giovedì 27 febbraio 2014

CIO' CHE CONVINCE E' LA BELLEZZA

Il prete di cielle che ama Francesco e tenta di spiegarcelo
Storia straordinaria di un cappellano ottantenne delle carceri che è anche pastore e filosofo, e della sua passione inesauribile per la società, per i deboli, per un cristianesimo forte: don Ciccio Ventorino
“Ho letto ai miei detenuti le parole che il Papa aveva loro inviato attraverso i cappellani delle carceri: ‘Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore, nessuna; Lui è lì, piange con loro, lavora con loro, spera con loro; il suo amore paterno e materno arriva dappertutto’… Ho visto prima i loro occhi segnarsi di lacrime e alla fine sono stato coinvolto nel loro applauso caloroso e grato. Quegli uomini in quel momento hanno ritrovato il senso vero della loro dignità, quella che nessuna colpa potrà mai cancellare. Ecco l’ospedale da campo di cui l’uomo ha bisogno, nel quale sentire curate le proprie piaghe da una presenza amorevole quasi fisica, da quella ‘fisicità’ che Papa Francesco concede attraverso la sua persona a tutti”.

Da un anno don Francesco Ventorino è cappellano del carcere di Piazza Lanza a Catania. E lui che nella sua lunga vita di sacerdote ha fatto di tutto, il prete di periferia e il professore, l’autore di saggi di teologia e l’iniziatore del movimento di Comunione e liberazione in Sicilia e di cento altri inizi, quando parla della sua esperienza in carcere l’impressione che ti investe è quella di un inizio nuovo, di nuove vite. L’ultima avventura, o l’ultimo avvenimento di Grazia di questa sua missione, direbbe lui, l’ha raccontato lui stesso qualche giorno fa sull’Osservatore Romano, in prima pagina. E’ il matrimonio celebrato dietro le sbarre di un detenuto che ha voluto “dare alla sua donna la dignità di sposa”, e ai suoi figli “la coscienza di appartenere a una vera famiglia”.
E’ l’anno del Sinodo della famiglia, la comunione ai divorziati e le famiglie patchwork sono problemi concreti e di soluzione teorica non semplice per la Chiesa. Don Ciccio, così lo chiamano tutti, racconta che basta andare in un luogo come il carcere, per certi versi specchio fedele del mondo che sta fuori, per accorgersi che la famiglia, il matrimonio come indissolubile sacramento e tante altre cose – di quelle che in teoria pertengono alla vita “normale” – per la maggior parte delle persone non sono più niente. Semplicemente non ci sono più. E allora, don Francesco come Papa Francesco si domanda: da dove si ricomincia? Dalla predicazione della morale? Ascoltare don Ciccio vale più di tanti ragionamenti.

A un anno dall’elezione, il meno che si possa dire è che Papa Francesco sta riavvicinando alla Chiesa moltissime persone, attratte dalla sua grande umanità e dalla sua fede. Sta trasformando il volto della Chiesa, per alcuni forse troppo. E’ davvero “troppo”?
“Credo che l’intenzione che ha mosso il nuovo Papa fin dall’inizio del suo ministero petrino, dichiarata poi nell’intervista rilasciata al direttore della Civiltà Cattolica, padre Antonio Spadaro, è stata quella di mostrare una Chiesa capace di ‘riscaldare il cuore’ della gente con la sua misericordia. Nella misericordia splende, infatti, in modo particolare l’amore di Dio: è quella bellezza che commuove e convince, che ha la capacità di attrarci attraverso il visibile all’invisibile. E’ il misterioso scopo e metodo dell’Incarnazione. La bellezza – denunciava Von Balthasar – ‘non è più amata e custodita nemmeno dalla religione. Se essa viene strappata come una maschera al suo volto, mette allo scoperto dei tratti che minacciano di riuscire incomprensibili agli uomini’. Raramente mi era capitato nella mia lunga esperienza sacerdotale di sentire penitenti o carcerati citare il Papa. Quest’uomo è riuscito ad avvicinarsi alla loro vita e alla loro umanità in modo talmente significativo e determinante che, per esprimere se stessi, essi usano le sue parole nelle quali si sentono perfettamente compresi”. E tutto questo, prosegue Ventorino, “a causa anche di una efficacia particolare che c’è nel suo modo di comunicare: parole chiave che sintetizzano dottrina e conseguenze etiche, immagini che si imprimono nella mente e aiutano la memoria e soprattutto gesti, tanti gesti. Non credo che questo vada a scapito della integrità e della radicalità della proposta cristiana, piuttosto ne evidenzia l’essenziale. Nell’intervista citata il Papa disse testualmente: ‘La Chiesa a volte si è fatta rinchiudere in piccole cose, in piccoli precetti. La cosa più importante è invece il primo annuncio: Gesù Cristo ti ha salvato!’”.

Tenere le parole di don Ciccio staccate dalla sua storia, dal suo sguardo, dall’impeto dei suoi 82 anni, non è possibile. Riflessione e azione, testimonianza e vita sacerdotale (“il ministero della bellezza”, secondo il titolo di un suo libro dedicato proprio all’essere sacerdoti) sono state per lui un tutt’uno unico e costante. Non sorprende che, del metodo di Bergoglio, avverta come una stessa pelle quel comunicare attraverso parole e gesti un Fatto, una bellezza. Del resto è così che è iniziata l’avventura di questo giovane prete catanese, ordinato nel 1954 e che aveva studiato filosofia alla Gregoriana di Roma. Tornato a Catania, nel 1959 gli era stato affidato l’incarico di assistente della Fuci e l’insegnamento della religione in un liceo classico. La faccenda iniziò lì, da un’impasse nella capacità di comunicare la fede ai giovani, come ha raccontato lui stesso molti anni dopo, nella “Vita di don Giussani” scritta da Alberto Savorana. “Se da un canto ero convinto della verità del cristianesimo, d’altro canto non riuscivo a renderlo interessante per la vita dei miei ragazzi… Non sapevo neanche a chi porre queste questioni in un contesto ecclesiale che, per lo più, viveva soddisfatto della massiccia presenza dei cristiani nella vita del paese”. Poi un giorno tre suoi alunni gli chiedono un salone per un incontro con una ragazza venuta da Milano e che, a loro dire, “faceva religione meglio di me”.
Racconta don Ciccio: “Una volta fui preso dalla curiosità e andai a vedere. Trovai la sala piena di giovani che facevano quello che appresi essere il raggio con questa ragazza che presiedeva, dava la parola a ciascuno e alla fine tentava una sintesi. Era una ragazzina bionda e slanciata, di soli quindici anni”. Ascoltandola, don Ventorino si rende conto di aver trovato quel che aveva cercato invano: un metodo di vita cristiana. “Dopo l’incontro le chiesi da chi avesse appreso le cose dette e lei cominciò a parlarmi di un certo don Giussani, che aveva avuto come insegnante di religione solo per un anno, a Milano”. Quell’estate del 1960 andò fino sulle Dolomiti, al Passo di Costalunga, per incontrarlo: “Ricordo che ho partecipato solo una giornata, ma essa mi confermò nella intuizione che avevo avuta: quell’uomo aveva il segreto che io cercavo. A ciascuno veniva proposto di rifare l’esperienza dei primi discepoli”. Se ne andò con le bozze di un libro, rievoca Savorana, “Tracce di esperienza cristiana”, che sarebbe stato stampato di lì a poco: “Lo sguardo di don Ventorino si fissa su questa frase: ‘Cristo era l’unico nelle cui parole tutta la loro esperienza umana si sentiva compresa e i loro bisogni presi sul serio, e portati alla luce là dove erano inconsapevoli e confusi. Le loro esperienze, i loro bisogni, le loro esigenze sono loro stessi, quegli uomini lì, la loro umanità stessa’”.
Da allora la storia di don Francesco Ventorino è stata tutt’uno con la storia di Cl, che ha contribuito a far nascere e diffondere in Sicilia e nel sud d’Italia. Quella idea forte che il cristianesimo non si comunica, in primis, con le idee ma con l’incontro di un’esperienza viva, credibile, (“la premessa da cui era partito don Giussani era la constatazione che il cristianesimo non diceva più niente a nessuno”) gli è rimasta appiccicata come la pelle. Con una passione per le periferie esistenziali che oggi, in cattivo giornalese, si direbbe profetica. Come quando, nel 1972, si trasferì al Villaggio Sant’Agata, un quartiere nuovo alla periferia di Catania. “Era la famosa ‘scelta per i poveri’, che però noi volevamo vivere secondo una logica ecclesiale, come segno della presenza della Chiesa nel quartiere”, racconterà molti anni dopo. “Io, il parroco e don Pino Ruggieri costruimmo a nostre spese un prefabbricato, che comprendeva chiesa e abitazione. Una decina di giovani famiglie vennero ad abitare lì. Fino al 1975 fu un’esperienza bellissima, incontrammo tanta gente”.

Torniamo all’oggi. Eugenetica, ideologia gender, cultura gay, attacco alla famiglia sono sfide evidenti a tutti. Secondo molti, anche nella Chiesa, la risposta deve ripartire dal ribadire la dottrina tradizionale, sic et simpliciter, e da una più dura dialettica amico-nemico, anche di tipo politico-religioso. E’ giusto o no? E soprattutto, può essere sufficiente?
“A parte il fatto che non si può accusare Papa Francesco di aver taciuto sul diritto alla vita da parte di tutti, basterebbe leggere attentamente il discorso tenuto ai medici cattolici il 20 settembre dell’anno scorso, dove si attacca frontalmente quella che viene definita la ‘cultura dello scarto’, ‘che oggi schiavizza i cuori e le intelligenze di tanti’, e che ha ‘un altissimo costo’, poiché ‘richiede di eliminare esseri umani, soprattutto se fisicamente o socialmente più deboli’. Questo tema è stato affrontato anche nel messaggio che ha inviato alle chiese di Gran Bretagna e Irlanda per la Giornata per la Vita 2013 dove, nel ricordare l’insegnamento di sant’Ireneo che la gloria di Dio è visibile nell’essere umano vivente, invita tutti ‘a lasciare che la luce di quella gloria splenda in modo tale che tutti arrivino a riconoscere l’inestimabile valore di ogni vita umana’. Anche i più deboli e i più vulnerabili, i malati, gli anziani, i non nati e i poveri, – aggiunge – ‘sono capolavori della creazione di Dio, fatti a sua immagine, destinati a vivere per sempre, e meritevoli della massima riverenza e rispetto’”.

Di queste affermazioni, chiarisce Ventorino, “se ne potrebbero citare tante altre che riguardano anche la verità naturale della famiglia e della sessualità umana. Ma credo che qui bisogna intendersi sui modi e le condizioni perché queste riaffermazioni dottrinali siano efficaci, cioè risultino comprensibili e accettabili. Infatti, se è vero che certi valori cristiani per la loro ragionevolezza sarebbero riconoscibili anche da una intelligenza non credente, purché sia lealmente aperta a quelle evidenze originarie che la propria coscienza può suggerire a ogni uomo, è altrettanto vero che essi, pur avendo una loro intrinseca ‘naturalezza’, sono divenuti visibili allo sguardo dell’uomo così come storicamente è fatto e accettabili dalla sua volontà solo nel contesto culturale aperto dal cristianesimo e rivitalizzato continuamente dalla presenza della Chiesa. Quando questa viene meno o si affievolisce, come sta accadendo soprattutto nella nostra vecchia Europa, si esaurisce quell’alimento essenziale del quale i valori umanistici si sono nutriti. Papa Francesco dimostra di aver compreso profondamente questa verità e questo nesso essenziale tra fede e ragione e, a partire da tale presupposto, imposta le sue priorità nella evangelizzazione. ‘Non possiamo insistere – diceva il Papa ad Antonio Spadaro – solo sulle questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale e uso dei metodi contraccettivi. Questo non è possibile. Io non ho parlato molto di queste cose, e questo mi è stato rimproverato. Ma quando se ne parla, bisogna parlarne in un contesto. Il parere della Chiesa, del resto, lo si conosce, e io sono figlio della Chiesa, ma non è necessario parlarne in continuazione’. E ancora: ‘Gli insegnamenti, tanto dogmatici quanto morali, non sono tutti equivalenti. Una pastorale missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine da imporre con insistenza. L’annuncio di tipo missionario si concentra sull’essenziale, sul necessario, che è anche ciò che appassiona e attira di più, ciò che fa ardere il cuore, come ai discepoli di Emmaus. Dobbiamo quindi trovare un nuovo equilibrio, altrimenti anche l’edificio morale della Chiesa rischia di cadere come un castello di carte, di perdere la freschezza e il profumo del Vangelo. La proposta evangelica deve essere più semplice, profonda, irradiante. E’ da questa proposta che poi vengono le conseguenze morali’”.

Don Francesco non è solo un uomo di pastorale. Ha scritto libri di filosofia e di teologia morale (“l’Amicizia coniugale”), ha insegnato ontologia ed etica. Quando gli chiediamo perché, a suo parere, anche tra cattolici, quelle parole di Bergoglio destano perplessità, sono lette come un cedimento al mondo, parte proprio dalle cime della teologia.
“Secondo me la questione è teologica e riguarda la vera novità portata nel mondo dal cristianesimo. San Tommaso d’Aquino insegnava che ‘l’elemento principale della nuova legge è la grazia dello Spirito Santo, che si manifesta nella fede che agisce per mezzo dell’amore’. Il cristianesimo comincia, quindi, come grazia di un incontro attraverso il quale lo Spirito Santo ci persuade della verità di Cristo e quindi ci ammette al dono della fede. Questa poi cambia il mondo attraverso l’amore da noi ricevuto ed espresso nel nostro agire. La moralità cristiana – diceva un prete che ha formato diverse generazioni alla fede, don Luigi Giussani – è innanzitutto un’attrattiva, un’attrattiva da assecondare. E’ importante, dunque, – afferma Papa Francesco nella sua Evangelii Gaudium – trarre le conseguenze pastorali di questo insegnamento. ‘Quando la predicazione è fedele al Vangelo, si manifesta con chiarezza la centralità di alcune verità e risulta chiaro che la predicazione morale cristiana non è un’etica stoica, è più che un’ascesi, non è una mera filosofia pratica né un catalogo di peccati ed errori. Il Vangelo invita prima di tutto a rispondere al Dio che ci ama e che ci salva, riconoscendolo negli altri e uscendo da sé stessi per cercare il bene di tutti. Quest’invito non va oscurato in nessuna circostanza! Tutte le virtù sono al servizio di questa risposta di amore. Se tale invito non risplende con forza e attrattiva, l’edificio morale della Chiesa corre il rischio di diventare un castello di carte, e questo è il nostro peggior pericolo’ (n. 39). Le perplessità dei cattolici di fronte a questo proposito dichiarato nascono dal temere che questo modo di procedere porti a un cedimento, nel senso di una relativizzazione di tutto ciò che non è essenziale, o che nel frattempo si affermino modi di pensare e di fare irreversibili. Ma chi di noi sarebbe convinto da una precettistica etica (anche se alta e nobile) scissa dall’amore a Cristo come la sorgente del significato e della speranza della vita?”.
Torna in mente, per chi lo conosce, un episodio di quasi vent’anni fa. Lo si ritrova anche questo nella biografia di Savorana. Quando nel 1995, in un dialogo con alcuni responsabili di Cl, don Ciccio parlò della “sorpresa di trovarmi di fronte a un uomo che guarda la realtà, che ci conduce a poco a poco a guardare le cose, a una profondità alla quale da soli non si potrebbe arrivare”. E Giussani, di rimando: “Sguardo e non criterio. Lo sguardo è una vita che vive, che tende, desidera, stima, in qualche modo ama. Criterio è una pura applicazione mentale, di tecnica mentale, in cui il maestro supremo non è stato Gesù Cristo, ma sono stati Kant e Hegel”.

mercoledì 26 febbraio 2014

IN MEMORIAM MONS. LUIGI NEGRI RICORDA DON GIUSSANI

«Dolore, nostalgia, letizia». Sono questi i sentimenti che nel nono anniversario della morte di don Luigi Giussani, fondatore del movimento Comunione e Liberazione, animano chi al suo fianco ha vissuto 50 anni della sua vita, dall’incontro al Liceo Berchet di Milano a metà degli anni ’50, quando Giussani gli è stato insegnante, fino alla morte il 22 febbraio del 2005. Monsignor Luigi Negri, dopo essere stato per moltissimi anni tra i responsabili prima di Gioventù Studentesca e poi di Comunione e Liberazione, è oggi arcivescovo di Ferrara-Comacchio, ma il rapporto con don Giussani non si è interrotto con la morte. «In questi giorni di anniversario – dice a La Nuova BQ – mi sono reso conto con una evidenza mai avuta prima che nella comunione dei santi il dialogo fra don Giussani e me è proceduto in questi anni. E’ maturato, è una presenza quotidiana e - come tutte le presenze vive nella nostra vita personale - parla, comunica, anche se la modalità della comunicazione è diversa da quella del rapporto fisico». 

Monsignor Negri, in che modo questa presenza le parla?
Nel mio caso è una comunicazione significativamente reale, che è quella delle intuizioni che mi vengono tutte le volte che durante la giornata lo riconosco presente accanto a me. Perché questa è la caratteristica specifica della comunione che è maturata con lui in questi anni: la percezione di una presenza che mi sta accanto.
Oggi la nostra società e la Chiesa stanno vivendo giorni travagliati, di grande confusione. Che cosa questa presenza le suggerisce?
La prima intuizione che ho raccolto è l’invito che ho sentito e sento pressante a recuperare la fede che ha come contenuto unico ed esclusivo la presenza del Signore Gesù Cristo nella mia vita personale, lungo le stagioni della mia vita cristiana, da quando ero bambino con i miei genitori fino ad adesso.
Contenuto esauriente della fede è la presenza di Cristo, riconosciuto nel mistero della sua Chiesa, amato nel mistero della sua Chiesa, e mi risulta chiaro che in fondo la grande, straordinaria esperienza di compagnia di Giussani alle migliaia di persone che ha incontrato e a cui ha comunicato un annunzio buono della fede, il grande aiuto che Giussani ha dato è stato rendere vera, nel senso di reale, la fede nel Signore e l’amore alla Chiesa.
Per questo passando gli anni, non solo dalla sua dipartita ma anche della mia vita, è come se tutto si radicalizzasse, tutto si semplificasse, e sta qui anche l’essenziale di papa Francesco. Tutto si semplifica e la questione è unicamente che il mio sì al Signore Gesù Cristo - presente nella mia storia perché presente nella Chiesa attraverso la grande educazione del movimento di CL -, sia totalizzante la mia vita.
Cosa significa concretamente una presenza totalizzante?
Una presenza totalizzante morde il quotidiano, e anche questo don Giussani me l’ha testimoniato. Morde il quotidiano perché il Signore Gesù Cristo è presente in una realtà di popolo. Cristo presente nella Chiesa morde nel quotidiano perché noi apparteniamo a una comunità presente in un ambiente. Quale che sia l’ambiente il Corpo mistico del Signore ha un terminale oggettivo, inevitabile, mordente: la comunità d’ambiente, la comunità di cristiani presente in un ambiente. L’unità dei suoi nel mondo, questo è il cristianesimo. 
La scelta dell’ambiente come luogo della presenza cristiana fu una grande novità per la Chiesa di quegli anni.
Quando il movimento cominciò ad attecchire e diffondersi, allora molti dissero che don Giussani aveva fatto una felice scelta pastorale scegliendo l’ambiente. Ma don Giussani non fece una scelta pastorale innanzitutto, fece una scelta di carattere cristologico ed ecclesiologico. E siccome la Chiesa, come Cristo, è dentro il mondo, intuì che o il cristianesimo riviveva nel cuore dei suoi dentro l’ambiente che premeva sulla loro coscienza e sul loro cuore, oppure sarebbe finito. E’ dentro il mondo che la fede viene sfidata; e cresce, matura, se è capace di rispondere alle sfide, di accogliere e rispondere alle sfide. La presenza missionaria nell’ambiente è anche la grande strada di incremento della Chiesa. E questa fu l’intuizione formidabile della missione della Chiesa come autorealizzazione che segnò il massimo di sintonia tra il beato Giovanni Paolo II e don Giussani: riscoprire che la fede se vuole mordere il presente della vita, deve essere vissuta dentro una comunità presente nell’ambiente. L’ambiente è ciò che ci circonda, e noi viviamo sempre circondati, non possiamo vivere fuori da questo essere circondati, quali che siano i volti che l’ambiente assume nel cammino della nostra vita.
Lei dice l’ambiente, ma oggi non le sembra che si faccia fatica perfino a capire in che ambiente siamo, cosa muove la società in cui viviamo?
Qui c’è la seconda intuizione che nasce dalla presenza viva di don Giussani. Mai come adesso la Chiesa è sfidata, la comunità cristiana è sfidata. Molti nel mondo ecclesiale ed ecclesiastico sembrano non rendersi conto delle sfide multiformi, alcune assolutamente pervasive, che investono la comunità cristiana. E questo mi trova in un atteggiamento che oscilla tra l’ira e la commiserazione. Mi chiedo, ma mi sembra che me lo chieda Giussani: ma come si fa a non rendersi conto che la situazione di attacco alla Chiesa è diventata così totalizzante, e come contrappunto di essa la società è assolutamente disgregata, perché chi perde Cristo poi perde se stesso? Come si fa a non rendersi conto che è necessaria una missione forte?
Cosa vuol dire una missione forte?
Forte vuol dire piena di umanità e di ragioni, che quindi anzitutto si modula come giudizio sulla vita degli uomini e della società. E’ il giudizio che ha come fondamento la certezza che la salvezza la porta solo Cristo, la salvezza è responsabilità di Cristo, grazia sua. Perciò non è possibile non mettere in evidenza tutta la negatività che permane nella vita e nell’espressione della società il cui fondamento ultimo è l’affermazione che l’uomo si salva da solo, o peggio ancora che l’uomo non ha assolutamente bisogno di salvezza. E’ un giudizio radicale che don Giussani ci ha abituato a dare in più di 50 anni di convivenza con lui nel movimento nelle situazioni più diverse. Può la Chiesa dimenticare di ripartire continuamente da ciò che è l’essenziale, ovvero che Cristo è il redentore dell’uomo, è il centro del cosmo e della storia? Alla luce di questo poi si ha la forza di investire le problematiche personali, familiari, economiche, sociali, politiche.
Ma il criterio viene dal mondo o dalla fede?
Jean Guitton diceva che la più terribile delle eresie nella vita della Chiesa, che si ripresenta con una periodicità terribile, devastante, è la gnosi. La gnosi è esattamente l’affermazione che tocca al mondo giudicare la fede e non la fede a giudicare il mondo. 
Una condanna del mondo, dunque..
L’esito di questa radicalità profondità di giudizio non è la condanna, è la misericordia. Ho visto per 50 anni Giussani coniugare la chiarezza che lo rendeva inesorabile nel mettere in evidenza tutti i limiti dell’ideologia mondana con una capacità di comprensione, di condivisione della vita degli uomini che incontrava, anche di quelli che si presentavano o erano ritenuti come nemici.

Invece oggi sembra di moda contrapporre la misericordia al giudizio.
Ci sono poche cose che non riesco a perdonare, ma certamente non riesco a perdonare chi facendo riferimento alla teologia della Chiesa, alla tradizione della Chiesa – chi fa riferimento ad altro è un problema suo, di fronte alla sua coscienza, di fronte a Dio – contrapponga verità e misericordia, contrapponga dottrina e pastorale, contrapponga l’elemento intellettuale della fede, che è riconoscimento di Cristo,  con l’espressione di questa fede, che è la carità.
Dove peschiamo le ragioni della carità? Nei bisogni? Nelle povertà? E allora cosa diciamo a Cristo che dice “I poveri li avrete sempre con voi, me invece non avrete sempre”. Cioè, la ragione di tutta la carità della Chiesa verso gli uomini è il tentativo di rispondere alla carità che Cristo ha avuto e ha verso di noi.

Intervista di Luigi Cascioli, lanuovaBQ

martedì 25 febbraio 2014

IL KAPO' ALLA KNESSET

Aveva ragione Berlusconi?

Preveggente aveva capito tutto di Schulz, il kapò, quando dieci  anni fa gli affibbiò quel nomignolo?


Forse si. Ieri alla Knesset Schultz è stato inutilmente provocatorio. Ha detto dal podio che un giovane palestinese  gli ha riferito che i palestinesi usufruiscono di 17 litri di acqua al giorno e i soliti israeliani di 70. Ma non aveva verificato. I dati sono sbagliati: un palestinese riceve 110mila litri d'acqua all'anno, e un israeliano intorno ai 160mila. . È ragionevole  poi pensare che la cura dell'acqua in tanta siccità sia tutto frutto di lavoro israeliano. Inoltre, anche nei momenti in cui il sangue israeliano scorreva per tutte le strade di Gerusalemme, mai l'acqua ha cessato di arrivare ai rubinetti palestinesi.
Se il presidente del Parlamento Europeo su Israele ormai sai soltanto bugie, e le diffonde, senza verificarle, a chi capita, così, tanto per chiacchierare, come si può pensare che Israele si fidi dell’Europa? Per un deputato tedesco, oltre all’antisemitismo, dovrebbe essere impensabile anche l’antisionismo


RIPARTIAMO DAI MAESTRI

 Che cosa abbiamo imparato da Don Giussani, a proposito di presenza e missione. 

PUR SE POSER IL S'OPPOSE

Di fronte a varie riletture del compito dei cristiani nel mondo, e di alcune iniziative che hanno coinvolto laici e cattolici, ecco il grande suggerimento che ci viene dal magistero di quel grande educatore che è stato don Giussani.
Allora forse questi giudizi vanno corretti
·        "Ecco perché non firmo l'appello di Ferrara al Papa
·         "L'amore ha vita breve
·         "Quei finti "laici" che chiedono al Papa di fare politica



Così scrive don Giussani nel testo «Ciò che abbiamo di più caro»:

a) La nostra vita, impostata secondo la sua essenzialità, secondo la sua verità, ha una nota (nel senso delle note della Chiesa) caratteristica, inconfondibile e insostituibile, che è la letizia: un’amicizia, la capacità di un’amicizia lieta (non lieta perché si fanno bagordi per tre ore o per sei). È questa letizia - che caratterizza una trama di rapporti, che caratterizza la persona dentro la trama di rapporti vissuta come sequela - che porta Cristo al mondo. Il mondo è colpito dalla letizia, perché non ne è capace. (Come il buon Manzoni parlava della «Pace, che il mondo irride, / Ma che rapir non può».) Comunque, guardate che «pace» vuole dire letizia. Ognuno di voi lo può rilevare da se stesso: è solo se l’esperienza della vita cristiana gli dà letizia che verifica la sua consistenza. La verità sta nella letizia. Badate che questa letizia è una connotazione che può stare mentre uno muore, può stare col più grande dolore, perché non è qualcosa che raggrinza i muscoli, gli zigomi, non c’entra con i muscoli della faccia; c’entra con la faccia, questo sì, c’entra con gli occhi.
b) In secondo luogo, la caratteristica della vita nuova nella vita di comunità è la missionarietà, come è stato detto così perfettamente dal professore di filosofia stamattina: «Epifania di una identità». La missione non è fare e agitarsi, è l’essere, è il manifestarsi e il comunicarsi, il contagiarsi, il contagio, che nasce dalla propria identità: l’epifania dell’identità.
c) In terzo luogo, corollario della missionarietà è una personalità che sfida, capace di sfida, come diceva il professor Lazzati alla prima tre giorni (eravamo in quindici, erano quindici e io prete), su a Gressoney Saint-Jean: Pour se poser il s’oppose per porsi, per affermarsi, si oppone. La sfida! Tra noi è una sfida continua, una bella sfida! Comunque, questa sfida è la caratteristica propria dell’amore, è la caratteristica bellica dell’amore. Una personalità che sfida è una personalità che non ha paura, che ha forza, che è consapevole, che ha strategia, che guarda tutte le cose con uno sguardo unitario (perché se tu parti lancia in resta contro l’avversario e hai dietro il nemico che ti infila alle spalle...).

d) Quarto. Ripeto le vostre parole, ma sono proprio giuste, dovete avere la pazienza di capirle come ho cercato di capirle io. La quarta caratteristica (quindi la terza è la personalità come sfida, perciò come animosità, come vitalità, come “bordata”, come capace di rapporto, che getta ponti con qualsiasi cosa) è il passaggio dalla capacità relativamente facile di definire tutto, vale a dire il passaggio dal discorso (tutti sono capaci di discorso, e poi ripetere continuamente il discorso «è noioso»; è soltanto chi ha fatto questo passaggio che sto per dire che, quanto più ripete il discorso, tanto più se ne innamora; chi invece non ha fatto questo passaggio, ripetendo il discorso si annoia, il discorso ripetuto lo annoia) alla «lieta inquietudine» della domanda. Dove «inquietudine» vuole dire che è una letizia che non dorme, non è quieta; è inquieta nel senso di vibrante, mossa, tesa. Il passaggio dal discorso alla lieta inquietudine della domanda o, come ha detto un altro, alla «capacità di chiedere». Il passaggio dal discorso «alla capacità di chiedere a ciò che c’è che sia risposta». Chiedere a Ciò - con la C maiuscola - che c’è che diventi risposta a te, cioè a me.
La quarta caratteristica, allora, è la domanda, quella domanda che è «fare spazio al Mistero perché si manifesti». Per questo il minimo della domanda è l’Innominato del Manzoni: «Dio, se ci sei, rivelati a me!». È una domanda di chi ancora non crede, ma è una disponibilità. La domanda è fare spazio al Mistero perché si manifesti. E, infatti, ve l’ho già detto, alla fine della storia dell’umanità la Bibbia termina con questa domanda: «Vieni, Signore Gesù», «Vieni, Signore». La domanda fa spazio al Mistero perché si manifesti. Ma si è manifestato in tanti millenni! No, no, no, è il Mistero, perciò insondabile e incommensurabile.
Perciò all’imperatore che non sa che farsene della grande Presenza noi opponiamo - è questa la vera opposizione, per cui la prepotenza della mentalità comune non ci disfa o, come abbiamo detto, non ci devasta - la domanda della grande Presenza. E la domanda l’incontro con il Mistero presente; l’inizio dell’incontro è la domanda, perché la domanda è già rompere gli argini. A differenza del desiderio, che può rimanere velleità, la domanda è un gesto. E così rileggiamo ancora una volta la frase in un libro su Tarkovskij: «Da tempo l’uomo occidentale ha bruciato la bisaccia e il bastone del viandante, con la sua commovente attitudine alla domanda». Il potere ha devastato l’uomo occidentale, lo ha bruciato, distruggendo la bisaccia e il bastone e soprattutto distruggendone la via, l’impeto e l’energia della via: ha distrutto la commovente attitudine alla domanda. Da qui noi ricominciamo. Altrimenti la dimora dell’uomo non diventa più l’orizzonte, siamo bloccati nel nascondiglio, dove non si incontra veramente nessuno - sei solo -, e dove perciò l’uomo incomincia a dubitare della sua stessa esistenza (impressionante è in questo senso la testimonianza di Sartre e di Moravia).

Da «Ciò che abbiamo di più caro»



Don Gabriele Mangiarotti

ANNUNCIARE CRISTO LIBERARE L'UOMO

STEFANO SPINELLI
da Cultura Cattolica

 Vorrei fare alcune considerazioni sull’appello sottoscritto da più persone, cattolici e laici non credenti, a Papa Francesco sulla necessità di reagire alle istanze contrarie all’uomo presentate come “nuovi diritti”. In particolare, mi ha colpito il commento di Federico Pichetto, che spiega perché non firma l’appello.

domenica 23 febbraio 2014

BOBBY JINDAL GOVERNATORE DELLA LOUISIANA :UN GRANDE DISCORSO SULLA LIBERTA' RELIGIOSA

ABBIAMO IL DIRITTO DI PRATICARE LA NOSTRA FEDE 
E DI PROTEGGERE LA NOSTRA COSCIENZA

Il beato Giovanni Paolo II e Ratzinger (e Giussanii) hanno sempre prestato grande attenzione a quanto accade degli Stati Uniti, e non solo nella chiesa cattolica.
Bobby Jindal è un leader cristiano e cattolico più promettente di Obama, che anche lui civettò con la fede, ma solo per inganno, la sua fede è quella del politicamente corretto e della macchina politica di Chicago e delle élites harvardiane.

Jindal  è indiano e indù di famiglia, cattolico convertito, grandi scuole anche lui, pelle olivastra, ha 42 anni, una carriera di politico conservatore che (anche lui) fa sognare un suo american dream. Questo discorso è un grande manifesto politico e culturale di laicità, ma anche di religiosità, ché in America la religiosità è di rigore, da quando il Creatore entrò nella dichiarazione di indipendenza e di striscio nella Costituzione a legittimare il basamento dei diritti umani, eguali e irrinunciabili per ragioni, appunto, divine o creaturali.
La denuncia di Jindal non è così diversa dalle preoccupazioni che spingono tanti ad agire in difesa della fede e dell’uomo. Il mondo secolare ha una sua spietatezza, che va sì combattuta con la misericordia e con la ragione intellettuale, due armi di chi crede e di chi ha rispetto per la fede degli altri e per il modo di vita della democrazia occidentale, ma sopra tutto con animo, con spirito, con effusione di sé.
Sanità, istruzione, cultura, linguaggio, diritto: vogliono sradicare il cristianesimo, attaccandone le basi, e a questo progetto non si può rispondere soltanto, che è la priorità per i cattolici e i fedeli, con la fede interiore. Ci vuole non già un profilo politico, ma una iniziativa pastorale e di dialogo razionale capace di sovvertire l’ordine dei fattori così come lo imposta la cultura fanatizzata del secolarismo. Non ci sarebbe stato Lepanto se avesse prevalso allora “la scelta religiosa”.
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ecco alcuni passi del discorso (che può essere letto per intero ricopiando il link sottostante
(…) Alla fine, ogni persona vuole vivere seguendo i propri princìpi. E la promessa fondamentale in America è che lo possiamo fare. Quando non possiamo, quando ci dicono che la nostra fede e la nostra coscienza sono nocive alla buona governance e alla legge, allora non stiamo semplicemente affrontando una minaccia alla nostra fede e alle nostre coscienze. Siamo davanti a una minaccia all’idea stessa di America. E questa è, per definizione, una minaccia esistenziale.
Margaret Thatcher ha detto: “L’Europa è stata creata dalla storia. L’America è stata creata dalla filosofia”. Le élite secolarizzate lo capiscono quanto lo aveva capito lei. E sanno bene che per prendere possesso dell’America, devono dichiarare guerra a tale filosofia. La guerra silenziosa è la vera corrente sotterranea che crea dibattiti politici in tutta una serie di aree riguardanti le politiche da adottare. Ma perché questa guerra sta avendo luogo? Cosa significa per la nazione, e per le persone di fede? Perché rappresenta una sfida fondamentale alla nostra identità di americani e alla storia eccezionale che ha reso così grande la nostra nazione? (…)

E questo ci porta al secondo fronte della guerra silenziosa: l’assalto alla nostra libertà di associazione in quanto persone di fede, per creare organizzazioni dove lavoriamo assieme ad altri per poter condividere le nostre idee.(…)
Ma questi casi sono solo l’inizio. C’è una minaccia ancor più grande, che ci porta al terzo fronte della guerra silenziosa: l’assalto alla vostra libertà di espressione in qualsiasi ambito della vita. (…)

(…) La Suprema corte del New Mexico ha decretato in agosto che una piccola azienda, la Elane Photography, ha violato lo Human Rights Act dello stato rifiutandosi di fotografare un matrimonio fra presone dello stesso sesso. Nella sentenza, il giudice ha informato i fotografi cristiani che venivano multati che erano “obbligati dalla legge a scendere a compromessi con il credo ultimo religioso che ispira le loro vite” perché tale è “il prezzo della cittadinanza”. Tale assalto è destinato esclusivamente a diffondersi nell’immediato futuro. Assisteremo a una pressione continua su chiunque “si rifiuti” di essere penalizzato, di vedersi negato l’accesso a gruppi professionali o di vedersi rifiutare licenze, tutto per la propria visione del mondo. Molti stati hanno considerato tali problemi alla luce dell’attuale battaglia legale sulle leggi riguardanti il matrimonio. Ma tale pressione non si fermerà a fotografi e pasticceri,  verrà esercitata su chiese, moschee e anche sinagoghe.
(…) L’Illinois ci dà un’anticipazione di ciò che accadrà. Nella legge da loro proposta per modificare la definizione di matrimonio, avrebbero richiesto alle chiese e alle altre congregazioni di chiudere le loro porte agli estranei, di smettere di fornire servizi alla comunità, e di non dare le loro strutture ad altre organizzazioni non profit o ad altre chiese, per evitare di ricevere richieste di ospitare cerimonie di matrimonio fra persone dello stesso sesso. La legislazione dell’Illinois avrebbe comportato un livello di supervisione governativa senza precedenti, ad esempio spedire rappresentanti governativi a fare un’indagine fra gli studenti delle scuole cattoliche per vedere quanti fossero davvero cattolici. Non permetterebbero a istituzioni religiose di affittare le loro strutture a chi non è membro per i matrimoni. Porterebbero le chiese ad eliminare le attività, le scuole diurne, i servizi di counseling, le mense dei poveri e molto altro. In altre parole, questa legge e altre leggi come questa imporrebbero ai credenti di scegliere, essenzialmente, di rompere con il loro credo teologico più profondo, o di abbandonare le loro attività quotidiane di evangelizzazione, di ritirarsi dalla vita pubblica, di sacrificare i loro diritti di proprietà. Alle chiese che non ospitano matrimoni fra persone dello stesso sesso sarebbe in pratica proibito di partecipare appieno alla società civile.
Questo è il prossimo passo dell’assalto, ed è solo l’inizio.

(…) Al giorno d’oggi, la stragrande maggioranza di quelli che appartengono a una religione in America – e parliamo di più di metà della nazione – sono membri di organizzazioni che affermano la definizione tradizionale di matrimonio. Tutte queste denominazioni saranno oggetto di attacco in vari gradi nel corso dei prossimi anni. Le chiese in America riusciranno mai a rimanere parte della scena pubblica, in un momento nel quale le loro idee sul peccato sono in diretto conflitto con la cultura, e quando l’espressione di tali idee sarà vista come un tentativo di mascherare l’hate speech dietro alla protezione religiosa? Come in Canada, dove le leggi sull’hate speech costringono i tribunali a discernere se la citazione dei versetti della Bibbia sia una violazione “delle regole sui diritti umani”, rinunciare ai vostri diritti di espressione religiosa potrebbe, come ha detto il giudice del New Mexico, essere semplicemente “il prezzo della cittadinanza”.
(…) Questa guerra alla libertà religiosa – alla vostra libertà di esercitare la religione, alla vostra libertà di associarvi, alla vostra libertà di espressione – non farà altro che continuare. Continuerà a causa di un’idea, di un concetto spericolato al quale apparentemente il presidente Obama crede: che la libertà di religione coincida con la libertà di culto, e basta. In questo concetto distorto e non americano di libertà religiosa, i vostri diritti iniziano e finiscono sulle panche della chiesa. Per quelli che fra noi credono in un mandato più grande, questa idea è ovviamente sciocca. Il presidente suggerisce che il diritto di pregare e il diritto a evangelizzare e a praticare liberamente siano la stessa cosa. Non lo sono.
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lecco il link  il "manifesto" di Jindal 
http://ilfoglio.it/soloqui/22006

giovedì 20 febbraio 2014

MISERICORDIA

Non c’è il rischio di banalizzare il concetto di misericordia, termine così tanto usato e a volte abusato?

Perez Soba. “Si dice che tutto è amore, che tutto è misericordia. No. Misericordia è un tipo di amore molto preciso. Bisogna distinguere bene le cose. 
Misericordia non è tolleranza né solo compassione. 
DOMENICO GHIRLANDAIO
Cappella Vespucci; Chiesa di Ognissanti, Firenze
Sono due termini che dobbiamo sempre distinguere. 
Uno è tolleranza con il male, e questa non è misericordia. Credo che siamo stati noi preti a fare il primo abuso, in questo. Nei funerali usiamo la misericordia per coprire tutto, per fare tutti santi. 

La misericordia è ciò che guarisce il male, non ciò che lo tollera come se non fosse importante. 

Dove c’è misericordia già non c’è male. 
La tolleranza è una falsa misericordia, quella che dice “non è importante” quella ferita. Mi sembra che la visione di Francesco vada in questo senso, quando parla di guarire le ferite. La misericordia è un amore che genera vita. Questo è un concetto molto lontano dalla tolleranza borghese”.

 il professor don Juan José Pérez Soba, ordinario di teologia pastorale del matrimonio e della famiglia al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia presso l’Università Lateranense.

LEGGI TUTTO L’ARTICOLO


IL PADRE DI FAMIGLIA : IL VERO AVVENTURIERO


 CHARLES PEGUY

C’è un solo avventuriero al mondo, e ciò si vede soprattutto nel mondo moderno: è il padre di famiglia.
Solo lui è letteralmente coinvolto nel mondo, nel secolo, solo lui è letteralmente un avventuriero, corre un’avventura.
Lui naviga su questa rotta immensamente larga.
Lui solo non può affatto passare senza che la fatalità si accorga di lui.
Gli altri scantonano sempre, possono permettersi di infilare sotto la testa.
Lui, lui deve nuotare di spalle, deve risalire tutte le correnti, deve infilare le spalle, il corpo e tutte le membra.

Gli altri scantoneranno sempre, sono carene leggere, sottili come lame di coltello, lui è la nave grossa, pesante come bastimento da carico.


per leggere tutto il brano clicca sotto


martedì 18 febbraio 2014

SIMONE CRISTICCHI : MAGAZZINO 18

di DOMENICO BONVEGNA

Finalmente ho visto lo spettacolo, “Magazzino 18”, il musical di Simone Cristicchi, che mi ha tenuto davanti allo schermo del mio pc da mezzanotte fino a quasi le due del mattino.

Ho poca voglia di polemizzare con la Rai per l’orario assurdo, ma anche questo è un segnale negativo nei confronti di una pagina di Storia che non si vuole accettare. Certo meglio di niente visto che lo spettacolo era stato in un primo momento censurato. Veneziani in un fondo su Il Giornale sostiene che alla fine questa “Giornata del ricordo” si sta diluendo, ha ragione, “è durata pochi anni l’attenzione, legata in prevalenza alla destra al governo, a volte alimentata dall’assurda pretesa di bilanciare l’enfasi via via crescente negli anni alla Shoah. Tuttavia per ogni ricordo delle foibe ce n’erano dieci e forse cento istituzionali e mediatici della Shoah”. Si pensi a quanti film sono stati prodotti per la shoah, mentre per le foibe o i gulag quasi nulla.
Pertanto secondo Veneziani, “il giorno del ricordo rischia di tornare nel buio, dopo la sua veloce parabola. È rimasto Simone Cristicchi, col suo spettacolo dedicato alle foibe, a mantenere acceso un filo di memoria. Le contestazioni che ha ricevuto non sono solo un atto incivile e intollerante di odio verso migliaia di vittime inermi e verso chi osa ricordarle, ma hanno anche un effetto di dissuasione e intimidazione che va denunciato: sono un avvertimento, una minaccia per chi voglia addentrarsi nel tema scabroso. Chi volete che si cimenti nel ricordo delle foibe se sa che poi deve sottoporsi a questi attacchi e affrontare queste censure nel silenzio pressoché generale? Meglio parlare d’altro”. (M. Veneziani, Le foibe? In Italia vince solo l’oblio, 10. 2. 14 Il Giornale)

Premesso che non sono un esperto di teatro, o di fiction, sono convinto che lo spettacolo dell’artista romano, è ben fatto, anzi forse, la rappresentazione teatrale ha reso più reale, rispetto a un film, la storia della tragedia delle foibe. L’artista, un vero professionista, durante la recitazione, appare totalmente coinvolto e per niente distaccato, soprattutto quello che dice è straordinariamente coinvolgente, in particolare per chi conosce la storia delle foibe e dell’esodo. E io la conosco da quando era adolescente, ricordo alla fine degli anni 70’, che in un testo pieno di elenchi di tanti nomi degli infoibati, ho trovato casualmente, quello del carabiniere Domenico Bruno, un carabiniere di Mandanici, località del messinese, il paese nativo di mia mamma. Prontamente con mio fratello abbiamo comunicato la notizia ai familiari che ancora non sapevano con certezza della fine del loro congiunto.
Cristicchi nonostante sia un uomo di sinistra, è rimasto fedele ai fatti, anche perché si è avvalso delle ricche testimonianze degli esuli che hanno subito l’orrore di quella tragedia. Forse ha forzato un po’ nel mettere sullo stesso livello, la pulizia etnica dei “fascisti” e quella dei “comunisti”; non credo che le due ideologie in quanto a crimini, a discriminazioni o a riduzioni della libertà, possano essere messe sullo stesso piano. Infatti per Arrigo Petacco, storico serio, le esecuzioni di massa operate dai comunisti titini, “non potevano essere interpretate (come qualcuno, anche in Italia, si sforzerà di fare negli anni successivi) come una risposta, o una vendetta, del gruppo etnico slavo ai soprusi o alle vessazioni subite. La sproporzione era evidente a tutti. Doveva trattarsi di qualcosa di più: di un progetto preciso di ‘pulizia etnica’ per estirpare gli italiani dall’Istria uccidendoli o costringendoli a fuggire”.

NEL CUORE DI FREAK

"perciò io non terrò chiusa la bocca, parlerò nell'angoscia del mio spirito, mi lamenterò nell'amarezza del mio cuore" (Giobbe 7,11)

A volte accadono piccoli fatti che sono come lampi di luce nel buio. E folgorano i cuori immersi nella nebbia e i tempi cupi. E fanno capire e vedere la realtà assai più e meglio di tanti discorsi dei cosiddetti intellettuali o di coloro che dovrebbero illuminare il mondo.
E’ accaduto a Bologna
Mercoledì scorso, dopo una lunga malattia, è morto a 59 anni Roberto “Freak” Antoni, storico leader degli Skiantos, un gruppo musicale che viene classificato come “rock demenziale” e che nacque nella turbolenta Bologna del ’77, quella degli “indiani metropolitani” e di un’Italia che poi affogò negli anni di piombo.
Freak Antoni, un artista divertente e poliedrico, rappresenta il rivolo creativo e surreale di quella stagione che a Bologna mise con le spalle al muro “da sinistra” il monolitico Pci di Zangheri e a Roma la Cgil di Lama. Freak era così ironico, dissacrante, cinico, poetico che non è possibile inquadrarlo negli schemi.
D’altra parte quella rivolta giovanile dava voce alla delusione delle rivoluzioni mancate, al disgusto per gli apparati e finiva per esprimere sogni e utopie impolitiche, un grido di “felicità subito” che aveva natura inconsapevolmente religiosa.
Tornò in quei giorni un motto del ’68 francese ricavato dal “Caligola” di Albert Camus. Diceva: “Soyez réalistes, demandez l’impossibile”. Era perfetto anche per la Bologna del ’77.  Ma era lo slogan meno politico e più religioso che si potesse coniare.
Infatti era stato un grande padre di cuori giovani, don Luigi Giussani a riprendere e valorizzare quelle parole di Camus: “Non è realistico che l’uomo viva senza agognare l’impossibile, senza questa apertura all’impossibile, senza nesso con l’oltre: qualsiasi confine raggiunga. Il Caligola di Camus – scrisse Giussani – parla di ‘luna’ o ‘felicità’ o ‘immortalità’. L’insaziabile non può che derivare da un inestinguibile. Un Destino di immortalità si segnala nell’umana esperienza di insaziabilità”.
A Bologna è rimasto qualcosa di quella ventata creativa del ‘77. Io stesso ho letto a volte, qua e là, sui muri, delle scritte che mi ricordavano “Freak Antoni”.
Vicino alla chiesa dei Servi – e a Nomisma – campeggiava un versetto biblico: “l’abisso chiama l’abisso”. E più in là, su un muro dell’Università, un memorabile: “Basta fatti, vogliamo parole”. Che – a ben pensarci – è geniale.
La morte prematura di Freak Antoni naturalmente ha richiamato a Bologna tanti amici e colleghi. Venerdì scorso, quando il Comune ha allestito una camera ardente per rendergli omaggio, nella sala Tassinari, a Palazzo D’Accursio, si sono visti molti personaggi noti dello spettacolo: c’erano Elio e Rocco Tanica delle “Storie Tese”, Luca Carboni, Samuele Bersani, Gaetano Curreri, Andrea Mingardi, Fabio De Luigi, il comico Vito, Milena Gabanelli e poi è arrivato il sindaco Virginio Merola.
Il quale ha detto alcune parole di commemorazione, in quell’atmosfera surreale e obiettivamente disperata, tipica di queste “camere ardenti”, tra volti tristi e straniti. Subito dopo si è fatta avanti una ragazza, una giovane studentessa di liceo.
Era Margherita, la figlia di “Freak”. Con dolcezza e fermezza ha detto alcune cose che hanno fatto sentire a tutti un brivido.
Un brivido di verità profonde che tutti conoscono in fondo al cuore, ma che tutti anche hanno rimosso e nascosto. Pure a se stessi.
La ragazza ha ringraziato i presenti, ha ricordato come suo padre vivesse per quel suo lavoro, per il palco, per i concerti che in tanti giorni di festa lo hanno strappato alla famiglia.
Margherita ha confessato di aver sofferto questa sua assenza, ma “adesso forse ho capito. Non so” ha detto guardando quei volti “se vi è mai capitato di sentirvi tristi. Ma tristi tristi, tanto tristi da chiedervi qual è il senso della vita, il perché delle cose. A me a volte capita. A mio padre capitava sempre. Siete tristi perché vi manca qualcosa, non è così? Altrimenti avreste l’animo appagato, soddisfatto. Ma che cosa manca?”.
La domanda della ragazza per un istante ha fatto sentire tutti come messi a nudo. Poi ha proseguito: “Ognuno cerca di colmare il vuoto che sente. Mio padre lo colmava con la droga, con i concerti, con storie d’amore improponibili. Mio padre era uno triste, uno senza speranza, un infelice, un irrequieto”.

Erano parole dette con profonda compassione e pietà. Margherita ha poi raccontato di aver trovato, l’altro giorno, nel portafoglio del padre, un biglietto dove aveva annotato questa frase: “perciò io non terrò la bocca chiusa, parlerò nell’angoscia del mio spirito, mi lamenterò nell’amarezza del mio cuore”.
Era una frase della Bibbia, del libro di Giobbe. Chissà quando e come Freak Antoni l’aveva sentita o letta e se l’era annotata, perché di certo la sentiva sua, perché esprimeva il suo dolore, la sua solitudine, le sue domande e il suo grido.
Infatti Margherita l’ha commentata così: “mio padre era un grande perché gridava, perché non si accontentava, perché il suo desiderio di felicità era più grande di qualsiasi concerto, droga o storia d’amore”.
Così, con una grazia che incantava e una pietà commossa, la giovane figlia ha descritto il senso religioso di questo padre artista irrequieto e scapigliato. E ha colto più e meglio di chiunque altro il suo genio. E il suo dolore.
Ricordando una delle sue memorabili battute (“Dio ci deve delle spiegazioni”) Margherita ha concluso con la speranza che davvero “lassù gliele dia”.
Poi, in tutta semplicità, a quella platea improbabile e sbigottita ha detto che voleva dire una preghiera per suo padre. E chi voleva poteva unirsi a lei. Ha recitato con alcuni amici l’Eterno riposo e un’Ave Maria e in quel momento una Misericordia infinita è scesa su tutti, in quella stanza, come un immenso e bellissimo panorama pieno di azzurro.
E come sono sembrate goffe e ridicole le chiacchiere di certi intellettuali e di certi notabili dell’industria sui giovani di oggi.
Se questo Paese ha una speranza, bisogna riconoscere che questa speranza ha il volto di Margherita e dei ragazzi e delle ragazze come lei. Che ci sono e sono molti più di quanto si immagini.
Nei loro volti s’intravede una speranza, una certezza, una pietà che oggi sembrano impossibili. Come quella pace di Margherita davanti al dolore della morte. Talora l’impossibile per grazia accade.

Antonio Socci

18 febbraio 2014

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