giovedì 7 novembre 2013

PIETA' IN QUESTO OSPEDALE DA CAMPO


«Pazienza. Non siete venuto qui, signore, per essere torturato. La vita è lunga qui. Occorre un’infanzia e un’educazione, una giovinezza e un insegnamento, una maturità curiosa del giusto peso delle cose e una lenta vecchiaia innamorata della tomba. (…) Se tu sapessi quali cose l’uomo sa dire a Dio quando la carne dell’uomo si fa grido, grido di Dio che adora se stesso!»(O. Milosz, Miguel Mañara)

Simone D., 21 anni. Si è suicidato nella notte tra sabato e domenica. Nel comprensorio Pantanella a Roma si è gettato nel vuoto dall’undicesimo piano. Venticinque metri di volo.
Etero? Gay? Non fa differenza. Non fa differenza, no.
Un quintale di peso nel cuore è sempre un quintale, ed è zavorra che spinge giù giù fino alla morte.
Può essere la morosa che ti molla, la perdita del lavoro, l’omosessualità, una malattia, o tante ragioni tutte insieme… che differenza fa, se il peso è un quintale e ti blocca il respiro, e un solo minuto in più, così, sembra insopportabile.

Van Gogh, Il Samaritano
Si chiama Simone, da vivo e da morto. Ha un nome. E non è, quel Simone, le tre lettere che scrivono i giornali: “gay”. E’ molto di più.
Tutti i suicidi sono molto di più. Più del concorso che non hanno superato, più del lavoro che hanno perso, più di quel brutto voto a scuola, o una bocciatura. Più dell’orientamento sessuale, della morosa che li ha lasciati, dei problemi che annebbiano la vita…
Ma voi continuate a farli, i vostri cortei in Gay Street a Roma, le marce che vi fanno sentire in pace con la coscienza. Continuate a chiedere la mobilitazione in piazza, voi, buoni. A dire che è colpa dei cattivi, gli omofobi, se un giovane si è gettato nel vuoto, dall’undicesimo piano. Dagli all’untore! Una passeggiata, il coretto di slogan e poi tutti a casa. Ognuno per sé e il morto per tutti.
Continuate a fare comizi, a scrivere articoli in cui di tutto si parla ma Simone non c’è: non c’è la sua vita, la sua storia. Non c’è condivisione del suo peso nel cuore: la zavorra che l’ha portato giù giù fino alla morte.
Nel tritacarne dell’ideologia Simone D. non è più quel Simone, unico e irripetibile. E’ “un gay”. Roba da pallottoliere: un numero per la causa.
Si voti questa legge contro l’omofobia e non se ne parli più. Noi buoni vi avevamo avvisati: senza legge ci saranno altri morti. Eccone uno. Applaudite. Avevamo ragione.

Fatele, le leggi. Contro l’omofobia, i cuori infranti, la disoccupazione, le frustrazioni, le malattie incurabili che istigano a farla finita. Novelli Pilato. Una legge è la strada più breve per lavarsi le mani di fronte al male di vivere che non distingue tra i sessi e non guarda l’età.
Ci sarà, com’è giusto, un’indagine, e se in questo e negli altri casi di suicidio dovessero esservi delle responsabilità è bene che vengano a galla e punite. Ma per lui e per gli altri, per chi finisce sui giornali e per chi vive e muore solo e non è degno dei flash perché non rientra nelle categorie che fanno audience, nessuno si senta a posto. Possiamo credere davvero che una legge acquieti il cuore di chi – maschio o femmina, etero o gay, non fa differenza – un giorno decide di andare incontro alla morte perché crede di non avere (più) ragioni per vivere?

In memoria di Simone e di tutti i suicidi – etero o gay non fa differenza – questo articolo è per chi resta.
Vite ci passano accanto e non sappiamo nulla di loro (nemmeno la famiglia, pare, era a conoscenza del guazzabuglio nel cuore di questo giovane universitario. Ed era il figlio, e viveva in casa… Nemmeno gli amici. Per tanti suicidi è così: nessuna avvisaglia.)
Di fronte al dolore ci è chiesto di esserci, non di fare comizi o di stare a guardare. E non serve nemmeno scendere in piazza, dopo.
«Io vedo con chiarezza che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia», ci ha detto Papa Francesco. Questo, ci chiede. Esserci. Piccole matite di Dio. Spuntate, anche. Pazienza. Questa morte, e le altre, sono domanda per noi. Domanda che brucia.
Chi ha una zavorra nel cuore ci guarda e ci chiede non chiacchiere. Non leggi nuove. Chiede di imparare il giusto peso da dare alle cose. Chiede buone ragioni per vivere.

Dentro la fatica, il dolore, la malattia. Dentro la frustrazione, la sconfitta, la vita che a volte non va come vorremmo, noi, che speranza abbiamo?


 

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