mercoledì 28 agosto 2013

PACIFICAZIONE



Il golpe legale e quelle necessarie larghe intese contro la vecchia magistratura politicizzata

Perché pacificazione 

Da Mani pulite in poi. Storia del patto scellerato (e inconfessabile) tra la politica, le procure e i giornali che i politici di oggi fingono ancora di non vedere 

L’obbligatorietà dell’azione penale genera mostri; il più colossale, e vergognoso, dei quali – che ha, di fatto, trasformato la nostra Repubblica in una Repubblichetta delle banane nelle mani di caudilli in toga – è la distinzione, che una parte della magistratura fa, quando apre un fascicolo su qualcuno, fra “chi non sapeva”, che è ontologicamente non colpevole (innocente in se stesso), e chi “non poteva non sapere”, che è teoricamente colpevole (per deduzione accusatoria). E’ con la (legittima) autonomia e indipendenza di cui giustamente gode – ma anche, diciamolo, con discrezionalità e arbitrarietà spesso extra legem e contro ogni senso comune – di propendere per l’una o per l’altra delle due interpretazioni che essa tiene sotto permanente ricatto chiunque ed esercita il suo dominio sul paese. La politica, a sua volta, per viltà e quieto vivere, ha abdicato alle proprie funzioni.
D’altra parte, non saremmo il paese che siamo se la parte della magistratura politicamente radicale e impegnata non godesse di certe complicità fra gli stessi soggetti ricattabili. Diciamola, allora, tutta. Tangentopoli e Mani pulite non sono state (solo) l’auspicabile lavacro di un paese allora devastato dalla diffusa corruzione, ma (anche, e soprattutto), al riparo della legalità, un golpe, il sovvertimento di ogni ordine costituzionale, legale e politico razionale. Il “controllo di legalità”, che qualcuno, adesso, vorrebbe addirittura assegnare alla magistratura inquirente, è il modo col quale ogni regime illiberale tiene sotto il proprio tallone la propria popolazione e sovrintende ad ogni zona grigia nei comportamenti regolati dalla moralità individuale e da principi etici universalmente riconosciuti nei paesi di più matura democrazia liberale. Il controllo di legalità sarebbe l’ultimo passo verso il totalitarismo di un cammino già da tempo in corso.
Come ha scritto Guido Carli, un ex presidente della Confindustria (!), nelle sue memorie, il mondo degli affari aveva compensato l’ingresso dell’Italia nella Comunità europea, e l’apertura del suo mercato alla concorrenza esterna, con la complicità col mondo della politica e la diffusione della corruzione; di fatto, le tangenti avevano cancellato il mercato interno e ogni possibilità di corretta concorrenza. Con Tangentopoli e Mani pulite, la magistratura aveva cercato di fare piazza pulita del malcostume imperante ma – per le ambizioni politiche, o la vanità, di alcuni dei suoi stessi esponenti – ne era stata, a sua volta, coinvolta e politicamente inquinata. Non c’era alcun uomo d’affari che, per la natura stessa delle sue attività, non avesse qualcosa da nascondere al principio di legalità. Chiunque, perciò, avrebbe potuto finire nella rete di Mani pulite e potrebbe ancora cadere sotto la mannaia del “non poteva non sapere”. Dipendeva (dipende) unicamente dall’obbligatorietà dell’azione penale e dal conseguente incontrollato potere discrezionale, leggi arbitrarietà, di cui la magistratura disponeva e dispone. Né ne era esente alcun partito politico, come avrebbe detto Bettino Craxi in un memorabile discorso alla Camera nel 1993. Ma nessuno gli aveva dato retta; Dc e Pci avevano pensato di potersene tenere fuori e di guadagnarci persino in reputazione e voti; Craxi sarebbe morto in esilio, cui l’aveva condannato l’accusa, peraltro da lui stesso confessata in Parlamento (!), che “non poteva non sapere”; il Partito socialista, con tutti gli altri, era stato spazzato via a vantaggio di uno solo, il Pci, che avrebbe cambiato nome per la bisogna e per opportunismo, ma non avrebbe mai vinto le elezioni, né riflettuto su se stesso e la propria storia.
Nacque, così, tacitamente una sorta di pactum sceleris fra il mondo dell’informazione – di proprietà di quello degli affari non sempre esente da qualche peccato, piccolo o grande che fosse – e la parte della magistratura interessata a sovvertire gli equilibri politici esistenti e a portare al governo il Partito comunista che ne era rimasto fuori per i suoi rapporti con l’Unione sovietica dalla quale aveva ricevuto sostegno finanziario, peraltro senza che a nessun magistrato fosse mai venuto neppure in mente di aprire un relativo fascicolo sul caso. “Voi – dissero i media a magistrati ormai più interessati a cogliere e a mettere a frutto la portata sovvertitrice dell’alleanza che veniva loro proposta e ad accrescere il proprio potere che ad amministrare la giustizia – tenete fuori da Mani pulite i nostri editori e noi vi aiutiamo a mettere le mani, e a far fuori, i loro concorrenti e ad attribuire tutta la responsabilità della corruzione alla politica; fidatevi, sosterremo la vostra azione”. Fu ciò che puntualmente avvenne.
Dietro la parvenza di un’informazione “civile”, e legalitaria, si consumò la condanna dello stato di diritto, si realizzò la trasformazione dell’Italia in un paese nelle mani di una magistratura inquirente e di un sistema informativo che ignoravano l’Habeas corpus e istruivano processi e comminavano condanne sulle pagine dei giornali prima che a farlo fossero i tribunali. I giornalisti che si occupavano di vicende giudiziarie diventarono il megafono delle procure e, dalla santificazione di un uomo ambiguo come Antonio Di Pietro, acquistarono, a loro volta, un potere di pressione nei confronti dei loro stessi direttori. La cui permanenza al proprio posto, da quel momento, sarebbe dipesa dal grado del loro rispetto del pactum sceleris e dallo spazio dato a scandali e ruberie senza, però, che se ne spiegassero le ragioni intrinseche alla estensione dei poteri pubblici, come, in realtà, era. Spuntarono i direttori di professione, uomini d’ordine – che passavano, indipendentemente dalla loro linea politica, da una testata all’altra, come i questori passano da una città all’altra col compito di evitare disordini – per i quali la linea editoriale era quella fissata dal pactum sceleris.
Il giornalismo entrò in coma e, poco per volta, morì per carenza di pensiero; forse, per la natura dei rapporti di produzione capitalistici, direbbe Marx, non era mai stato libero e indipendente come qualche anima candida aveva preteso fosse; ma, almeno, fino a quel momento, aveva conservato una accettabile funzione informatrice e, in se stessa, liberatoria e una parvenza di dignità rispetto a quello dei paesi di socialismo reale. Di questo ha via via assunto la funzione, invece di darle, di nascondere ai lettori le informazioni e le idee non gradite al regime, mantenendoli in uno stato di permanente ignoranza e soggezione. Ad esso sta progressivamente assomigliando sempre più, senza che nessuno, né editori, né giornalisti mostri di accorgersene e di preoccuparsi. E, poi, si dice – senza aggiungere a quali, ad evitare anche solo di alludere al pactum sceleris – che gli italiani sarebbero incapaci di mantenere fede ai patti.
di Piero Ostellino da il foglio quotidiano

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