giovedì 27 febbraio 2014

CIO' CHE CONVINCE E' LA BELLEZZA

Il prete di cielle che ama Francesco e tenta di spiegarcelo
Storia straordinaria di un cappellano ottantenne delle carceri che è anche pastore e filosofo, e della sua passione inesauribile per la società, per i deboli, per un cristianesimo forte: don Ciccio Ventorino
“Ho letto ai miei detenuti le parole che il Papa aveva loro inviato attraverso i cappellani delle carceri: ‘Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore, nessuna; Lui è lì, piange con loro, lavora con loro, spera con loro; il suo amore paterno e materno arriva dappertutto’… Ho visto prima i loro occhi segnarsi di lacrime e alla fine sono stato coinvolto nel loro applauso caloroso e grato. Quegli uomini in quel momento hanno ritrovato il senso vero della loro dignità, quella che nessuna colpa potrà mai cancellare. Ecco l’ospedale da campo di cui l’uomo ha bisogno, nel quale sentire curate le proprie piaghe da una presenza amorevole quasi fisica, da quella ‘fisicità’ che Papa Francesco concede attraverso la sua persona a tutti”.

Da un anno don Francesco Ventorino è cappellano del carcere di Piazza Lanza a Catania. E lui che nella sua lunga vita di sacerdote ha fatto di tutto, il prete di periferia e il professore, l’autore di saggi di teologia e l’iniziatore del movimento di Comunione e liberazione in Sicilia e di cento altri inizi, quando parla della sua esperienza in carcere l’impressione che ti investe è quella di un inizio nuovo, di nuove vite. L’ultima avventura, o l’ultimo avvenimento di Grazia di questa sua missione, direbbe lui, l’ha raccontato lui stesso qualche giorno fa sull’Osservatore Romano, in prima pagina. E’ il matrimonio celebrato dietro le sbarre di un detenuto che ha voluto “dare alla sua donna la dignità di sposa”, e ai suoi figli “la coscienza di appartenere a una vera famiglia”.
E’ l’anno del Sinodo della famiglia, la comunione ai divorziati e le famiglie patchwork sono problemi concreti e di soluzione teorica non semplice per la Chiesa. Don Ciccio, così lo chiamano tutti, racconta che basta andare in un luogo come il carcere, per certi versi specchio fedele del mondo che sta fuori, per accorgersi che la famiglia, il matrimonio come indissolubile sacramento e tante altre cose – di quelle che in teoria pertengono alla vita “normale” – per la maggior parte delle persone non sono più niente. Semplicemente non ci sono più. E allora, don Francesco come Papa Francesco si domanda: da dove si ricomincia? Dalla predicazione della morale? Ascoltare don Ciccio vale più di tanti ragionamenti.

A un anno dall’elezione, il meno che si possa dire è che Papa Francesco sta riavvicinando alla Chiesa moltissime persone, attratte dalla sua grande umanità e dalla sua fede. Sta trasformando il volto della Chiesa, per alcuni forse troppo. E’ davvero “troppo”?
“Credo che l’intenzione che ha mosso il nuovo Papa fin dall’inizio del suo ministero petrino, dichiarata poi nell’intervista rilasciata al direttore della Civiltà Cattolica, padre Antonio Spadaro, è stata quella di mostrare una Chiesa capace di ‘riscaldare il cuore’ della gente con la sua misericordia. Nella misericordia splende, infatti, in modo particolare l’amore di Dio: è quella bellezza che commuove e convince, che ha la capacità di attrarci attraverso il visibile all’invisibile. E’ il misterioso scopo e metodo dell’Incarnazione. La bellezza – denunciava Von Balthasar – ‘non è più amata e custodita nemmeno dalla religione. Se essa viene strappata come una maschera al suo volto, mette allo scoperto dei tratti che minacciano di riuscire incomprensibili agli uomini’. Raramente mi era capitato nella mia lunga esperienza sacerdotale di sentire penitenti o carcerati citare il Papa. Quest’uomo è riuscito ad avvicinarsi alla loro vita e alla loro umanità in modo talmente significativo e determinante che, per esprimere se stessi, essi usano le sue parole nelle quali si sentono perfettamente compresi”. E tutto questo, prosegue Ventorino, “a causa anche di una efficacia particolare che c’è nel suo modo di comunicare: parole chiave che sintetizzano dottrina e conseguenze etiche, immagini che si imprimono nella mente e aiutano la memoria e soprattutto gesti, tanti gesti. Non credo che questo vada a scapito della integrità e della radicalità della proposta cristiana, piuttosto ne evidenzia l’essenziale. Nell’intervista citata il Papa disse testualmente: ‘La Chiesa a volte si è fatta rinchiudere in piccole cose, in piccoli precetti. La cosa più importante è invece il primo annuncio: Gesù Cristo ti ha salvato!’”.

Tenere le parole di don Ciccio staccate dalla sua storia, dal suo sguardo, dall’impeto dei suoi 82 anni, non è possibile. Riflessione e azione, testimonianza e vita sacerdotale (“il ministero della bellezza”, secondo il titolo di un suo libro dedicato proprio all’essere sacerdoti) sono state per lui un tutt’uno unico e costante. Non sorprende che, del metodo di Bergoglio, avverta come una stessa pelle quel comunicare attraverso parole e gesti un Fatto, una bellezza. Del resto è così che è iniziata l’avventura di questo giovane prete catanese, ordinato nel 1954 e che aveva studiato filosofia alla Gregoriana di Roma. Tornato a Catania, nel 1959 gli era stato affidato l’incarico di assistente della Fuci e l’insegnamento della religione in un liceo classico. La faccenda iniziò lì, da un’impasse nella capacità di comunicare la fede ai giovani, come ha raccontato lui stesso molti anni dopo, nella “Vita di don Giussani” scritta da Alberto Savorana. “Se da un canto ero convinto della verità del cristianesimo, d’altro canto non riuscivo a renderlo interessante per la vita dei miei ragazzi… Non sapevo neanche a chi porre queste questioni in un contesto ecclesiale che, per lo più, viveva soddisfatto della massiccia presenza dei cristiani nella vita del paese”. Poi un giorno tre suoi alunni gli chiedono un salone per un incontro con una ragazza venuta da Milano e che, a loro dire, “faceva religione meglio di me”.
Racconta don Ciccio: “Una volta fui preso dalla curiosità e andai a vedere. Trovai la sala piena di giovani che facevano quello che appresi essere il raggio con questa ragazza che presiedeva, dava la parola a ciascuno e alla fine tentava una sintesi. Era una ragazzina bionda e slanciata, di soli quindici anni”. Ascoltandola, don Ventorino si rende conto di aver trovato quel che aveva cercato invano: un metodo di vita cristiana. “Dopo l’incontro le chiesi da chi avesse appreso le cose dette e lei cominciò a parlarmi di un certo don Giussani, che aveva avuto come insegnante di religione solo per un anno, a Milano”. Quell’estate del 1960 andò fino sulle Dolomiti, al Passo di Costalunga, per incontrarlo: “Ricordo che ho partecipato solo una giornata, ma essa mi confermò nella intuizione che avevo avuta: quell’uomo aveva il segreto che io cercavo. A ciascuno veniva proposto di rifare l’esperienza dei primi discepoli”. Se ne andò con le bozze di un libro, rievoca Savorana, “Tracce di esperienza cristiana”, che sarebbe stato stampato di lì a poco: “Lo sguardo di don Ventorino si fissa su questa frase: ‘Cristo era l’unico nelle cui parole tutta la loro esperienza umana si sentiva compresa e i loro bisogni presi sul serio, e portati alla luce là dove erano inconsapevoli e confusi. Le loro esperienze, i loro bisogni, le loro esigenze sono loro stessi, quegli uomini lì, la loro umanità stessa’”.
Da allora la storia di don Francesco Ventorino è stata tutt’uno con la storia di Cl, che ha contribuito a far nascere e diffondere in Sicilia e nel sud d’Italia. Quella idea forte che il cristianesimo non si comunica, in primis, con le idee ma con l’incontro di un’esperienza viva, credibile, (“la premessa da cui era partito don Giussani era la constatazione che il cristianesimo non diceva più niente a nessuno”) gli è rimasta appiccicata come la pelle. Con una passione per le periferie esistenziali che oggi, in cattivo giornalese, si direbbe profetica. Come quando, nel 1972, si trasferì al Villaggio Sant’Agata, un quartiere nuovo alla periferia di Catania. “Era la famosa ‘scelta per i poveri’, che però noi volevamo vivere secondo una logica ecclesiale, come segno della presenza della Chiesa nel quartiere”, racconterà molti anni dopo. “Io, il parroco e don Pino Ruggieri costruimmo a nostre spese un prefabbricato, che comprendeva chiesa e abitazione. Una decina di giovani famiglie vennero ad abitare lì. Fino al 1975 fu un’esperienza bellissima, incontrammo tanta gente”.

Torniamo all’oggi. Eugenetica, ideologia gender, cultura gay, attacco alla famiglia sono sfide evidenti a tutti. Secondo molti, anche nella Chiesa, la risposta deve ripartire dal ribadire la dottrina tradizionale, sic et simpliciter, e da una più dura dialettica amico-nemico, anche di tipo politico-religioso. E’ giusto o no? E soprattutto, può essere sufficiente?
“A parte il fatto che non si può accusare Papa Francesco di aver taciuto sul diritto alla vita da parte di tutti, basterebbe leggere attentamente il discorso tenuto ai medici cattolici il 20 settembre dell’anno scorso, dove si attacca frontalmente quella che viene definita la ‘cultura dello scarto’, ‘che oggi schiavizza i cuori e le intelligenze di tanti’, e che ha ‘un altissimo costo’, poiché ‘richiede di eliminare esseri umani, soprattutto se fisicamente o socialmente più deboli’. Questo tema è stato affrontato anche nel messaggio che ha inviato alle chiese di Gran Bretagna e Irlanda per la Giornata per la Vita 2013 dove, nel ricordare l’insegnamento di sant’Ireneo che la gloria di Dio è visibile nell’essere umano vivente, invita tutti ‘a lasciare che la luce di quella gloria splenda in modo tale che tutti arrivino a riconoscere l’inestimabile valore di ogni vita umana’. Anche i più deboli e i più vulnerabili, i malati, gli anziani, i non nati e i poveri, – aggiunge – ‘sono capolavori della creazione di Dio, fatti a sua immagine, destinati a vivere per sempre, e meritevoli della massima riverenza e rispetto’”.

Di queste affermazioni, chiarisce Ventorino, “se ne potrebbero citare tante altre che riguardano anche la verità naturale della famiglia e della sessualità umana. Ma credo che qui bisogna intendersi sui modi e le condizioni perché queste riaffermazioni dottrinali siano efficaci, cioè risultino comprensibili e accettabili. Infatti, se è vero che certi valori cristiani per la loro ragionevolezza sarebbero riconoscibili anche da una intelligenza non credente, purché sia lealmente aperta a quelle evidenze originarie che la propria coscienza può suggerire a ogni uomo, è altrettanto vero che essi, pur avendo una loro intrinseca ‘naturalezza’, sono divenuti visibili allo sguardo dell’uomo così come storicamente è fatto e accettabili dalla sua volontà solo nel contesto culturale aperto dal cristianesimo e rivitalizzato continuamente dalla presenza della Chiesa. Quando questa viene meno o si affievolisce, come sta accadendo soprattutto nella nostra vecchia Europa, si esaurisce quell’alimento essenziale del quale i valori umanistici si sono nutriti. Papa Francesco dimostra di aver compreso profondamente questa verità e questo nesso essenziale tra fede e ragione e, a partire da tale presupposto, imposta le sue priorità nella evangelizzazione. ‘Non possiamo insistere – diceva il Papa ad Antonio Spadaro – solo sulle questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale e uso dei metodi contraccettivi. Questo non è possibile. Io non ho parlato molto di queste cose, e questo mi è stato rimproverato. Ma quando se ne parla, bisogna parlarne in un contesto. Il parere della Chiesa, del resto, lo si conosce, e io sono figlio della Chiesa, ma non è necessario parlarne in continuazione’. E ancora: ‘Gli insegnamenti, tanto dogmatici quanto morali, non sono tutti equivalenti. Una pastorale missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine da imporre con insistenza. L’annuncio di tipo missionario si concentra sull’essenziale, sul necessario, che è anche ciò che appassiona e attira di più, ciò che fa ardere il cuore, come ai discepoli di Emmaus. Dobbiamo quindi trovare un nuovo equilibrio, altrimenti anche l’edificio morale della Chiesa rischia di cadere come un castello di carte, di perdere la freschezza e il profumo del Vangelo. La proposta evangelica deve essere più semplice, profonda, irradiante. E’ da questa proposta che poi vengono le conseguenze morali’”.

Don Francesco non è solo un uomo di pastorale. Ha scritto libri di filosofia e di teologia morale (“l’Amicizia coniugale”), ha insegnato ontologia ed etica. Quando gli chiediamo perché, a suo parere, anche tra cattolici, quelle parole di Bergoglio destano perplessità, sono lette come un cedimento al mondo, parte proprio dalle cime della teologia.
“Secondo me la questione è teologica e riguarda la vera novità portata nel mondo dal cristianesimo. San Tommaso d’Aquino insegnava che ‘l’elemento principale della nuova legge è la grazia dello Spirito Santo, che si manifesta nella fede che agisce per mezzo dell’amore’. Il cristianesimo comincia, quindi, come grazia di un incontro attraverso il quale lo Spirito Santo ci persuade della verità di Cristo e quindi ci ammette al dono della fede. Questa poi cambia il mondo attraverso l’amore da noi ricevuto ed espresso nel nostro agire. La moralità cristiana – diceva un prete che ha formato diverse generazioni alla fede, don Luigi Giussani – è innanzitutto un’attrattiva, un’attrattiva da assecondare. E’ importante, dunque, – afferma Papa Francesco nella sua Evangelii Gaudium – trarre le conseguenze pastorali di questo insegnamento. ‘Quando la predicazione è fedele al Vangelo, si manifesta con chiarezza la centralità di alcune verità e risulta chiaro che la predicazione morale cristiana non è un’etica stoica, è più che un’ascesi, non è una mera filosofia pratica né un catalogo di peccati ed errori. Il Vangelo invita prima di tutto a rispondere al Dio che ci ama e che ci salva, riconoscendolo negli altri e uscendo da sé stessi per cercare il bene di tutti. Quest’invito non va oscurato in nessuna circostanza! Tutte le virtù sono al servizio di questa risposta di amore. Se tale invito non risplende con forza e attrattiva, l’edificio morale della Chiesa corre il rischio di diventare un castello di carte, e questo è il nostro peggior pericolo’ (n. 39). Le perplessità dei cattolici di fronte a questo proposito dichiarato nascono dal temere che questo modo di procedere porti a un cedimento, nel senso di una relativizzazione di tutto ciò che non è essenziale, o che nel frattempo si affermino modi di pensare e di fare irreversibili. Ma chi di noi sarebbe convinto da una precettistica etica (anche se alta e nobile) scissa dall’amore a Cristo come la sorgente del significato e della speranza della vita?”.
Torna in mente, per chi lo conosce, un episodio di quasi vent’anni fa. Lo si ritrova anche questo nella biografia di Savorana. Quando nel 1995, in un dialogo con alcuni responsabili di Cl, don Ciccio parlò della “sorpresa di trovarmi di fronte a un uomo che guarda la realtà, che ci conduce a poco a poco a guardare le cose, a una profondità alla quale da soli non si potrebbe arrivare”. E Giussani, di rimando: “Sguardo e non criterio. Lo sguardo è una vita che vive, che tende, desidera, stima, in qualche modo ama. Criterio è una pura applicazione mentale, di tecnica mentale, in cui il maestro supremo non è stato Gesù Cristo, ma sono stati Kant e Hegel”.

Il Papa nella Evangelii gaudium dice: “Il discepolo di Cristo sa offrire la vita intera e giocarla fino al martirio come testimonianza di Cristo, però il suo sogno non è di riempirsi di nemici, ma piuttosto che la Parola venga accolta”. E anche “di frequente ci comportiamo come controllori della grazia e non come facilitatori. Ma la Chiesa non è una dogana, è la casa paterna dove c’è posto per ciascuno con la sua vita faticosa”. La tua esperienza nel movimento di Comunione e liberazione in tutti questi anni lo testimonia, così come quella recente in carcere. Tu dici spesso, anche nell’articolo sull’Osservatore Romano che citavamo all’inizio, che ciò che convince è la bellezza, non l’idea astratta, anche se giusta. Lo puoi spiegare meglio?
“Nell’articolo sull’Osservatore Romano racconto di un detenuto della casa circondariale di Catania, dove svolgo il mio servizio di cappellano, che dopo ventisette anni di fedele convivenza, dalla quale sono nati figli e nipoti, ha espresso il desiderio di sposarsi. Lo doveva alla sua donna – mi ha detto – per darle la dignità di sposa; lo doveva ai suoi figli per dar loro la coscienza di appartenere a una vera famiglia; lo doveva a se stesso e alla sua coscienza di cristiano. Non aveva però la possibilità di comprarsi neanche la cravatta, figuriamoci poi gli anelli nuziali e tutto il resto. Racconto anche come attorno a questa richiesta si fosse creata tra gli altri detenuti una grande attesa della risposta che avrebbe dato la Chiesa. Nei quartieri poveri, infatti, della nostra città è invalsa l’opinione che si sposano in chiesa soltanto coloro che se lo possono permettere, perché per sposarsi bisogna affrontare una spesa considerevole. Ebbene le amicizie che ho avuto l’opportunità di crearmi nei miei lunghi anni di ministero sacerdotale mi hanno messo in grado di provvedere nel miglior modo possibile a tutto l’occorrente. Uno degli orafi più noti della città ha regalato le fedi nuziali e ha aggiunto anche una somma in denaro per i bisogni degli sposi; un notaio mi ha dato uno dei suoi migliori vestiti da cerimonia; altre persone hanno pensato alla sposa, ai dolci e ai confetti e perfino ai fiori con i quali addobbare l’altare, costruito all’interno di una sala del carcere destinata ai colloqui dei detenuti con i familiari. Ogni volta che emergeva un bisogno leggevo negli occhi del futuro sposo come una sfida alla carità della Chiesa. Il rito del matrimonio si è svolto alla presenza dei familiari, dei testimoni, della direzione della casa circondariale, del comandante e di tanti agenti della polizia carceraria ed è stato anche allietato da un coro improvvisato dai volontari che collaborano con me. Al momento delle promesse coniugali gli sposi sono stati afferrati da una commozione grande e a stento sono riusciti a pronunziare le parole della formula; come raramente oggi accade anche tra i giovani che iniziano la loro convivenza coniugale. Avevano compreso che con il sacramento il loro amore si inseriva in quello di Cristo per la sua Chiesa e richiedeva, pertanto, altrettanta fedeltà e gratuità, una donazione assoluta, fino alla morte. Il contesto creato dalla carità ecclesiale rendeva loro più credibile quello che professavano con le loro parole. Tutti mi hanno detto che quel matrimonio ha reso più glorioso il volto di Cristo in quell’ambiente; quel volto di misericordia che Papa Francesco non smette mai di suggerirci e che rende più umana la vita in qualunque situazione. Racconto anche come dopo quell’evento le richieste di matrimonio religioso da parte dei detenuti si siano moltiplicate. Mi sembra un bell’esempio di come sia la bellezza di un gesto a convincere della sua verità e della sua necessità per la vita dell’uomo e del cristiano, e non un discorso astratto, anche se vero e stringente sul piano logico-dialettico”.

Papa Francesco privilegia molto la “fisicità” del cristianesimo, la prossimità. Abbraccia, bacia… Per alcuni anche troppo. Non mi sembra lo faccia perché è sentimentale. Lui dice: “Sono un peccatore al quale il Signore ha guardato”, e questo lo rende credibile, è la metafora dell’“ospedale da campo”. Come giudichi o spieghi questa fisicità? Anche la tua esperienza di prete testimonia questo…
“Vale più un suo bacio dato a un bambino che un lungo e articolato discorso sul valore della vita umana. Tommaso d’Aquino ha affermato ancora che ‘al loro destino di felicità gli uomini sono ricondotti attraverso l’umanità di Cristo’, e per questo ‘la grazia prima ha colmato la sua umanità e da lì è derivata a noi’. ‘Non è il ragionamento astratto che convince l’uomo, – ha scritto don Giussani verso la fine della sua vita, quasi per svelare il segreto della sua fecondità sacerdotale – ma il trovare nell’umanità un momento di verità raggiunta e detta’”.

Oggi in occidente sta come cadendo, o è caduta, l’ultima barriera antropologica a difesa della persona, la sua integrità, libertà. La Chiesa è attaccata perché vi si oppone. Ma qual è il metodo giusto da seguire per i cristiani, nella vita pubblica, di fronte a leggi ingiuste? Serve una “controffensiva” come il Foglio, anche attraverso l’appello al Papa lanciato due settimane fa e che ha raccolto migliaia di adesioni, chiede alla Chiesa?
“Mi sembra molto emblematico rispetto al modo di affrontare queste questioni quanto Papa Francesco ha detto lo scorso 20 febbraio, aprendo i lavori del concistoro straordinario sulla famiglia: ‘La famiglia oggi è disprezzata, è maltrattata, e quello che ci è chiesto è di riconoscere quanto è bello, vero e buono formare una famiglia, essere famiglia oggi; quanto è indispensabile questo per la vita del mondo, per il futuro dell’umanità. Ci viene chiesto di mettere in evidenza il luminoso piano di Dio sulla famiglia e aiutare i coniugi a viverlo con gioia nella loro esistenza, accompagnandoli in tante difficoltà, con una pastorale intelligente, coraggiosa e piena d’amore’. La sfida, dunque, per tornare a quanto dicevamo all’inizio, è sulla bellezza: aiutare l’uomo di oggi a riconoscere ‘quanto è bello, vero e buono formare una famiglia, essere famiglia oggi’ e il metodo è quello di offrirgli una compagnia misericordiosa, cioè ‘intelligente, coraggiosa e piena d’amore’. Non basta, infatti, mettere l’uomo di fronte all’ideale; è necessario offrirgli gli aiuti della Grazia perché divenga capace di colmare ogni giorno quel divario inevitabile che si crea tra il dover essere e l’essere a causa della debolezza mortale dovuta al peccato. Nel suo ‘Brand’, il grande drammaturgo norvegese Henrik Ibsen ha rappresentato una vita d’uomo consacrata alla realizzazione d’un concetto etico; voleva mettere in evidenza la fortezza d’animo di un individuo che, con logica inesorabile, intende rispondere a un’esigenza ideale: ‘O tutto o nulla’. Giunto a prezzo di ogni cosa cara alla fine della sua fatica sulla montagna dove sta la chiesa di ghiaccio, simbolo della perfezione, mentre una valanga lo seppellisce, grida guardando in alto: ‘Rispondi, Dio! Rispondimi nel momento della morte: per conseguire la salvezza non basta, all’umana volontà, il quantum satis?’. E una voce gli risponde: ‘Egli è Deus charitatis!’, cioè il Dio della grazia”.


© - FOGLIO QUOTIDIANO


Nessun commento:

Posta un commento