sabato 2 novembre 2013

LA SCOMMESSA DI DON GIUSSANI

Fede, ragione e vera felicità
 
Nella cupa Italia delle ideologie, insegnava a valorizzare la persona e tornare alle radici del cristianesimo: una lezione dimenticata da alcuni suoi seguaci
«Fin dalla prima volta che lo vidi mi stupì il suo carisma: emanava un'energia che potevi toccare con la mano. Non ho mai provato con nessuno quella strana sensazione del vibrare del corpo insieme con la voce. Avevo sentito tanti oratori straordinari – per esempio, Togliatti o Terracini, Vittorini o Fortini -, ma nessuno di loro può essere paragonato a Giussani».
Il poeta Franco Loi, ateo e marxista razionalista, incontrò più volte don Luigi Giussani nei primi anni '60. Non ne condivideva le idee e, anzi, trovava «troppo enfatico il modo di esporre la religione e, in generale, il suo pensiero». Eppure rimase a lungo affascinato: «Ti invitava dentro di sé e ti faceva vibrare a tua volta».
Esistono persone toccate dalla grazia. Che portano in loro qualcosa di più grande. Persone che quando entrano in una stanza, in un'aula, un posto qualsiasi, imprimono un'accelerazione al corso delle cose. Affascinando. Scompaginando. Don Giussani era dotato di una personalità travolgente ma sensibile. Impetuosa e lucida ad un tempo. Contagiosa, eppure rispettosa della libertà altrui. «Diceva già allora», ricorda Loi, «che non si capisce Dio se non si capisce fino in fondo cos'è l'uomo».
A più di otto anni dalla morte, mentre è in corso il processo di beatificazione, ce lo restituisce più che mai vivido la ciclopica biografia prodotta da Alberto Savorana che ha avuto il privilegio di vivere a lungo a fianco del fondatore di Comunione e Liberazione. A lettura completata, un po' della gratitudine nei confronti del don Gius che tracima in quest'opera risale dal lettore verso l'autore. Quello scelto da Savorana era l'unico modo di scrivere la Vita di don Giussani (Rizzoli, 1354 pagine, euro 25). Cercare tutto; raccogliere e, per quanto possibile, ordinare tutto: testimonianze, scritti, appunti, fotografie, nastri e video, registri delle scuole elementari, carteggi con compagni, teologi, cardinali, qualche papa, giudizi dei professori del seminario, taccuini e libri sottolineati, cartoline spedite agli amici. L'unico modo per consegnare al presente e al futuro, preservandolo da riduzioni e interpretazioni, la ricchezza di una figura così. Teologo, predicatore, poeta, filosofo, educatore perché amante dell'uomo. Soprattutto testimone di quell'amore a Cristo di cui il suo cuore vibrava: «È la vita della mia vita, Cristo».

Ma leggendo e rileggendo le testimonianze dei seguaci del movimento e dei tanti che lo hanno incrociato, alla fine non si trova incipit più illuminante la sua esistenza di quello pronunciato il giorno del funerale nel Duomo di Milano dall'allora cardinale Ratzinger: «Don Giussani era cresciuto in una casa povera di pane, ma ricca di musica, e così sin dall'inizio era toccato, anzi ferito, dal desiderio della bellezza». La madre Angelina è di educazione cristiana, mentre il padre Beniamino, di cultura socialista, gli trasmette la passione per l'opera lirica, Beethoven, Donizetti, il Preludio n.15 di Chopin altrimenti conosciuto come La goccia. Dopo averlo sentito decine di volte, coglie all'improvviso quella nota nascosta e martellante sotto la melodia in primo piano. «Così è la vita!». L'uomo è percosso dalle cose che lo attraggono istintivamente e che gli piacciono. Ma il cuore di tutto sta in quella nota profonda che diventa una fissazione: il desiderio della felicità, comune a ogni essere. Sgorga da qui il personalismo cristiano di Giussani. Dostoevskij, Pavese, Pasolini, Peguy, Pascoli, Claudel, certi cantautori, i grandi teologi von Balthasar e De Lubac diventano compagni di strada in una ricerca tanto intensa quanto entusiasmante. Attraversato da una profonda nostalgia del bello, Leopardi è il più intimo (Giussani mantenne il proposito giovanile di ripetere ogni giorno qualcuna delle sue poesie): «Di qua dove son gli anni infausti e brevi/ Questo d'ignoto amante inno ricevi», recita il verso finale di Alla sua donna. Questo inno, questo grido trova risposta nel primo capitolo del vangelo di Giovanni, spiegato in seminario dal professor Gaetano Corti: «Il verbo di Dio, ovvero ciò di cui tutto consiste, si è fatto carne. Perciò “la bellezza s'è fatta carne, la verità s'è fatta carne...”». Giussani ha quindici anni, ma quello è il suo «bel giorno», l'inizio di tutto. «L'istante, da allora, non fu più banalità per me», commenterà in seguito.
La razionalità della fede, il nesso diretto, senza soluzione di continuità, tra il bisogno dell'uomo e l'iniziativa di Dio, la concavità dell'essere umano e la convessità del Padre che viene a riempirla facendosi uno di noi: tutto diventa chiaro. E tutto sarà uno sviluppo del senso religioso, testo sacro del personalismo cristiano del don Gius. Il quale, continuava Ratzinger in quell'omelìa, «non si accontentava di una bellezza qualunque, di una bellezza banale, cercava la Bellezza stessa, la Bellezza infinita; così ha trovato Cristo, in Cristo la vera bellezza, la strada della vita, la vera gioia».
Negli anni Sessanta, mentre il Paese è galvanizzato dal boom economico e la Chiesa è ferma a divieti e prescrizioni, un prete brianzolo parla di Gesù Cristo partendo da Leopardi e Chopin. Il fascino è irresistibile anche per coloro che non lo seguiranno, da Massimo Fini a Claudia Mori, da Gherardo Colombo a Giuliano Pisapia, da Aldo Moro a Claudio Risè solo per citarne alcuni. Ma per tanti lo è anche quello dell'ideologia. La contestazione esplode proprio dalla Cattolica. E il nascente movimento patisce la difficoltà «di abbordare un problema dal punto di vista di Cristo». Se ne vanno molti, attirati dalla rivoluzione.
E Giussani annoterà la differenza: il cristiano è un soggetto «rivoluzionato in principio», non si muove partendo da un progetto, ma «da una rivoluzione che è accaduta dentro di lui e che anima e suggerisce i suoi progetti». Cioè, «Gesù Cristo è qualcosa che vien prima, non nasce dalle nostre operazioni».
Al cristiano tocca solo testimoniarlo, riverberarlo come può partecipando di una compagnia che lo educa, la Chiesa, perché vive di Lui. «Noi siamo nati non per rispondere alle emergenze», osserva nel 1994: «Siamo nati per dire che è venuto Cristo. Pensavo a questo andando al Berchet la prima mattina», nel lontano 1954. E più tardi, pochi mesi prima di morire, riflettendo su ciò che scaturì dall'intuizione di quei giorni, in una lettera scritta a Giovanni Paolo II scriverà: «Non solo non ho mai inteso “fondare” niente, ma ritengo che il genio del movimento che ho visto nascere sia di avere sentito l'urgenza di proclamare la necessità di ritornare agli aspetti elementari del cristianesimo, vale a dire la passione del fatto cristiano come tale nei suoi elementi originali, e basta».
Così oggi, se il primo sentimento è di gratitudine, il secondo possibile è la nostalgia, un che di rimpianto per non aver sfruttato al meglio l'opportunità di una vicinanza così feconda. Tanto più se si riflette sul fatto che, negli anni, l'opera successiva dei suoi, soprattutto nell'atto di affacciarsi all'impegno civile e alla politica, è parsa a volte ben meno limpida e travolgente della sua. Tuttavia, è certo che il ripiegamento e la rinuncia non sarebbero una risposta che lui approverebbe. Ma la certificazione che la sua educazione non s'è completata. Perché il campo, l'agone dell'essere è la vita stessa con tutte le sfide del presente. Incontrandolo di recente, Juliàn Carron, suo successore alla guida di CL, si è sentito dire da papa Francesco che l'aver conosciuto il movimento a Buenos Aires negli anni '90 fu per lui «aria fresca» tanto da portarlo a leggere i testi di don Giussani perché «vi trovava quello che serviva alla sua vita cristianA.
 
Maurizio Caverzan –Il Giornale on line Mer, 30/10/2013


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