venerdì 28 giugno 2013

CREPALDI: IL BENE COMUNE E' IL RISPETTO DELL'ORDINE DEL CREATO


«Leggi contro natura, dove sono i laici cattolici?»

di Stefano Fontana28-06-2013

 

Pubblichiamo l'intervista a monsignor Giampaolo Crepaldi, arcivescovo di Trieste, che esce oggi sul settimanale diocesano Vita Nuova, in cui offre un giudizio sulla realtà presente del laicato cattolico e il suo impegno nel sociale e nel politico.

Eccellenza, nella sua omelia per la chiusura della processione del Corpus Domini di domenica 2 giugno, lei ha avuto parole dure circa l’approvazione di leggi che possono «compromettere i capisaldi del nostro vivere umano: la vita, la famiglia e la nostra libertà». Ora, proprio quello dovrebbe essere il campo dell’impegno dei fedeli laici. Il suo discorso era un richiamo anche a loro?
Non c’è dubbio che questa dovrebbe essere l’ora del laicato. Ma purtroppo il laicato cattolico non si fa sentire. Magari lamentando poi che i Vescovi parlano troppo.

Perché, secondo lei, questa è l’ora del laicato?
Certamente ogni ora è l’ora del laicato, perché non c’è un momento in cui il laico non tragga dal suo battesimo il compito di ordinare a Dio le cose temporali. Però questa è l’ora del laicato in modo particolare. La politica e le leggi stanno mettendo mano all’ordine della creazione, alla natura della famiglia e alle relazioni naturali di base, quella tra padre e madre e tra genitori e figli. Si tratta di qualcosa di inedito e sconvolgente che richiede una presenza particolarmente convinta ed attiva.

Perché dice che il laicato cattolico non si fa sentire?
Sono molti i laici cattolici che nella famiglia, nel lavoro, nella società incarnano con fedeltà la propria fede cristiana. Ciò avviene però soprattutto nella quotidianità. Ciò che manca in modo evidente è una presenza unitaria e coordinata nella società civile e una testimonianza chiara e coerente a livello politico, legislativo e dentro le pubbliche istituzioni.

Eppure esistono vari organismi di rete tra cattolici e in passato sono stati in grado di portare in piazza con il Family Day moltissime persone. Non ci sono più?
Ci sono ancora, però bisogna prendere atto di alcuni mutamenti. Intanto alcune di queste reti si sono costituite ma non si sono consolidate, sono rimaste tali a livello formale di vertice e più di qualche convegno non potranno fare. In secondo luogo, mi sembra che alcune reti un tempo molto attive su questi temi – penso per esempio a Scienza e Vita oppure al Forum delle Associazioni familiari – abbiano un po’ allentato la presa, dirottando l’attenzione verso altre tematiche a mio avviso meno importanti. Infine, vorrei notare che anche dentro le singole associazioni e i singoli movimenti la presa di posizione sui temi che ho sopra richiamato è scarsa sia in sede nazionale che in sede locale.

Può spiegare meglio cosa intende quando parla di “testimonianza coerente a livello politico, legislativo e dentro le pubbliche istituzioni”?.
Nelle amministrazioni pubbliche ci sono cattolici dichiaratamente tali. Ma quando si tratta di affrontare questi temi, essi utilizzano le categorie mentali di tutti gli altri e si fanno scudo della laicità della politica per non prendere una posizione che certamente costerebbe loro sul piano politico, ma che io vedrei come coerente sul piano umano con la fede professata.

Una delle storiche associazioni di fedeli laici è l’Azione cattolica. Cosa mi può dire a riguardo?
Prendo spunto da un recente libro di Luigi Alici dal titolo “I cattolici e il paese. Provocazioni per la politica” edito da La Scuola.

Ma Luigi Alici non è più presidente dell’Azione cattolica…
Però lo è stato a lungo e può dirsi un intellettuale fortemente impegnato nell’associazionismo del laicato cattolico. Recentemente egli ha girato tutta l’Italia – è stato anche in Friuli Venezia Giulia ed anche a Trieste. Certo il suo libro non rappresenta l’Azione cattolica, però può essere indicativo di un modo di pensare, diffuso anche dentro l’associazione.

Cosa l’ha maggiormente colpita nel libro?
Il suo appartenere alla categoria dei libri “Sì, ma …”: affermare i principi nello stesso momento in cui si aprono fessure per non rispettarli. Ho cercato in questo libro le affermazioni di fedeltà al magistero e di adesione ai principi della tutela della vita o della famiglia: li ho trovati. Però l’esposizione è sempre volutamente ambigua, dice, ma nega ed è piena di “tuttavia”.

Può fare un esempio?
Alici ha parole molto belle sulla famiglia, ma poi si dice a favore del riconoscimento delle convivenze tra omosessuali. Si rifà al cardinale Martini, ma non ai Vescovi italiani che, in una Nota del 2007, hanno chiarito la questione. I diritti per le persone omosessuali vanno affrontati sul piano del diritto privato. Il riconoscimento della convivenza in quanto tale non è accettabile né per le cosiddette coppie di fatto eterosessuali né per quelle omosessuali. Manca il requisito della valenza pubblica.

Quali sono gli argomenti di Luigi Alici a proposito?
Quello della gradualità dei diritti. Secondo lui una coppia di omosessuali non ha diritto ad essere considerata famiglia in quanto non lo è, ma ha diritto ad essere considerata qualcosa di più di due studenti che condividono lo stesso appartamento. Una simile argomentazione non è accettabile: ciò che è sbagliato non può essere fonte di diritti pubblicamente riconosciuti, e non può esserci per esso nessuna gradualità.

Cosa significa questo?
Credo che questo libro esprima bene una certa cultura dentro il mondo cattolico. I laici che vi si ispirano sposteranno sempre più in avanti l’asticella del “non possumus”, adeguandosi al mondo.

Nel libro di Alici c'è il continuo rifarsi al “paradosso” cristiano che farebbe del fedele laico una persona continuamente combattuta al proprio interno e a cui solo la risposta della propria coscienza potrà indicare la via.
Il paradosso cristiano non va interpretato come un'insanabile contraddizione interna del cristiano, perché la fede e la ragione, come ci insegna la dottrina, vanno insieme e solo il peccato introduce la divisione. Quello di Alici è un modo per far sì che l’agire dei cattolici nella società e nella politica sia lasciato unicamente alla loro autonoma coscienza.

Alici sostiene che c’è un ambito di partecipazione politica non direttamente partitica in cui dovrebbe valere la collaborazione dei cattolici con tutti gli altri e un ambito strettamente partitico in cui vale la competizione. E’ d’accordo?
Non solo tra i partiti, ma anche nella società ci sono oggi antropologie in conflitto. Anzi, oggi si assiste alla competizione tra chi dice che non c’è una antropologia, una vera visione dell’uomo, e chi invece dice che c’è. In questi campi – penso alla cultura, all’animazione sociale, alla formazione dei giovani, alla comunicazione - non può esserci solo collaborazione. Smettiamola una buona volta di continuare a illuderci e a illudere su questo punto. Dialogo e rispetto non devono mancare mai, ma la collaborazione la si fa sulla verità.

Da cosa dipende tutto ciò?
Credo dipenda dall’aver cambiato lo scopo della presenza dei laici cristiani nel mondo. I laici hanno come scopo di ordinare a Dio l’ordine temporale – come dice il Concilio – o, in altre parole, di costruire la società secondo il progetto di Dio. Invece, lo scopo dei fedeli laici è stato ridotto a conseguire il bene comune, a costruire la democrazia, a realizzare la Costituzione, a far funzionare le istituzioni.

Perché l’obiettivo del bene comune non va bene?
Va bene, a patto però che in esso si faccia rientrare anche il rispetto dell’ordine del creato e il benessere spirituale e religioso delle persone. Non c’è vero bene comune quando Dio viene messo tra parentesi e quando a Dio non è riconosciuto un posto nel mondo.

L’Azione cattolica ha avuto una lunga storia. Qual è stato il suo momento critico secondo lei?
Lascio questo compito agli storici. Posso solo tentare qualche ipotesi. La cosiddetta “scelta religiosa” fu interpretata dagli uomini di Azione cattolica in modo ambiguo. Doveva comportare il concentrarsi sul proprium dell’Azione cattolica, quello che Benedetto XVI ha poi chiamato “il posto di Dio nel mondo”. E’ stata invece vissuta come un apparente disimpegno rispetto ad una presenza visibile e organizzata condannata troppo frettolosamente come preconciliare. Dico “apparente” perché – strano a dirsi! – da allora moltissimi dirigenti dell’Azione cattolica si impegnarono direttamente in politica, prevalentemente nei partiti di sinistra. Ultimo esempio è stato Ernesto Preziosi alle recenti elezioni politiche.

Allora a lei l’Azione Cattolica non va bene?
Io credo nell’Azione Cattolica, continuo ad esserne un sostenitore convinto e, a parte qualcuno e qualcuna, sono assai grato a quella diocesana per quello che fa e nutro grandi aspettative verso di essa. Credo però che l’Azione cattolica - sto parlando in termini generali - oggi abbia bisogno di riconsiderare la propria linea e il proprio ruolo. Ciò sarebbe di grande vantaggio non solo per la missione pastorale delle nostre Diocesi, ma anche per le altre forme di associazionismo dei fedeli laici.

In che modo?
Si tratta di essere fedeli, in maniera integrale e con generosità spirituale, all’insegnamento del Concilio Vaticano II: essere laici nel mondo per ordinarlo a Dio, mettendo in primo piano l'esigenza e l'urgenza dell'ordinarlo a Dio. Per l'Azione cattolica significa: recuperare la sostanza del proprio passato, anche di quello che oggi si ricorda con un certo inspiegabile disprezzo; recuperare la dottrina sociale della Chiesa in tutti i suoi sostanziali collegamenti con la dottrina cristiana; intendere la laicità nel modo che ci ha insegnato Benedetto XVI, cioè pensare che al mondo non bisogna solo adeguarsi se si vuole veramente servirlo; superare una visione inadeguata del Concilio, recuperandone tutto l’insegnamento dentro la tradizione della Chiesa e non le solite due o tre frasi adoperate in modo retorico; non minimizzare gli attacchi che oggi vengono portati alla natura umana e alla fede cristiana, accusando quanti cercano di reagire di voler ristabilire uno schema mentale integralista proprio del passato. La Chiesa ha un bisogno immenso di un'Azione cattolica così, che riprenda a formare laici capaci di costruire la società secondo il cuore e il progetto di Dio. Per questo continuo a pregare e a sperare...

OBIEZIONE DI COSCIENZA E ISTITUZIONI


Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuân25-06-2013
 

Le enormi pressioni a favore del riconoscimento delle convivenze e del matrimonio omosessuale, che assumono ormai le caratteristiche di una prepotente ondata che adopera ogni mezzo per imporsi, presentano un lato molto problematico su cui pochi riflettono. Quando sono le istituzioni a farsene protagoniste si pone il grave problema dell’obiezione di coscienza nei confronti delle istituzioni. La storia dell’impegno sociale e politico dei cattolici ha alle sue origini, alla fine dell’Ottocento, una tale obiezione di coscienza. Non si vorrebbe tornare a quella situazione, ma le spinte perché questo avvenga sono molto forti.

Card. Van Thuan
Le pressioni per la svolta radicale rappresentata dal matrimonio omosessuale sono molteplici e provengono da vari soggetti: associazioni della società civile, la stampa progressista che sistematicamente induce a confondere tra omofobia, che riguarda le persone, e opposizione al pluralismo familiare, che riguarda le leggi, potenti agenzie internazionali, infiltrazioni ideologiche dentro le agenzie delle Organizzazioni internazionali, ricchi centri di potere lobbistico e così via. Questo lo si sa.

C’è una lotta in campo e si tratta di combatterla. Tutto ciò non presenta un particolare problema, dato che le forze in campo sono riconoscibili e la partita è aperta. Il vero problema nasce quando a promuovere il matrimonio omosessuale, l’ideologia omosessuale e l’ideologia del gender, che ne è il presupposto culturale di fondo, sono le pubbliche istituzioni, nascondendo la loro propaganda dietro la presunta difesa dei diritti umani e la lotta alla discriminazione. In questo caso scatta qualcosa di particolarmente pericoloso che spacca il cosiddetto patto sociale e che può riportare i cattolici ad una opposizione di principio nei confronti delle istituzioni pubbliche. Sarebbe un grave danno per tutti.

Molti enti locali italiani hanno aderito alla RE.A.DY (Rete nazionale delle pubbliche amministrazioni anti discriminazione per orientamento sessuale e identità di genere). Gli obiettivi della rete contengono l’ambiguità di fondo tipica della cultura del gender, ossia considerano discriminatoria ogni posizione che faccia riferimento ad una dimensione naturale della famiglia e confondono tutto ciò con la negazione di diritti individuali a gay e lesbiche, ossia con la discriminazione. Sostenere, quindi, che una coppia gay non può avere il riconoscimento di una coppia eterosessuale sposata assume le caratteristiche di un atto di intolleranza. Le attività della rete in questione non si limitano quindi a diffondere un sentimento civile di rispetto, ma una precisa cultura dell’indifferenza sessuale (appunto, la cultura del gender) e quindi di distruzione del plesso procreazione-famiglia-filiazione. Si tratta di un vero e proprio stravolgimento fatto passare per semplice educazione alla tolleranza. Questa attività degli enti locali non si limita alle ricorrenze, come nel caso della giornata annuale contro l’omofobia, ma si struttura come continuativa, in raccordo con istituzioni scolastiche pubbliche, alle quali il comune o la provincia assicurano il patrocinio, i contributi con cui retribuire gli operatori, solitamente espressione delle associazioni gay e lesbiche, e la collaborazione. Spesso vengono anche progettate campagne mirate. In particolare sono oggetto di questa formazione culturale i corsi di educazione sessuale nelle scuole pubbliche. Non va dimenticato che non solo gli enti locali ma anche la scuola è, in una certa misura, una istituzione pubblica.

Fin tanto che a promuovere la cultura del gender è una associazione espressione della società civile si pone un problema di competizione nella società civile e niente altro. Quando però sono le istituzioni pubbliche che si fanno carico di trasmettere questa ideologia significa che un pensiero unico viene promosso con i sistemi della propaganda. Le istituzioni non devono fare propaganda e non devono discriminare, nemmeno quando vorrebbero lottare contro una presunta discriminazione.
L’obiezione di coscienza da parte dei cattolici e di quanti sono interessati alla verità è ormai applicata in vari campi. Quando però le istituzioni si comportano in questo modo, l’obiezione di coscienza rischia di doversi applicare alle istituzioni stesse. Se dalle istituzioni bisogna difendersi, anche con l’obiezione di coscienza e a proprio rischio e pericolo, allora il patto tra cittadini viene mano e le istituzioni non sono più “di tutti”. Studenti cattolici, famiglie cattoliche e cittadini cattolici in genere dovrebbero infatti fare obiezione di coscienza alle attività degli enti locali e della scuola pubblica di cui si parlava sopra.Questo, però, ci rigetterebbe indietro nel tempo e riaprirebbe ferite che si pensavano superate. Dopo la presa di Roma del 1870, i cattolici espressero un motivato rifiuto del nuovo Stato italiano. Si trattava di una obiezione di coscienza nei confronti delle istituzioni pubbliche di allora. In seguito, lungo i decenni e a prezzi anche molto alti, questa frattura fu in qualche modo ricomposta ed oggi il senso di appartenenza dei cattolici alla nazione italiana e la fedeltà alle istituzioni repubblicane è pieno, anche se rimane l’obbligo di obbedire prima di tutto a Dio. Se ora dovesse diffondersi e ulteriormente prendere piede questa deriva delle istituzioni pubbliche verso queste nuove intolleranti ideologie travestire da tolleranza, riemergerebbe per i cattolici l’obbligo morale di distinguersi da tutto ciò, di dividere le responsabilità morali, di dire che questo avviene “non in mio nome”. Sarebbe una grave frattura civile che l’Italia non può permettersi.

PREGIUDIZI E SCHEMATISMI SU PAPA FRANCESCO



FRANCESCO E UN CATTOLICESIMO POST-IDEOLOGICO (?)

martedì 25 giugno 2013

Non sono un professore di storia del cristianesimo in una prestigiosa università americana, né tanto meno teologo o filosofo di professione (e si vede, potrete dire).
Sono un sacerdote che ama la Chiesa: quella storica, concreta, reale; che cerca di vivere quotidianamente la missione, in questo nostro tempo, usando anche i mezzi della comunicazione sociale. Certo, sono mezzi interessanti, ma se sono vissuti e operati senza un soggetto reale diventano strumenti di omologazione e di ripetizione (cioè cinghie di trasmissione di un cieco potere, o del potere dell’ovvio… Direbbe il poeta Giusti “strumenti ciechi di occhiuta rapina”).
Ho letto l’analisi del professor Massimo Faggioli sul “cattolicesimo post-ideologico”, pubblicato su L’Huffington Post del 25 giugno 2013. Interessante, certo, ma analisi anch’essa viziata da quel ideologismo che vorrebbe combattere.
Sembra infatti che l’insegnamento del Papa (ora Francesco, ma prima di lui Benedetto XVI) sia passato al vaglio di una critica che ne analizza il pensiero rispondendo a domande che non sono del pensiero stesso, ma imposte da una osservazione pregiudiziale, quando non da uno schematismo superficiale.
Un metodo non ideologico presuppone che la via adeguata per la conoscenza sia indicata dall’oggetto stesso - in questo caso la natura di “magistero” che le parole (e i gesti) del Papa vogliono realizzare. Allora si troverebbe una continuità con l’insegnamento costante della Chiesa con l’intento dichiarato del Concilio Vaticano II (così come ben espresso dal beato Giovanni XXIII e ripreso continuamente dai papi, Papa Francesco compreso).
E potremmo allora elencare i punti di questa continuità dottrinale:
·         «Noi dobbiamo andare all’incontro e dobbiamo creare con la nostra fede una “cultura dell’incontro”, una cultura dell’amicizia, una cultura dove troviamo fratelli, dove possiamo parlare anche con quelli che non la pensano come noi, anche con quelli che hanno un’altra fede, che non hanno la stessa fede. Tutti hanno qualcosa in comune con noi: sono immagini di Dio, sono figli di Dio. Andare all’incontro con tutti, senza negoziare la nostra appartenenza.» [Papa Francesco, alla Veglia di Pentecoste 2013]

·         «Che cosa significa “perdere la vita per causa di Gesù”? Questo può avvenire in due modi: esplicitamente confessando la fede o implicitamente difendendo la verità… A voi giovani dico: Non abbiate paura di andare controcorrente, quando ci vogliono rubare la speranza, quando ci propongono questi valori che sono avariati;… questi valori ci fanno male. Dobbiamo andare controcorrente! E voi giovani, siate i primi: Andate controcorrente e abbiate questa fierezza di andare proprio controcorrente. Avanti, siate coraggiosi e andate controcorrente! E siate fieri di farlo!... Non portiamo con noi questi valori che sono avariati e che rovinano la vita, e tolgono la speranza.» [Angelus del 23 giugno 2013]

·         «Il vostro compito è certamente tecnico e giuridico, e consiste nel proporre leggi, nell’emendarle o anche nell’abrogarle». [Ai Parlamentari Francesi]

·         «Il fine dell’economia e della politica, è proprio il servizio agli uomini, a cominciare dai più poveri e i più deboli, ovunque essi si trovino, fosse anche il grembo della loro madre» [A Cameron, in occasione del G8]

·         «Ma c’è anche un’altra povertà! È la povertà spirituale dei nostri giorni, che riguarda gravemente anche i Paesi considerati più ricchi. È quanto il mio predecessore, il caro e venerato Benedetto XVI, chiama la “dittatura del relativismo”, che lascia ognuno come misura di se stesso e mette in pericolo la convivenza tra gli uomini.» (Al Corpo Diplomatico)


Una lettura non ideologica si rileva allora necessaria; quella stessa lettura che ci farebbe essere realizzatori coerenti del Concilio Vaticano II.
Ci attende un compito entusiasmante.

 


Fonte: CulturaCattolica.it

 

martedì 25 giugno 2013

giovedì 27 giugno 2013

DATECI L'UOMO, L'ACCUSA LA TROVIAMO NOI (ARCIPELAGO GULAG -MILANO)


Non bastava la disoccupazione, la crisi economica devastante, il governo di larghe intese tenuto insieme con il bostik, la Merkel, la Deutsche Bank, lo spread...

Ci volevano anche i giudici di Milano. Anzi, le giudichesse.

Vorrei domandare alle tre parche, che ieri hanno tessuto e tagliato il filo di Berlusconi, come fanno a sapere che il Cavaliere è stato a letto con Ruby, se ambedue gli imputati negano; in particolare (non è cosa di poco conto) lo nega proprio la bella marocchina. Le hanno messo una microspia tra le mutande?

Vorrei sapere come fa il Cavaliere ad essere un concussore, se le persone che dovrebbero essere concusse lo negano. I tre funzionari di polizia coinvolti, Ostuni, Morelli e Iafrate, parti offese del reato di concussione, non si sono costituiti parte civile e in aula hanno detto di aver agito normalmente «nell'interesse della minore», come ha sottolineato il commissario Iafrate.

Vorrei sapere come si fa a ipotizzare la falsa testimonianza per tutti coloro che in tribunale hanno preso le difese di Berlusconi (sono più di 30 persone!), mentre avrebbe valore solo chi sostiene l' accusa.

Bisogna avere un odio viscerale per l’imputato, per condannare in queste condizioni. Perfino l’antico diritto romano esigeva l’assoluzione nei casi dubbi: in dubio pro reo.

Ma le tre parche non hanno avuto dubbi: l’imputato era certamente Silvio Berlusconi; ergo, il massimo della pena, perfino oltre le richieste dell’accusa: un anno in più.

Non ho simpatie politiche per Berlusconi, e per la verità non ho simpatie politiche; la politica è sempre più una cloaca maxima. E la gente l’ha capito.

Ma voler eliminare una persona per vie giudiziarie, dal momento che non si riesce a farla fuori con il voto democratico, questo fa pensare ai tribunali speciali dei regimi rossi e neri.

I tribunali sovietici al tempo di Solgenitzin dicevano: “Dateci l’uomo, l’accusa la troviamo noi” (Arcipelago Gulag).

Sono vent’anni che processano l’uomo di Arcore, da quando “scese in campo” contro Occhetto e la sua “gioiosa macchina da guerra”, che finì tristemente.

Altrove i processi languiscono o non si fanno. Solo il tribunale speciale di Milano è a pieni regimi.

Anzi, a pieno “regime”.

DA

ANDARE CONTROCORRENTE


 Papa Francesco – ancora una volta – ha toccato le corde del nostro cuore, e ci ha appassionato a una fede lieta e coraggiosa. All’Angelus così ha detto:

Che cosa significa “perdere la vita per causa di Gesù”? Questo può avvenire in due modi: esplicitamente confessando la fede o implicitamente difendendo la verità… A voi giovani dico: Non abbiate paura di andare controcorrente, quando ci vogliono rubare la speranza, quando ci propongono questi valori che sono avariati;… questi valori ci fanno male. Dobbiamo andare controcorrente! E voi giovani, siate i primi: Andate controcorrente e abbiate questa fierezza di andare proprio controcorrente. Avanti, siate coraggiosi e andate controcorrente! E siate fieri di farlo!... Non portiamo con noi questi valori che sono avariati e che rovinano la vita, e tolgono la speranza.


C’è un fascino in queste parole di Papa Francesco che non possiamo edulcorare, annacquare. Toccano le corde più profonde del cuore, e segnano un cammino di vera speranza, di protagonismo, che solo la fede vera può suscitare.
Siamo stanchi di mezze verità, di slogan triti e ritriti, di coloro che sanno solo distruggere ogni barlume di speranza, ogni anelito del cuore dell’uomo. Siamo stanchi di tutti quei mezzi di comunicazione che hanno come unico scopo quello di demolire la Chiesa nel cuore degli uomini, impedendo al cuore di “volare alto”, come è nella sua natura (e vale per il cuore dei giovani e per il cuore giovane degli uomini autentici).
Bisogna fare piazza pulita di coloro che ci trascinano nei loro gorghi di insensatezza, che «ci rubano la speranza». Lasciamoli macinare i loro riti vecchi e le loro saccenti elucubrazioni. Basta con chi vuole «sussurrare» la verità: vogliamo chi ce la grida colla vita! Basta con le vuote analisi: cerchiamo testimoni che ci commuovano e che ci sappiano parlare (come don Pablo, il sacerdote dell’«Ultima Cima», che ha conquistato migliaia di cuori). E basta con chi decide per noi che cosa ci deve interessare, che fa del mestiere della comunicazione un filtro alla vita. Basta con
Repubblica, Fatto quotidiano et similia. Con gli atei agnostici e tutti coloro che godono nel distruggere la speranza, che sanno solo lamentarsi. Ma anche basta con quei tanti “cattolici” che svendono l’identità cristiana, che ci dicono che il peccato originale non è mai esistito come avvenimento reale, che riducono la Resurrezione di Gesù a qualcosa di immaginario o sentimentale. Basta con quei “cattolici” che ci fanno sentire in colpa, col complesso di inferiorità di fronte alla nostra storia.

Siamo con Papa Francesco: sappiamo andare controcorrente senza vergognarci, abbiamo il coraggio di essere noi stessi, diamo la vita per la verità. E soprattutto siamo invidiosi dei martiri che ci fanno capire che la vita per Cristo è la più bella delle avventure.


Fonte: CulturaCattolica.it

mercoledì 26 giugno 2013

LA MEDICINA TRADITA


La nuova Sparta ha ucciso i suoi musici, i suoi poeti, i suoi filosofi
 

Trisomia 21.
 
E’ il nome che indica la più comune anomalia cromosomica nell’uomo, quella che dà origine alla sindrome di Down. Tutti i bambini che ne sono affetti hanno un cromosoma in più, il 21, nel loro genoma.
E' stato il genetista francese Jerome Lejeune che ha scoperto quella minuscola fantasia del DNA e che ha dedicato tutta la propria vita a trovare la cura della malattia. “Troveremo – diceva – è impossibile non trovare. E’ uno sforzo intellettuale molto meno difficile che mandare un uomo sulla luna”.
 

Eppure l’uomo sulla luna c’è arrivato. La ricerca sulla sindrome di Down ancora continua con difficoltà e con pochi finanziamenti.
Ma un motivo c’è. Purtroppo la nostra società ha deciso che questa sindrome ha già la sua “cura”. Cito da Wikipedia, che esprime freddamente ciò che avviene: “la sindrome di Down può essere identificata in un bambino anche prima della nascita con lo screening prenatale. Le gravidanze con questa diagnosi sono spesso terminate”. E corrobora l’affermazione con fior fiore di studi e ricerche internazionali.

Il 90% delle diagnosi prenatali sfocia in un aborto che la legge chiama “terapeutico” ma che in realtà non cura proprio niente e sopprime il bambino con la sua particolarità. Dovrebbe chiamarsi aborto selettivo, perché con esso noi scegliamo di impedire la nascita di bambini affetti da una certa malattia. Ma si sa, ormai anche il linguaggio è diventato un’opinione e non rispecchia più la realtà delle cose. Si pensi quale ipocrisia nel chiamare i bambini affetti da un handicap come “diversamente abili”, per poi proporre l’aborto come “cura” per non avere figli diversamente abili.

E’ quella stessa ipocrisia che ha messo in luce recentemente James Parker, coordinatore della XIV edizione delle Paraolimpiadi di Londra 2012. “In Gran Bretagna – dice – ciò che è sbalorditivo è l’aver potuto aprire al mondo gli occhi sulle doti e sul potenziale delle persone con disabilità. Comunque, le leggi nazionali discriminano in modo veemente e scioccante ogni nuova vita nascente che possa essere affetta, anche solo eventualmente, da handicap fisici, problemi genetici o tare mentali”, ossia “quella che attualmente viene etichettata come qualità della vita inaccettabile”.
Un bel coraggio, questo cattolico inglese, a parlare di “leggi anacronistiche e discriminatorie sull’aborto”!

Ancora oggi continuiamo a scarificare al mito dell’autodeterminazione assoluta della donna, il paragone della nostra società con l’antica Sparta, dove il figlio “se era deforme e poco prestante” veniva gettato dal baratro presso Taigeto, “poiché né per se stesso né per la città era meglio che vivesse uno che sin dall’inizio non era giustamente disposto alla salute e alla forza” (come ci ricorda Plutarco). Ed è sempre Lejeune ad osservare: “di tutte le città della Grecia, Sparta è l’unica a non aver lasciato all’umanità né uno scienziato, né un artista e nemmeno un segno della sua grande potenza. Forse gli spartani, senza saperlo, eliminando i loro neonati malati o troppo fragili, hanno ucciso i loro musici, i loro poeti, i loro filosofi”.
Ecco, anche noi ci stiamo privando di nuova umanità, anzi stiamo tradendo la nostra umanità nell’attribuirci il diritto di stabilire cosa è normale e cosa no, cosa è degno di vivere e cosa no, se un “mosaico”, ossia un bambino che ha solo un po’ di cellule trisomiche, rientri nei canoni oppure no, ma i canoni di chi?

“Stiamo tradendo lo scopo della medicina che è quello di curare e non di diagnosticare e selezionare”. Con queste parole Lejeune si è giocato il Nobel. L’illuminata società scientifica l’ha emarginato.
Credo che meritasse (e meriti) ben più di un Nobel!




Fonte: CulturaCattolica.it

 24 GIUGNO 2013

ESERCIZIO IRRINUNCIABILE DELLA LIBERTÀ


 
“I più piccoli atti religiosi, eseguiti da ogni soggetto, saranno puniti”.

Era una delle sadiche regole del film “Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pier Paolo Pasolini. Il fotogramma estrapolato dalla pellicola mostra infatti una ragazza sorpresa a pregare la Madonna, sgozzata e lasciata sul pavimento. Una scena che rischia di passare quasi inosservata, confusa nel mare di amarezza e di fatalismo del sublime capolavoro pasoliniano. Perché il regista volle (stranamente oltretutto, trattandosi di Pasolini) porre l’accento sull’intollerabilità della religione da parte del potere?

Dopo quello che è successo in Francia la settimana scorsa, mi è più chiaro, e Pasolini oggi più che mai mi appare profetico.

Mercoledì 19 giugno, Nicolas B. - un ragazzo francese di ventitré anni, cattolico - è stato condannato a due mesi di prigione ferme (termine che vuol dire che te li fai per forza dentro) per ribellione, con comparsa immediata e mandat de depot (ovvero aspetti in prigione l’appello).

Studente di ingegneria all’università Cattolica di Parigi, Nicolas è uno dei fondatori dei Guardiani (i Veilleurs), movimento che unisce giovani, adulti, anziani che si ritrovano regolarmente sulla Place des Invalides a Parigi, la sera, per leggere testi religiosi e poesie. È il loro modo di protestare contro la legge Taubira. Protestano proponendo alla Francia ciò ciò di cui la Francia ha bisogno: poesia, bellezza, Dio.

Domenica 9 giugno, mentre Hollande era ospite di una trasmissione sul canale M6, Nicolas, insieme a un paio di migliaia di ragazzi, ha deciso di manifestare il proprio dissenso contro il Presidente davanti agli studi televisivi, à Neuilly sur Seyne.
Insieme ad altri mille e cinquecento.
Indossavano tutti la maglietta della Manif, l’indumento più temuto dal governo francese, perché mostra nel logo il profilo di un padre e una madre, con i loro due figli. Una famiglia, cioè il nemico numero uno per il potere. Il potere teme - da sempre - sostanzialmente due cose: la Chiesa e la famiglia.

I giovani si sono poi spostati (sempre con la massima tranquillità e senza turbare minimamente l’ordine pubblico) sugli Champs-Élysées, dove hanno trovato numerosi poliziotti ad attenderli; e a rincorrerli al grido “siete in arresto”:

«Sugli Champs siamo stati inseguiti, neanche stessimo cercando di svaligiare una banca», racconta un ragazzo di nome Albert, che ha filmato l’accaduto con il suo smartphone.

A quel punto, il nostro Nicolas si è rifugiato in una pizzeria, dove è stato però subito braccato, arrestato e caricato in un cellulare dagli agenti.
Per aver rifiutato di sottoporsi al rilevamento delle impronte e al test del DNA, è stato portato in commissariato.
Da allora non ha più rivisto la luce del giorno.

Nicolas è uno studente cattolico di 23 anni che passerà i prossimi due mesi in carcere.

La sua colpa?
Esercizio di libertà non gradito al potere. L’aver osato affermare che un uomo può aspirare ad altro, può desiderare altro, rispetto a ciò che il potere vuole e pretende di imporre. Nicolas si è concesso la libertà di esprimere un giudizio sulla realtà.
Il “dissenso”, come lo definiva Vaclav Havel, quella facoltà irrinunciabile di ogni individuo che da il diritto di alzare la mano e domandare ai governanti: “ma vi rendete conto di ciò che state facendo? Io non sono d’accordo”.
Fra le intenzioni del potere e le intenzioni della vita si spalanca un abisso sempre più profondo (sempre citando Havel). Ma il potere esige sempre più uniformità e disciplina, e la sua repressione assume metodi sempre più sottili e penetranti. Sono pochi i momenti in cui anche esso perde il controllo, e ci rivela il suo vero volto.

Quello Stato che in Francia è incarnato oggi da Hollande e i suoi ministri, autori della mostruosa legge Taubira, la legge sul matrimonio gay. Quei socialisti che si spacciano per interpreti di un principio di libertà, che invece - proprio tramite fatti come quello della condanna di Nicolas - si stanno rivelando per quello che realmente sono: la quintessenza del potere, puro e spietato. Incurante di calpestare i diritti e l’avvenire di un ragazzo poco più che ventenne.

L’incredibile vicenda di Nicolas è la prova lampante che il potere ha assunto una forma e una forza che quarant’anni fa non immaginavamo, ma che Pasolini aveva già pienamente intuito nel suo divenire inesorabile.


Il 19 giugno, la condanna: quattro mesi di prigione, di cui due, come abbiamo detto, ferme; con obbligo di restare in carcere in attesa del l’appello; il tutto sommato ad una multa di 1000 €.

Il reato? Ribellione e rifiuto di prelievo da parte delle forze dell’ordine. Assurdo.

Pochi giorni dopo i fatti di Parigi, a Lille un simpatizzante per il matrimonio gay ha aggredito una madre - una Veilleuse - con un coltello da cucina, tuttavia - una volta arrestato - è stato tranquillamente rilasciato dopo poche ore. (Égalité?)

Ludovine de la Rochère, presidente della Manif pour Tous, ha immediatamente alzato la voce nei confronti del governo francese. I socialisti, però, fanno orecchie da mercante e non commentano l’accaduto. Blindati dietro il più disgustoso e omertoso silenzio.

I cattolici sono un pericolo per il governo Hollande. Non è una novità questa.
Basta leggere le parole pronunciate nel 2008 da quello che è oggi il ministro della pubblica istruzione di Francia, Vincent Peillon. Lo stesso Peillon che ha preteso l’introduzione nelle scuole dell’insegnamento obbligatorio della “morale laica”.
Per lui ragazzi come Nicolas sono evidentemente una minaccia:

“Non si può fare una rivoluzione unicamente in senso materiale, bisogna farla nello spirito. La Francia ha fatto una rivoluzione essenzialmente politica, ma non ancora quella morale e spirituale. Abbiamo lasciato la morale e la spiritualità alla Chiesa Cattolica. Dobbiamo sostituirla. Non si potrà mai costruire una paese libero con la religione cattolica. Visto che non si può nemmeno più adattare (lett. acclimater) il protestantesimo in Francia, come han fatto nelle altre democrazie, è oggi necessario inventare una nuova religione repubblicana. Questa nuova religione deve essere quella laicità che deve accompagnare la rivoluzione materiale, ma che è (in realtà) una rivoluzione spirituale”.

Il soggetto che non si adegua a questa morale laicista, al potere, allo Stato va abolito, piegato, punito.
Va rinchiuso, condannato. Il dissenso non è ammesso. Chi mostra dissenso nei confronti della rivoluzione culturale della république non è un buon cittadino. Se potessero, Hollande e soci non esiterebbero ad eliminarlo, a vaporizzarlo, come diceva Orwell nel suo indimenticabile “1984”, dal quale estraggo un breve passaggio:
“Il potere non è un mezzo, è un fine. Non si stabilisce una dittatura nell’intento di salvaguardare una rivoluzione; ma si fa una rivoluzione nell’intento di stabilire una dittatura. Il fine della persecuzione è la persecuzione. Il fine della tortura è la tortura. Il fine del potere è il potere...
...Se vuoi un’immagine del futuro, immagina uno stivale che calpesta un volto umano... per sempre.” Per ora basta l’immagine di Nicolas. B. Francese, studente, cattolico.
 
Autore: Costa, Luca Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
Fonte: CulturaCattolica.it


 

lunedì 24 giugno 2013

LE SENTENZE SI RISPETTANO

LA GIUSTIZIA OGGI è diventata solo una finzione in cui non crede più nessuno.

La Giustizia è diventata solo un codice di legittimazione per cui tu ti senti in sintonia con il conformismo implacabile del resto della società.
Questo è il valore della frase che ripeti di continuo e che dice:" le sentenze non si giudicano ma si rispettano".

Probabilmente nessuno vuol sapere da te questo, nessuno se ne accorge anche se lo stai dicendo, perché la gente non vuole correre rischi. Ma perché tu lo dici? Perché sai che in questo modo mandi un segnale, un codice al potere, guardate che io sono una persona in regola che obbedisce a quello che è stato stabilito.

Il senso di questo messaggio è molto chiaro: io sono un suddito fedele (e pauroso) e per questo faccio quello che vuole il potere.

Quello che affermo è un valore che nessuno mi può contestare, non è un disvalore, e così io mi identifico con il potere, tramite l’ideologia, l’ideologia che ha questa funzione di elevare la realtà dell’abiezione, della miseria umana, della paura, a qualcosa di elevato, alla giustizia universale;
E questa ideologia che maschera tutto, che annebbia la mente e il cuore degli uomini, è la vita nella menzogna.

E' sempre più chiaro che il post-totalitarismo di cui parla Havel non è qualcosa che riguarda il passato, ma è un memento per l'occidente, per noi oggi, qui e ora, e che ci svela il nostro latente destino.

IL CROCEVIA

IL POTERE DEI SENZA POTERE

IL CROCEVIA
 
INTERVENTO DI
 
LUIGI GENINAZZI
CESENA 14 GIUGNO
 

Per me è sempre una particolare emozione parlare di Havel e del suo libro principale “Il potere dei senza potere”, soprattutto qui in terra romagnola, a Cesena, e non posso dimenticare che Don Francesco Ricci mi chiese poche settimane dopo che aveva pubblicato questo testo nel novembre del ’79, di presentarlo, non mi ricordo più se era a Imola o Faenza, comunque era da queste parti. Non potevo immaginare allora che da lì a pochi anni avrei avuto la grande fortuna di incontrare personalmente l’autore, e l’ho incontrato nel 1984, come inviato del settimanale “Il Sabato”, che era molto attento alla realtà dell’est e Havel era appena uscito da pochi mesi dal carcere, era stato condannato nel ’79, era uscito un po’ anticipatamente. Mi ricordo la grandissima difficoltà nello scovarlo perché mi trovavo a Praga, avevo il suo numero di telefono di casa, ma non rispondeva, e non rispondevano nemmeno i suoi amici, perché il telefono o non funzionava oppure era controllato dalla polizia, quindi preferivano non rispondere. Quindi dovevo andare in giro di persona e parlare con persone sconosciute, facendomi dare altri indirizzi, insomma alla fine ho saputo che Havel stava nella sua baita sui Monti dei Giganti, a Radacek nella sua casa di campagna, 200 km a nord di Praga, al confine con la Polonia, proprio su quei monti dove si era incontrato con i dissidenti polacchi negli precedenti la nascita di Carta 77. Quindi ho intrapreso questo viaggio, il problema era che vicino a casa di Havel, dove lui passava il mese di maggio, a scrivere, insieme alla moglie Olga, la polizia aveva costruito appositamente un'altra baita, il problema era non sbagliare per non andare a finire dai poliziotti. Per fortuna Havel era in giardino, mi è venuto incontro e mi ha fatto vedere questa casa dicendo che era il capolavoro dell’architettura socialista, costruita apposta per sorvegliarlo.
Era un intellettuale, timido, schivo, severo, dall’aria severa. Ripenso a quel pomeriggio, abbiamo chiacchierato per ore ed ore, ma vorrei ricordare questo, rispondendo alla sollecitazione di Spinelli che chiedeva appunto come questo libro è giunto in Italia, lui aveva saputo che il suo libro era stato tradotto, ma nessuno gli aveva chiesto l’autorizzazione, perché era impossibile, allora al di là della mia intervista, era lui che mi faceva delle domande, ed era molto interessato a sapere chi, come mai, aveva avuto questa idea, ovviamente era molto contento che fosse uscito, anche se lui non poteva averne dato l’autorizzazione. Io gli parlai di Don Francesco Ricci, questo contrabbandiere di libri, tra est ed ovest, che tutti qui abbiamo ancora nel cuore, che aveva avuto questa geniale intuizione e mi ricordo che gli dissi che era stato stampato nella collana “Out Prints”, questo neologismo inglese, io l’ho ancora l’edizione del 1979, letteralmente “stampato fuori”, diceva Don Francesco: scritti proibiti nel paese in cui sono stati pensati e pubblicati, quindi fuori, ma anche scritti che traggono la loro linfa da un terreno fertile fuori dalla coltura dominante in occidente, scritti per la verità dell’uomo, pensieri per altre possibilità, qualcosa di altro, di diverso, non solo per il cupo e repressivo regime comunista, ma anche per la società consumista, per la nostra società gaudente occidentale, e ho trovato Havel nettamente in sintonia con questa cosa. Per i più giovani, per quelli che non conoscono Havel mi permetto di dire molto brevemente da dove veniva questo personaggio che poi diverrà improvvisamente il capo della nuova Repubblica Cecoslovacca, nel 1989. Era figlio di una famiglia borghese, e già per questo bollato, emarginato dal regime comunista che prese il potere dopo le elezioni libere, ma poi fecero un golpe nel 1948, e quindi Havel non poté accedere all’università. La sua passione per il teatro, in generale per la cultura, per la riflessione sull’uomo, l’ha portato avanti da uomo libero, non professionalmente, per mantenersi lavorava in un birrificio, e vorrei farvi notare, se qualcuno non l’ha capito che questo è Havel, negli anni ’70 infatti si porta un sacco di malto, appunto credo in questo birrificio, in cui ha ambientato anche alcuni dei suoi drammi è interessante il suo giudizio nel ’68, sulla Primavera di Praga, su questo tentativo di creare da parte di Dubcek, dei cosidetti socialisti riformisti, un socialismo dal volto umano. Lui disse che quel movimento non toccò il nocciolo della struttura del sistema, era dentro il sistema, una critica quindi molto forte. Pensate che questo giovane intellettuale costretto a lavorare in un birrificio, nel 1975, nella Cecoslovacchia ormai un po’ depressa senza speranza dopo la repressione dei carri armati sovietici nel 1968, osò indirizzare una lettera aperta al Presidente della Repubblica del Partito Comunista Gustáv Husák. E dice: “Dietro la facciata posticcia ed enfatica dei grandi ideali umanistici, si nasconde la modesta casetta di un borghesuccio socialista.” - parole dure, scritte apertamente - “Si nasconde la vuotezza ed il grigiore di una vita ridotta alla ricerca affannosa dei beni di prima necessità. Ma una tale situazione non può che condurre alla perdita dell’orizzonte assoluto e alla crisi dell’identità umana.”
È questo che assilla Havel e tutti quelli che con lui danno vita a Carta 77. Cos’era Carta 77? Un movimento di dissidenti, ovviamente, ma la parola dissidente non piace tanto a loro, per primo ad Havel, era soprattutto una compagnia, ci sono dei filmati in cui si vedono appunto come vivevano, cene, momenti conviviali, riunioni, discussioni, gite, una compagnia insomma, un amicizia, una vita nella verità in cui ognuno era se stesso e parlava di se stesso. È questo il contesto per farvi capire da dove nasce questo libro, che vi invito a leggere se ancora non lo avete fatto, perché non sono solo riflessioni sue, ma sono riflessioni di tutto questo gruppo, “Il potere dei senza potere”.
Mi raccontava Havel quando l’ho intervistato che mentre l’ha scritto nel 1978 era strettamente sorvegliato e aveva il terrore che venisse scoperto e portassero via quello che scriveva che ogni tanto, mi diceva, andava nel bosco, lo faceva ancora adesso, e portava i fogli scritti e li nascondeva dietro la corteccia di un albero, per paura che i poliziotti qua vicino, i miei cari vicini (come li definiva) venissero un giorno e mi portassero via tutto. Quindi pensate al clima in cui è stato scritto questo libro. Qual è, ed è l’ultima cosa che mi permetto di dire, la cosa centrale di questa sera, qual è il contenuto di questo libro. Spinelli un po’ l’ha già spiegato, l’ha già introdotto in vari elementi. Io vorrei sottolineare due cose: la prima è che Havel parla di post-totalitarismo e non di totalitarismo, che cosa vuol dire, post-totalitarismo non vuol dire qualcosa di più morbido, di qualcosa che è successivo alla dittatura. No. È un tipo diverso dalla dittatura che abbiamo conosciuto nei regimi comunisti, con Stalin e con gli stalinisti, cioè il regime che usa la forza bruta e che usa l’ideologia con un furore rivoluzionario, in cui tu devi credere all’uomo nuovo che sta costruendo il sistema socialista, l’uomo nuovo che sta costruendo il partito, e se non ci credi, sei subito messo da parte, discriminato, e se osi dire qualcosa processato e poi condannato alla prigione. No adesso non c’è più bisogno della forza brutale e l’ideologia è diventato solo una finzione in cui non crede più nessuno, neanche il capo del Partito Comunista, come diceva già nella lettera aperta a Husák del ’75. Diventa solo un codice di legittimazione per cui tu ti senti in sintonia con il resto della società. Questo è il valore del famoso cartello del racconto dell’ortolano, del verduraio, che mette fuori il cartello “proletari di tutto il mondo unitevi”, probabilmente nessuno lo guarda, nessuno se ne accorge perché la gente va lì per comprare frutta e verdura, mica per leggere. Ma perché lo mette?, Lo mette perché sa che in questo modo manda un segnale, un codice al potere, guardate che io sono una persona in regola che obbedisce a quello che è stato stabilito, praticamente un segnale di sudditanza. Havel nota acutamente il senso di questo messaggio è molto chiaro io sono un suddito fedele e pauroso e per questo metto fuori questo cartello come vuole il partito. Quel cartello con quella frase è un valore che nessuno mi può contestare, non è un disvalore, e così io mi identifico con il potere, tramite l’ideologia, l’ideologia che ha questa funzione di elevare la realtà dell’abiezione, della miseria umana, della paura, a qualcosa di elevato, alla fratellanza universale, è questa ideologia che maschera tutto, che annebbia la mente e il cuore degli uomini, è la vita nella menzogna. Cosa succede quando l’ortolano ad un certo punto dice io questo cartello non lo metto più fuori. Allora se ne accorgono tutti, nota Havel, chi va a comprare che prima non lo notava, adesso nota che manca qualcosa, perché anche chi va a comprare deve mettere quel cartello lì dove lavora, nell’ufficio, nella fabbrica dove lavora, allora si rompe qualcosa, rompe questo muro, vive nella verità, parla di se stesso, l’uomo viene fuori, l’uomo messo tra parentesi dal sistema, viene fuori con il suo volto. Ecco potremmo parlare a lungo di cosa ha significato questo per il regime comunista, ma la cosa più interessante di cui ci dovrà parlare Monsignor Negri, e non per nulla abbiamo chiamato lui, è di cosa vuol dire questo oggi, perché non è che noi davanti a questo libro, come protremmo fare con un testo qualsiasi scritto 50 anni fa diciamo è stato scritto allora, adesso cerchiamo di tirarne qualche conseguenza per noi, possiamo farla con Aristotele come con un autore dell’ottocento. No. È l’unico brano che voglio leggervi, abbiate pazienza. È lo stesso Havel che dice che quello che scrive non vale solo per il regime comunista, vale anche per l’occidente, e questa intuizione incredibile della vita nella menzogna e della vita nella verità.
Questo vasto adattamento della vita nella menzogna  - scrive Havel, pagina 53, per chi vuole andare a vedere – questa facile diffusione dell’autototalitarismo sociale – una definizione complicata ma da il concetto di un totalitarismo che ognuno impone a se stesso, perché Havel toglie l’idea che c’è di individuo sacro e puro che è contro il potere, se c’è un sistema così vuol dire che l’individuo è convivente, l’ortolano è convivente - allora questo vasto adattamento alla vita nella menzogna non corrisponde forse alla ripugnanza dell’uomo, nella società dei consumi a sacrificare qualcosa delle sue sicurezze materiali per amore della propria verità spirituale morale, non è questo una specie di memento per l’occidente che gli svela il suo latente destino.
Nell’intervista gli ho chiesto di questo legame con l’occidente ed ecco cosa mi ha detto: Guardi anche se di colpo sparissero dalla faccia della terra i sistemi totalitari non per questo il mondo sarà liberato dal rischio di un potere anonimo che opera al di fuori di ogni criterio di verità. Cos’è il comunismo, è uno specchio convesso dell’occidente, voi vi vedete un immagine deformata di noi perché siamo un po’ buzzurri, un po’ autoritari, grotteschi, ma è l’immagine vostra, un po’ deformata, è la tendenza profonda che opera nella civilizzazione occidentale, questo potere anonimo che non si cura, anzi nega la verità dell’uomo.