. «Donaci largamente l’aiuto della tua grazia e assicuraci la gioia di trovare scritti i nostri nomi in cielo». Queste parole della Preghiera dopo la Comunione dicono la fonte della nostra letizia e della nostra speranza: la presenza di Gesù e il nostro esserGli familiari per il bene dei nostri fratelli uomini. Amen.



Cardinale Angelo Scola
22 febbraio 2012


mercoledì 22 febbraio 2012

UNA SFIDA DI FEDE


Lorenzo Albacete
 mercoledì 22 febbraio 2012
Via Crucis a Chicago 2005
Prima o poi dovremo affrontare le conseguenze delle nostre azioni o, come dice il detto, prima o poi tutti i nodi vengono al pettine. La settimana scorsa, l’immagine pubblica della Chiesa cattolica negli Stati Uniti era quella di un ovile invaso dalle pecore ritornate a casa. Penso ai frutti del tipo di educazione cattolica ricevuta dagli attuali leader cattolici, che sembra incapace di rispondere al confronto con il moderno secolarismo americano.

Si prenda in considerazione il dibattito sorto la settimana scorsa attorno ai commenti dell’ex senatore della Pennsylvania e attuale candidato cattolico nelle primarie del Partito Repubblicano, Rick Santorum, circa la affermazione del Presidente Obama di essere cristiano. In un’intervista televisiva di domenica scorsa, Santorum ha detto che non mette in discussione la fede di Obama e che crede che egli sia cristiano. Sembra però che ciò che lo turba sia il fatto che la politica del presidente non sia “basata sulla Bibbia”.

Mi chiedo come Santorum abbia capito la visione cattolica della relazione tra fede, Bibbia e politica, perché suona strano un simile commento da parte di un cattolico praticante. Per noi la Bibbia non è come il Corano. È la Parola di Dio, interpretata dal Magistero della Chiesa, che riflette e valida il riconoscimento da parte del popolo di Dio della presenza di Cristo come dell’Uno che è l’Incarnata origine, scopo e destino della creazione. Mi sembra che, secondo Santorum, invece di farsi guidare dalla Bibbia nelle sue azioni politiche, Obama l’abbia sostituita con una “falsa teologia”, non riconosciuta dalla maggioranza degli americani. Questa teologia fasulla si manifesta, afferma Santorum, nella visione del mondo che ha Obama, nel suo modo di affrontare i nostri problemi, diverso da come la maggioranza degli americani vede i problemi interni e internazionali e da come cerca di risolverli.
Santorum ha correttamente individuato che un cambiamento sta avvenendo nella vita americana, ma gli manca l’educazione cattolica per arrivare a identificarlo. Molti altri protagonisti cattolici nel governo, nella politica, nel mondo degli affari e nei media dimostrano la stessa mancanza. E ciò vale anche per il Presidente Obama. Basti pensare quanto potrebbe contribuire a un dialogo su, per esempio, il cristianesimo e l’attuale posizione americana circa la libertà, la coscienza o la libertà di religione.

Penso che Obama sia l’uomo nuovo creato dal moderno secolarismo americano, un tipo di nichilismo che non butta via la Bibbia, ma accoglie varie sue interpretazioni, come di altri “libri sacri”, per arricchire il panorama culturale con una diversità che serva come bastione contro pretese assolutiste. In effetti, questa è la posizione di molti cattolici nei circoli intellettuali attorno a Obama, che non conoscono altra via se non la separazione della fede dalla vita pubblica, abbandonando la prima all’ambito dell’opinione soggettiva o del fondamentalismo moralistico, e la seconda alla dittatura del relativismo.

Obama ha frequentato da bambino anche scuole cattoliche, ma era troppo presto per studiare la Dottrina sociale della Chiesa, che, comunque, non era parte integrante del programma della scuola cattolica. Magari, ora Santorum e Obama possono incontrarsi nell’ovile.

domenica 19 febbraio 2012

LE OFFESE AL VOLTO SANTO. DA QUESTA RIDICOLA FARSA EMERGE IL PROFUMO DEGLI AFFARI

FINANZIAMENTI PUBBLICI ALLA SOCIETAS RAFFAELLO SANZIO PER 290.000 EURO ALL'ANNO

IO STO COL CARDINALE CAFFARRA

Continua un grande brusio attorno a questa presunta “opera d’arte”,così definita dalle menti libere, liberate e illuminate, dai maestri del pensiero unico, dai radical chic, e incompresa da tutti gli altri ignoranti integralisti e indottrinati che parlano a vanvera, il popolino credulone, da guardare con sufficienza dall’alto al basso.



Fra questi c’è anche il Cardinale Caffarra, che proprio ieri ha detto che “siamo sdegnati e addolorati, come cittadini e come credenti. Come cittadini nel vedere che l’esercizio della libertà espressiva non conosce più neppure i limiti del rispetto dell’altro. Come credenti nel vedere inserito il Volto Santo in uno spettacolo indegno, offensivo, e obiettivamente blasfemo e sacrilego. Sacrilegio è anche trattare indegnamente i simboli sacri, così come la bestemmia si estende anche alle sante immagini”.


Benissimo, ognuno spende il suo tempo come vuole. E, mentre mi dispiaccio enormemente per quelli che spendono i loro soldi per un teatro così squallido, mi rallegro con il nostro regista poiché, alla fin fine, è il profumo degli affari (più che quello delle latrine) quello emerge da questa ridicola farsa. Questo è lo stupore vero, che gli incassi crescono, e che le istituzioni foraggiano. Perché non continuare ad approfittarne?

--------------------------------------------------------------------------------------------------------

DAL RESTO DEL CARLINO
TANTI SOLDI PUBBLICI ALLA SOCIETAS RAFFAELLO SANZIO

Contributi pubblici per 290mila euro annui
di Paolo Morelli

Cesena, 19 febbraio 2012 - SARÀ VERO che tutti gli artisti devono essere liberi, ma crediamo che tutti possano dire la loro sullo spettacolo di Castellucci, anche senza averlo visto, dato che quello stesso spettacolo lo paghiamo un po’ tutti.

Abbiamo fatto una ricerca, speriamo completa, arrivando alla conclusione che lo spettacolo ‘Sul concetto di volto nel figlio di Dio’ e tutta l’attività della Societas Raffaello Sanzio, la compagnia teatrale cesenate che lo mette in scena, è abbondantemente coperta da contributi pubblici, quindi anche da soldi che provengono dalle nostre tasche.

Lo scorso anno, per esempio, il Ministero dei Beni culturali ha contribuito all’attività della Societas con 183.520 euro, ai quali vanno aggiunti 70.186,32 euro provenienti dalla Regione Emilia-Romagna. In totale fanno 253.706,32.

Va detto che negli anni precedenti andava ancora meglio: la Regione ha stanziato per l’attività della Raffaello Sanzio qualche migliaio di euro in più (73.614 nel 2010 e 72.797 nel 2009), mentre dal Ministero dei Beni culturali nel 2003 riconobbe alla compagnia cesenate un contributo di 210.000 euro, e siccome l’anno dopo la Commissione consultiva per l’assegnazione dei contributi allo Spettacolo dal Vivo aveva deciso una riduzione di 16.000 euro provocando la reazione dell’onorevole Franca Chiaromonte e di altri otto parlamentari dei Democratici di Sinistra (Grignaffini, Carli, Capitelli, Giulietti, Martella, Sasso e Tocci) che il 25 febbraio 2004 presentarono un’interrogazione al ministro per i Beni e le attività culturali, protestando perché il contributo era stato ridotto a causa della relazione sui programmi della compagnia cesenate «più ideologiche che operativamente indirizzata alla specificazione di pratiche editoriali e di progettualità scenica».

Ma non è finita qui: il Comune di Cesena non dà contributi diretti alla Societas Raffaello Sanzio, ma gli ha concesso gratuitamente l’uso di parte dell’ex Istituto Comandini, adattato a struttura teatrale.

Qualche altro soldo, invece, arriva dalla Fondazione Emilia-Romagna Teatro, della quale il Comune è tra i soci principali, che per la stagione 2010-2011 ha assegnato alla Societas un contributo di 36.000 euro in cambio dell’effettuazione del Festival Mantica, di Puerilia (Festival di puericultura teatrale), di una rappresentazione di ‘Homo Turbae’ al Teatro Bonci e del laboratorio teatrale con le scuole ‘Basta! La voce Basta’.

Paolo Morelli

http://www.ilrestodelcarlino.it/cesena/cronaca/2012/02/19/670140-caso_castellucci.shtml

giovedì 16 febbraio 2012

DON GIUSSANI E L'ACCENTO UMANO DI CRISTO

Di Francesco Ventorino



In queste pagine don Francesco Ventorino presenta il suo libro Luigi Giussani, la testimonianza di un rapporto di amicizia vissuto per quarantacinque anni con il fondatore di Comunione e Liberazione, scomparso il 22 febbraio del 2005. Ventorino, già ordinario di Storia e Filosofia nei licei, è docente emerito di Ontologia e di Etica presso lo Studio teologico San Paolo di Catania. Intornoa lui, proprio a Catania, è nata la comunità siciliana di Cl, una delle prime realtà del movimento fuori Milano.

Questo libro, Luigi Giussani. La virtù dell’amicizia, che ha voluto essere come un rendimento di grazie a don Giussani, è la testimonianza di un amico, è il racconto di una storia, è la riflessione embrionale su una metodologia apologetica del cristianesimo, fondata su una concezione unitaria dell’uomo, dove fede e ragione sono amiche, anzi la prima è il compimento gratuito della dinamica dell’altra, dove soprannaturale e naturale si uniscono nell’unica destinazione dell’uomo storico, che è la visione di Dio. Ma soprattutto sulla convinzione che il cristianesimo non ha bisogno di altre ragioni o argomenti, per giustificare l’adesione ragionevole e libera dell’uomo, che se stesso. Infatti è nell’incontro cristiano che si palesa in modo immediato la sua corrispondenza a tutte le esigenze umane e si impone per la sua bellezza, cioè per lo splendore della sua verità. È per questo che – secondo don Giussani – all’origine della fede non ci sta un ragionamento, ma la grazia dell’avvenimento di un incontro.


Nel 2001, cioè pochi anni prima della sua morte, don Giussani avrebbe sintetizzato così il suo pensiero circa l’inizio della fede: «Non è il ragionamento astratto che fa crescere, che allarga la mente, ma il trovare nell’umanità un momento di verità raggiunta e detta. È la grande inversione di metodo che segna il passaggio dal senso religioso alla fede: non è più un ricercare pieno di incognite, ma la sorpresa di un fatto accaduto nella storia» (prefazione a All’origine della pretesa cristiana, Rizzoli, p. VI). Ecco perché il carisma di don Giussani è ultimamente irriducibile a qualsiasi concettualizzazione metodologica o teologica, perché esso consisteva nell’offrire nella sua umanità «un momento di verità raggiunta e detta», cioè nel rendere presente ed evidente nella propria umanità tutta la bellezza e la convenienza dell’essere cristiani.

Nel mio libro si narra la storia di un rapporto con lui nel quale fin dal primo momento c’è stata da un canto da parte mia la tentazione di “oggettivare” il suo metodo per gestirmelo poi “in proprio” e nello stesso tempo l’evidenza che questo metodo io l’avrei imparato soltanto dentro una sequela perenne nei confronti della sua persona. «Non un criterio da apprendere – avrei detto in seguito, riscuotendo tutta la sua approvazione – ma uno sguardo che non si finisce mai di imparare». È per questo che il mio rapporto con don Giussani è stato sempre caratterizzato da una drammatica tensione, di “resistenza e resa” che si sono alternate fino alla fine, fino alla resa finale.

Da questa “natura personale” del metodo cristiano, che lui era e che lui proponeva, deriva che esso non può essere tramandato se non attraverso la testimonianza di coloro che hanno vissuto con lui e che in qualche modo da questa familiarità sono stati segnati e recano nella loro carne i segni di una figliolanza che consiste nel portare in se stessi la stessa forza persuasiva del cristianesimo che era propria della sua umanità.

Il carisma – ripeteva spesso don Giussani – costituisce il nostro volto, il volto cristiano di ciascuno di noi, l’accento umano che ha preso il cristianesimo in ciascuno di noi e che in qualche modo costituisce la nostra personalità. Al carisma si possono applicare per analogia le parole di Hans Hermann Groër, che don Giussani ha fatto proprie: «Non esiste il cristianesimo, esistono solo persone che hanno incontrato Cristo» (L’attrattiva Gesù, Rizzoli, p. 8).

In questo senso il carisma è una “storia”, fatta da uomini che hanno affrontato la vita sociale ed ecclesiale con un gusto, un accento cristiano, che li ha resi originali protagonisti del loro tempo. La memoria di questa storia – lungi dall’essere un rifugio nostalgico nel passato – è condizione essenziale perché essa si ripeta originalmente nel presente e la fedeltà al carisma non si riduca, a lungo andare, ad un noioso citazionismo dei testi di Giussani o a una stucchevole analisi introspettiva, che ci si ostina a chiamare “esperienza”.



C’è un’ultima osservazione da fare. Concepito così il carisma ecclesiale, esso risiede in pienezza soltanto nel suo principio o nel suo fondatore. In tutti gli altri si riverbera secondo un’analogia che è misura di maggiore o minore partecipazione, come nelle diverse sfaccettature di un prisma. Esso pertanto si ritrova nella sua compiutezza soltanto in una comunione. Don Giussani diceva che lui aveva fatto il movimento con tutti quelli che Dio gli aveva fatto incontrare, nessuno escluso, anche se avvertiva che qualcuno di essi gli era stato messo come un bastone fra le ruote. Ma, riaffermava con convinzione, un movimento che escludesse uno solo di questi non sarebbe intero e perciò vero. Quante volte ho lottato con lui perché prudentemente ne escludesse qualcuno. Non c’è stato nulla da fare!


Via Crucis a Chicago
Non c’è comunione cristiana senza autorità, pertanto non ci sarà unità del movimento se non attorno a colui che di volta in volta sarà chiamato a succedere a don Giussani alla sua guida. Oggi costui, eletto secondo lo Statuto voluto dalla Chiesa, è don Julián Carrón. Ma la fraternità con le sue esigenze comunionali – come diceva don Giussani – deve essere la forma di ogni responsabilità all’interno del movimento, la «vera cellula creativa di tutto il movimento, a tutti i suoi livelli». Solo in questa unità di autorità e comunionalità sarà custodita la verità del carisma e sarà esaltata la forma che esso ha preso in ciascuno di noi e della quale ciascuno è personalmente responsabile.

http://www.tempi.it/don-giussani-e-l-accento-umano-di-cristo


MAYA UNA PROFEZIA CHE SI AVVERA

MAYA UNA PROFEZIA CHE SI AVVERA


di Vincenzo Merlo

Più passa il tempo e più mi convinco che, forse forse, i Maya ci azzeccano.

Il periodo che stiamo vivendo mi stupisce sempre di più, al punto da indurmi ad ipotizzare una dinamica astrale che farà del 2012 un anno di cambiamenti epocali. Se guardo al mio Paese, in particolare, non posso non registrare come tale congiunzione celeste stia provocando un colossale abbaglio collettivo, degno di aurore boreali e meccaniche celesti come raramente nella storia: un popolo intero si sta facendo gabbare, bocca aperta e occhi stralunati, come mai era successo prima.

Come dice il detto: "Cornuti, mazziati e... contenti!" Mi domando infatti a quale infimo livello sia precipitato il buon senso un tempo riconosciuto alla gens italica, incappata in questi mesi in un fraintendimento collettivo, che (come si diceva) non può che ricondursi ad un qualche sommovimento planetario, a tutt'oggi sconosciuto.

Riassumendo (per chi si fosse perso le puntate precedenti): in Italia, fino a tre mesi fa, avevamo un governo eletto dal popolo che era riuscito a resistere alla crisi globale meglio di altri; che aveva tolto l'odiosa Ici sulla prima casa, nonché la tassa di successione, e che era in procinto (crisi globale permettendo) di tagliare le aliquote Irpef alle fasce più deboli; che teneva la benzina sotto l 'euro e 50 e aveva stipulato vantaggiosi accordi di fornitura di energia, ipotizzando inoltre una ripresa del nucleare; un governo che aveva mitigato la crisi mondiale con una sapiente estensione della cassa integrazione (ciò aveva consentito a milioni di famiglie di sopravvivere in condizioni dignitose); un governo che aveva la migliore Protezione civile del mondo, in grado di ricostruire l'Aquila in pochi mesi, guidata da un leader riconosciuto a livello internazionale (Bertolaso), chiamato a gestire emergenze anche in altri Stati.

Ebbene, cosa ne è stato di questo governo e del suo Presidente? Incredibile dictu, lungi dall'essere ringraziato da un popolo evidentemente immemore, stolto e irriconoscente, Silvio Berlusconi è stato insultato in ogni dove, odiato come pochi, processato come un criminale prima sui giornali e sulle tv, quindi nei tribunali. Oggetto di una furiosa quanto menzognera campagna di odio e mistificazione, orchestrata abilmente dalle opposizioni e dai poteri forti, nazionali e internazionali, il governo Berlusconi è stato fatto cadere. Al suo posto, l'ex comunista Napolitano, in accordo con l'opposizione di sinistra-centro, le banche e i giornali da esse controllate, mette l'economista Mario Monti, amico dei poteri forti, già collaboratore della Banca "Goldman Sachs" e di organismi internazionali potenti quali "Bilderberg" e "Trilateral".

Ebbene, in tre mesi di governo Monti, la benzina e il gasolio aumentano di 30 centesimi, viene reintrodotta l'Ici sulla prima casa, viene aumentata l'Iva, la pressione fiscale raggiunge vette intollerabili (gli effetti nefasti su inflazione e disoccupazione non tarderanno a manifestarsi); viene allungata l'età lavorativa di due/cinque anni, vengono svilite le professioni, sotto l'aura delle cosiddette "liberalizzazioni". Tutto ciò comportando un peggioramento nelle condizioni di lavoro e della qualità della vita degli italiani che, in misura sempre crescente, portano all'estero i propri risparmi. Nel frattempo bastano pochi cm di neve per far comprendere che la Protezione civile non esiste più.

Queste misure "lacrime e sangue" vengono giustificate per "rafforzare" l'Euro e l'eurozona, moneta ed area economica lontane anni luce dalle attese e dalle speranze dei popoli che ne fanno parte (perché, ad esempio, i governi dei Paesi dell'U.E. e la stessa Commissione europea non fanno nulla per contrastare la concorrenza sleale cinese che, mettendo in ginocchio le nostre imprese medio-piccole, è il vero nodo della crisi globale che ci attanaglia?). Tanto che, lungi dal rafforzare la credibilità del nostro Paese sul piano internazionale, questo sta subendo i peggiori declassamenti degli ultimi anni.

Ebbene, di fronte a queste disgrazie politiche ed economiche, a questo massacro sociale, non dovrebbe un popolo serio cominciare a farsi sentire, a protestare? Nulla di tutto questo accade sotto i cieli italici di questo pazzo 2012. La cosa stupefacente è che le misure del governo Monti vengano invece salutate dalla "grande stampa", dai pennivendoli di regime e dai loro corifei, con espressioni quali "salutare scossa", "progressi impressionanti", "misure dolorose ma inevitabili". La stella di "superMario" si staglia cosi superbamente all'orizzonte da far quasi presagire il prossimo avvento dei Re Magi. La domanda, a questo punto, rimane quella iniziale: vuoi vedere che i Maya ci azzeccano?