venerdì 27 febbraio 2015

“LA VITA? LA PRENDO SUL SERIO… E CIOÈ CON IRONIA”


Alessandro D'Avenia:
E’ diventato famoso con “Bianca come il latte, rossa come il sangue”. Ora nel suo nuovo romanzo, “Ciò che inferno non è”, parla della sua Palermo e di Don Puglisi, ucciso dalla mafia. Mentre di sé dice: “Ciò che conta non è essere sicuri di sé, ma essere sicuri di essere se stessi. Cerco di cominciare da me”. E su come bisogna vivere ha le idee (molto) chiare…
Sembra un cherubino, Alessandro D’Avenia. E chissà se lui la considera un’offesa. Però, D’Avenia con i suoi boccoli ricci, quasi biondi, e l’occhio azzurro ci si avvicina pericolosamente. E voi vi domanderete, a questo punto, cosa c’entra il suo aspetto fisico con i suoi romanzi: c’entra. Nella misura in cui la sua bellezza da un lato l’ha trasformato in un’icona per gli adolescenti, d’altro fa storcere il naso agli intellettuali. Troppo bello e pure troppo giovane. Ed invece non c’è nulla di giovane in Ciò che inferno non è, la vita di Don Puglisi, raccontata come una via crucis da D’Avenia:”Ho rinunciato alla retorica antimafia, agli eroi talmente in alto da essere inservibili per il vivere quotidiano. Eroe è chi fa bene il proprio lavoro, chi afferma l’altro con la propria vita. Questo hanno fatto Falcone, Borsellino, Puglisi”, dice lui. Glissa, invece, sulle domande più frivole relative alla sua bellezza. Confessa: “Dico sempre che la vita, se la prendi sul serio (cioè anche con ironia) ha sempre il miglior copyright“. Ecco il ritratto di uno scrittore che può andare (molto) lontano.


D’Avenia la sua stessa vita sembra quasi un romanzo. Palermo, una famiglia di sei figli. Sceglie un mestiere “rischioso” come fare l’insegnante, diventa scrittore e il suo libro è subito un bestseller. E le ragazze la trovano anche molto bello. Si è reso conto di tutto ciò?
Dico sempre che la vita, se la prendi sul serio (cioè anche con ironia) ha sempre il miglior copyright. Ogni vita, se non rinuncia alla sua altezza, diventa qualcosa di grandioso. Io in fondo volevo solo fare l’insegnante di liceo, ma ci ho messo tanta di quella passione che alla fine tutto l’amore dato mi sta tornando indietro con gli interessi. Mi sono reso conto e ho avuto paura: non sono all’altezza di tutto questo e per questo mi godo tutto questo come un dono, senza sopravvalutarlo. Se le ragazze mi trovano bello è solo merito dei miei genitori. Ma quando hai un teatro pieno di ragazzi in orario non scolastico per un professore che parla di libri, la bellezza di cui stiamo parlando è un’altra. Quella estetica, se c’è, passerà in fretta. La bellezza delle parole, quella resta. I ragazzi cercano questo: progetti, non oggetti”.
Ora ha scritto Ciò che Inferno non è: un inno civile. Poteva limitarsi a fare lo scrittore carino e intellettuale. Perché ha scelto di cambiare?
“Non programmo le mie storie. Questa non la volevo scrivere, stavo già lavorando ad altro. Ma il bello delle storie è proprio questo: ti sorprendono e ti costringono a viverle. Quando ho cominciato questo libro mi sono detto: non so come fare. Quando l’ho finito, dopo tre anni, ho detto: non so come ho fatto. Fa parte del mistero della scrittura. Non ho scelto di cambiare, ho scelto di essere cambiato. E non c’è niente di meglio per uno scrittore: se la scrittura cambia te cambierà anche i lettori. Nei libri precedenti ho fatto lo stesso. Non lo vivo come un cambiamento, ma come un percorso di ricerca che spero non si esaurisca mai. La vita non è equilibrio come vogliono farci credere, ma tensione, continua apertura verso l’altezza, come l’alto mare aperto in cui si lancia l’Ulisse dantesco”.
Ciò che inferno non è è un romanzo che prende molto. E per la storia di Don Puglisi, ma anche perché lei sembra “intossicato’ da Palermo. Viene immediatamente l’urgenza di andarci. E’ questo l’effetto che voleva creare? Far pensare e ammaliare?
“Nella mia scrittura cerco sempre l’intelletto d’amore dantesco, cioè quella unione di cuore e testa che oggi sono divorziati nella vita di tutti i giorni. Si conosce solo ciò che si ama, e lo si conosce di più se lo si ama di più. Io amo la mia città e per questo ne vedo anche tutti i difetti. La amo di un amore vero, l’amore che nel darsi all’altro lo cambia proprio perché lo fa sentire non giudicato ma amato così come è. Ammaliare è compito di ogni arte, ma l’importante è che la seduzione conduca il lettore a se stesso, non all’autore. Solo quando il cuore è preso, la testa può comprendere. Non è un caso che in italiano abbiamo questo verbo così bello che unisce l’aspetto mentale e quello sentimentale: comprendere”.
Il suo romanzo è un omaggio a don Pino Puglisi che ha conosciuto. Ma anche agli eroi di tutti i giorni come lui?
“Palermo è il personaggio principale con cui tutti gli altri devono confrontarsi. Un teatro di luce e tenebra in cui si muovono uomini e donne di tutti i giorni, come nei quadri di Caravaggio. Ho rinunciato alla retorica antimafia, agli eroi talmente in altro da essere inservibili per il vivere quotidiano. Eroe è chi fa bene il proprio lavoro, chi afferma l’altro con la propria vita. Questo hanno fatto Falcone, Borsellino, Puglisi. Erano ottimi magistrati i primi due, un ottimo insegnante e sacerdote il terzo. A ciascuno di noi è chiesto l’eroismo quotidiano. Don Pino quando guardava un ragazzo sorrideva sempre, e così ne ampliava la vita. Diceva con quel sorriso: la tua vita è grande, siine all’altezza. So di un insegnante che entrato in classe il primo giorno di superiori ha guardato i trenta che aveva davanti e ha detto: “siete troppi, vi diminuiremo”. Ecco l’altra faccia della medaglia: il mondo o lo ampli o lo diminuisci. Il primo atteggiamento è impegnativo ma cambia il mondo in meglio, il secondo è facile e comodo e gli effetti sono deprimenti”.
Come vede Palermo oggi, ci torna spesso?
“Torno tutte le volte che posso. I miei genitori abitano lì. Il mio mare abita lì. Le mie vie. La vedo da turista: bellissima e da scoprire. Faccio fatica però ad accettarne il lato oscuro, che tutt’ora permane, anche se la città è diventata ancora più bella in questi ultimi anni”.
A proposito di giovani, alcuni ragazzi non hanno voluto leggere il suo libro perché l’argomento è troppo serio. Cosa direbbe a questi ragazzi se potesse parlare loro?
“Che lo leggano lo stesso, proprio perché ne hanno paura. La loro paura verrà ripagata in termini di speranza e bellezza. Se non cambia loro la vita in meglio… glielo rimborso”.
C’è molta empatia verso i ragazzini del Brancaccio. Lei dice che chiunque di noi sarebbe potuto crescere come loro. E’ forse il messaggio più importante del libro: non giudicare, non credersi migliore. Sbaglio?
“Sono stato in quei quartieri e ho visto situazioni di ogni tipo, proprio come nei quadri di Caravaggio. Squarci di luce fortissime e angoli oscuri. Solo se passi qualche giorno nelle scarpe di un altro puoi “comprenderlo”, ma se prima non cambi tu non puoi pretendere che cambi l’altro. Questo è ciò che impara Federico: amare è sporcarsi le mani, sbagliare, cadere, rialzarsi. Non bastano le chiacchiere. Quando capisce che lui è proprio come quei bambini allora può cominciare ad aiutarli, perché ha cominciato ad amarli”.
Il suo romanzo sembra scandito come una via crucis, lo sa?
“Mi interessava scavare dentro la cronaca e capire se c’era una storia più grande e ho scoperto che c’era la più grande di tutte. L’amore ha l’ultima parola, anche in una tragedia così. Chiunque lo leggerà si sentirà morire e risorgere. Come è successo a me nello scriverlo”.
Cosa risponde a chi la definisce uno scrittore per ragazzi?
“Che non ha letto i miei libri”.
Dice il suo protagonista : Ho il cuore pieno di desideri, sogni, cose belle. Però non ho la corazza. È lei a non avere la corazza? Lo sa vero che tutti hanno visto in Federico lei da ragazzo?
“Adesso ho un po’ più di corazza, ma il cuore è rimasto di carne”.
E ultimo: come si comportano con lei alunni, vicini, conoscenti? Come con uno scrittore famoso? E se si, lei è vittima del peccato veniale di sentirsi orgoglioso?
“Gli alunni ti vedono tutti i giorni: conoscono i miei difetti e i miei pregi. Proprio il continuare a insegnare, incontrare genitori, lottare per la vita dei ragazzi, mi impedisce di perdere il contatto con la realtà. Continuo a insegnare pur potendo smettere proprio perché voglio diventare un uomo migliore di quello che sono. E proprio perché a scuola, con tutti i fallimenti che comporta, trovo l’antidoto per non diventare orgoglioso quando mi capita. Preferisco essere fiero delle scelte che faccio: lo dico sempre ai ragazzi, ciò che conta non è essere sicuri di sé, ma essere sicuri di essere se stessi. E cerco di cominciare da me”
Lavinia Capritti


RESPONSABILITÀ CIVILE: FINE DEL "PARTITO DEI GIUDICI"?


di Robi Ronza


La responsabilità civile dei magistrati vige nel nostro Paese da oltre un quarto di secolo, ma finora non se ne è accorto quasi nessuno. In tutto questo tempo infatti in forza di essa si è giunti, soltanto secondo alcune fonti, a cinque, secondo altre a sei condanne, non una di più.

L’altro ieri - con il voto favorevole della maggioranza, l’astensione di Forza Italia, Lega, Sel e altri, e il solo voto contrario del Movimento Cinque Stelle -  la Camera ha definitivamente approvato la modifica di cinque cruciali articoli della legge nota come “legge Vassalli” con cui, nel 1988, la responsabilità civile dei magistrati era stata introdotta nel nostro ordinamento. Innanzitutto le Corti d’Appello non sono più chiamate a decidere sull’”ammissibilità” delle cause in materia: un filtro che aveva sin qui contribuito a ridurle al minimo. Finora poi il magistrato era punibile solo per “dolo o colpa grave” mentre adesso può esserlo anche per “inescusabile negligenza”, concetto positivamente ben più ampio. Inoltre gli si può imputare il “travisamento del fatto o delle prove”. Tenuto poi conto di quanti e quali danni materiali e morali accade subiscano in fase istruttoria nel nostro Paese imputati in seguito prosciolti in sede di giudizio, è molto importante che, in forza delle modifiche ora introdotte nella legge Vassalli, sia colpa grave per il magistrato anche l’emissione di un “provvedimento cautelare personale o reale al di fuori dei casi consentiti dalla legge” o comunque senza adeguato motivo. Tra l’altro, in forza di tale innovazione non dovrebbero più essere possibili iniziative obiettivamente sconsiderate come, ad esempio, il sequestro cautelare in quanto “corpi del reato” dei prodotti delle acciaierie di Taranto pronti per la consegna, con conseguenti danni all’azienda per svariati milioni di euro.


Felice del risultato, il ministro Guardasigilli Andrea Orlando - che, in grazia dell’impiego, dovrebbe essere malgrado tutto l’”avvocato d’ufficio” dei magistrati -  è arrivato a dire che d’ora in avanti “la giustizia sarà meno ingiusta”. Il che è comunque vero, perché dovrebbe esser finito il tempo in cui un giudice poteva senza adeguati motivi avviare un’indagine, iscrivere qualcuno al registro degli indagati, sequestrare, arrestare e rinviare a giudizio. Commentando l’entrata in vigore delle nuove norme, il ministro Orlando ha anche parlato di “momento storico”. E si può essere d’accordo con lui, non tanto e non solo per il fatto in sé, ma anche e soprattutto perché l’episodio è sintomatico del venir meno della principale eredità di “Tangentopoli”, ossia l’alleanza fra il Pd e il “partito dei giudici”. Di fronte al procedere del disegno di modifica della legge Vassalli dapprima l’Associazione Nazionale Magistrati, ossia il “sindacato unico” dei giudici, aveva minacciato lo sciopero, poi rinunciandovi avendo compreso che la stampa amica del governo era pronta a prenderne spunto per lanciare una campagna contro la magistratura, e poi aveva  chiesto invano di venire ricevuta da Napolitano e poi da Mattarella. Prendendo la parola a Firenze alla Scuola Superiore della Magistratura, proprio alla vigilia del voto sul provvedimento, Mattarella aveva anzi fatto un discorso ammonitore in cui aveva tra l’altro invitato i giudici a essere “terzi, autonomi e imparziali” sottolineando che non devono essere “né protagonisti né burocrati nel processo”. 

Tutto questo insieme di fatti e di parole aiuta a capire che insieme a Silvio Berlusconi stanno tramontando anche i motivi di un’alleanza ormai divenuta ingombrante. Meglio così e complimenti a Renzi per essere riuscito in un’impresa non meno ardua dell’analogo processo di distacco del Pd dai sindacati storici, e dalle procedure neo-corporative che erano riusciti ad imporre a tutti i precedenti governi. 

Il Pd di Renzi sta ricuperando spazi alla politica, anche se ovviamente lo fa pro domo sua.  Resta da vedere se anche nell’area di centro-destra, oggi allo sbando e dove nessun nuovo leader credibile si delinea all’orizzonte, finirà per apparire qualcuno in grado di dare rappresentanza politica a un’area  che pur essendo maggioranza del Paese è oggi minoranza nelle istituzioni.

lanuovabussola 26-02-2015


mercoledì 25 febbraio 2015

NEGRI: «DON GIUSSANI? UN'UMANITÀ SFOLGORANTE»



di Riccardo Cascioli
22-02-2015 lanuovabussola



Negri e Giussani
«Ragazzi, devo dirvi una cosa: se nascessi cento volte farei sempre il lavoro che sto facendo». Era il 1957, così esordì don Luigi Giussani - oggi ricorre il X anniversario della sua morte -  nella prima lezione dell’anno entrando in classe nella I liceo classico del Berchet a Milano. In quella classe c’era un ragazzo di nome Luigi Negri, oggi arcivescovo di Ferrara-Comacchio, che ricorda quell’episodio come esemplare dell’«umanità sfolgorante» di don Giussani. «Nessuno dei miei insegnanti – ricorda monsignor Negri, che di don Giussani è stato tra i più stretti collaboratori nella guida del movimento di Comunione e Liberazione - mi aveva neanche lontanamente accennato a questa straordinaria sicurezza. Tutti, poco o tanto, desideravano altro perché il presente non corrispondeva alle loro esigenze». 

Una certezza che l’aveva colpita. Ma cosa l’ha spinta a seguire don Giussani?
Mi ha colpito la sua umanità. Non è che allora la vita nella società, e anche i rapporti che c’erano tra i ragazzi fossero tutti meschini, violenti, istintivi come purtroppo capita spesso tra i ragazzi di oggi. C’era allora una gamma variegata di testimonianze di quella cosa che univa gli uomini: il senso della propria umanità, il senso della propria dignità, della propria responsabilità, che poteva articolarsi in forme e modi diversi, con opzioni culturali e dialogiche diverse, ma c’era una natura che ci univa. In questa natura uguale, c’erano fattori sfolgoranti. Giussani era un’umanità sfolgorante, cioè un’umanità piena, in cui c’entrava il modo in cui insegnava religione, il modo con cui rideva e scherzava con i suoi allievi, il modo con cui pregava, il modo con cui viveva qualsiasi momento della sua esistenza. Tanti anni dopo, ma tanti anni dopo, forse già vescovo, ho capito il senso della grande frase di San Paolo: «Sia che mangiate sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fatela per Cristo». Io avevo poco più di 16 anni e questo l’ho visto in una esperienza umana. Ma la radice di questa umanità non era in lui, la radice di questa umanità nuova era stata l’incontro straordinario della sua esistenza con quel Gesù Cristo che i suoi genitori gli avevano comunicato, e la sua parrocchia aveva reso cammino inesorabile, tranquillo, sicuro, della sua infanzia e della sua adolescenza fino all’ingresso in seminario.

Nell’episodio citato in apertura, emerge la diversità assoluta di don Giussani rispetto all’ambiente umano circostante. Eppure stiamo parlando di un’Italia ancora cattolica.
Come Giussani ha detto tante volte, nei licei classici italiani cominciava allora quella inesorabile scristianizzazione della vita del nostro popolo che aveva come conseguenza la sostituzione di una cultura ancora formata dalla tradizione cattolica, con una cultura laica, atea, laicista. E questo passò attraverso una deformazione sistematica dei contenuti dell’insegnamento, quelli più determinanti per la mentalità: letteratura, storia, filosofia, arte. Lui ci aiutò a contrapporre a questo attacco violento l’imperturbabile serenità di chi aveva trovato una cultura adeguata nella sua vita. Vorrei che tutti quelli che hanno parlato di Giussani, dentro e fuori del movimento di Comunione e Liberazione, avessero anche soltanto una iniziale percezione di questa novità di attacco al mondo, adesso che si predica da tutte le parti che nel mondo non ci si deve essere per attaccare qualcosa, ma essere lì silenti e sbigottiti a vedere che il mondo si rovina.

Quella che lei ha descritto di Giussani è una grande forza attrattiva. Oggi “attrazione” è quasi una parola d’ordine, si dice giustamente che il cristianesimo si diffonde per attrazione. Ma su cosa significhi attrazione ci sono spesso ambiguità. A volte sembra essere identificata con una bellezza di vita personale, qualunque cosa questo significhi, che basterebbe da sola ad attirare l’attenzione degli altri.
L’attrazione di cui parliamo è un’attrazione umana. Nell’umanità c’è dentro la capacità di ragionare, nell’umanità c’è dentro tutta la gamma delle esperienze umane. Non si può decidere dove passa l’attrattiva e dove non passa. Soprattutto non si può decidere perché è da imbecilli pensare di essere noi a definire l’ambito dove l’attrattiva si fa presente. L’attrattiva di Giussani era tutta la sua vita, perciò quando giudicava facendo scuola era attraente come quando ci portava in montagna. Dire che essere attraenti oggi vuol dire andare in montagna e non giudicare il mondo in cui noi viviamo, è quella «mediocrità dolce» di cui parla Giussani nel suo ultimo straordinario libro su cui sto facendo il ringraziamento della messa tutte le mattine. E lo consiglierei a tutti quelli che parlano e straparlano di Giussani. “In cammino (1992-1998)" dice che la «mediocrità dolce» sta distruggendo la società, si augura che non distrugga anche la Chiesa.

Quindi attrazione è anche invito agli altri a seguire, implica il "Vieni e vedi".
L'attrazione è invito. È l’invito agli altri, perché l’attrazione esprime una testimonianza e la testimonianza non richiama sé: la testimonianza richiama ciò per cui io sono così. Attraverso la testimonianza di Giussani abbiamo incontrato Gesù Cristo, perché Gesù Cristo era la radice della sua diversità, ma della diversità con cui viveva tutto: questa diversità passava attraverso tutto.

C’è un episodio che don Giussani ha raccontato spesso e che risale all’inizio del suo insegnamento al Berchet, ovvero quando chiese chi fossero quegli studenti che si ritrovavano sempre insieme al secondo piano della scuola. Erano “i comunisti”, ma la loro unità era ciò che mancava ai cristiani in quell’ambiente. Nel Cristianesimo l’unità visibile si chiama comunione, e non per niente questa è la parola che definisce lo stesso movimento di CL. Anche qui Giussani introduce una novità, un metodo nuovo…
…Che tra l’altro è il metodo della Chiesa: «Dove due o tre saranno presenti in nome mio io sarò con loro fino alla fine del mondo». Queste sono Ipsissima verba domini (parole assolutamente pronunciate da Gesù). “Dove due o tre saranno presenti in nome mio”, significa una unità sociale, visibile, evidente, consapevole di tutti i propri limiti. Io ero fra i quattro, ricordati spesso da Giussani, che si sono alzati in quell’assemblea di centinaia di studenti e ricordo di avere detto con serena tranquillità: «Noi studenti cattolici del Berchet...». È una presenza obiettiva che, pur carica dei propri limiti, ha la consapevolezza di portare ciò che il mondo non conosce e che magari senza esserne consapevole attende. Allora al Berchet non è che non fossero singolarmente cristiani, ma il cristianesimo come diceva lui, divenne un fatto reale nella scuola con lui. Divenne un fatto perché era una presenza unitaria, socialmente evidente; come diceva Plinio al suo amico imperatore: «Un popolo di terzo genere». E come disse il beato Paolo VI nell’udienza del 28 giugno 1972: «una entità etnica sui generis». Ogni tanto quando sento parlare del cristianesimo silenzioso, del cristianesimo che non si impone, che non travolge, soprattutto che non dice niente di esplicito per non violare la coscienza altrui – ma fosse così Gesù Cristo non avrebbe detto “sono il Figlio di Dio”, perché è la cosa più devastante della storia della cultura universale -,  mi viene in mente che adesso uno che entrasse in un ambiente, qualcuno gli si avvicinerebbe e direbbe sottovoce: "Qui qualcuno è cristiano ma preferiamo non dirlo".

Qualche tempo fa, in una intervista, lei parlava del suo incontro quotidiano con don Giussani che dura tuttora. Cosa ha significato don Giussani per la sua vita?
Quando reincontro quotidianamente nella comunione dei santi il mio grande amico monsignor Giussani, mi sento come qualunque cattolico di Milano che entra nella grande, straordinaria costruzione che la fede del popolo di Dio ha eretto alla Madonna. Ma tutta questa enorme grandezza poggia su una piccola pietra posta all’inizio, all’ingresso: «Mariae nascenti». Tutta la grandezza e lo sviluppo è l’espressione commossa, grata, di quella cosa piccola come può essere una donna nella vita nella storia e un uomo nella vita della storia. Ecco, Giussani per me è qualcosa che mi ha travolto nella sua grandezza e nella sua straordinaria umanità, ma alla radice del suo cuore c’era l’amore a Cristo, alla Chiesa, alla Madonna. E questa è la prima grande cosa che evocava in ciascuno di noi, che metteva in moto in ciascuno di noi.


GIUSSANI MAESTRO DEL NUOVO ANNUNCIO DI CRISTO


di Robi Ronza
22-02-2015

Dieci anni or sono, il 22 febbraio 2005, moriva a Milano don Luigi Giussani. Liberando la memoria dalle semplificazioni massmediatiche di cui fu oggetto mentre era in vita, il tempo da allora trascorso rende oggi più facile cogliere il suo rilievo nella storia della Chiesa e della società del Secolo XX.

Maestro nella fede di vivissimo carisma, ma nel medesimo tempo grande teologo-filosofo ed educatore, Luigi Giussani è stato una delle personalità di maggior peso di quel movimento di riannuncio di Cristo e del suo Vangelo al tramonto dell’età moderna che inizia alla fine del secolo XIX con  John Henry Newman e il suo fondamentale Saggio per una grammatica dell’assenso (1870). Un movimento che trova poi tempestivo riflesso e sviluppo nel magistero papale dell’epoca, da Leone XIII all’attuale Pontefice. E sistematizzazione nel Concilio Vaticano II che, al di là del suo fondamentale ruolo di catalizzatore del processo, ne fu in sostanza assai più un frutto che una fonte.

Giussani fu un uomo, un cristiano di tale statura. Oggi è il caso di cominciare a riconoscerlo, il che è forse più difficile per i numerosi amici e discepoli che ha lasciato su questa terra che non per l’opinione pubblica in genere. Paradossalmente chi ha un ricordo diretto della sua intensa amicizia, o comunque della sua incondizionata prossimità umana con chiunque incontrasse, fatica talvolta a coglierne la statura assai più di chi l’ha visto da lontano. Giussani è stato il grande maestro del riannuncio di Cristo alla fine dell’età moderna, in un mondo largamente secolarizzato e nel quale l’eredità pedagogica e devozionale del Concilio di Trento e della Riforma cattolica non hanno più alcuna presa, non suscitano più interesse alcuno. 

Tra la pubblicazione nel 1870 del Saggio per una grammatica dell’assenso - in cui Newman argomenta il nesso necessario tra la fede e la ragione e sottolinea la congruità della risposta cristiana alle grandi questioni esistenziali - e l’uscita nel 1966 presso Jaca Book della prima edizione de Il senso religioso di Luigi Giussani trascorre un secolo. E’ il secolo in cui la civiltà dei Lumi entra in crisi, le ideologie “laiche” sviluppatesi nei Secoli XVIII e XIX falliscono tragicamente alla prova delle sfide del Secolo XX, lasciandosi dietro di sé una scia di sangue e di lacrime senza paragoni in tutta la storia dell’uomo; e nella Chiesa viene ad esaurirsi l’eredità teorica e pastorale del Concilio di Trento. Nella Chiesa il movimento di esperienze e di pensiero di cui dicevamo trova frattanto impulso e fondamento in figure, tra le altre, come Romano Guardini (1885-1968), Henri de Lubac (1896-1991), Hans Urs von Balthasar (1905-1988), Yves Congar (1905-1995) e infine Luigi Giussani. E pure il cristianesimo riformato vi contribuisce con pensatori e teologi come Reinhold Niebuhr, Karl Barth e altri. 

Non basta ovviamente tutta questa fioritura ad annullare la forza d’inerzia della storia, a causa della quale l’ateismo pratico, il nichilismo e il relativismo da fenomeni di élite - come erano fino a tutti gli anni ’60 del secolo scorso – sono divenuti fenomeni di massa. Il movimento di cui si diceva pone però il seme di una possibile futura ripresa dell’esperienza cristiana in cui si ha buon motivo di sperare, anche se la nostra generazione difficilmente potrà vederne la pienezza. A questo processo Luigi Giussani dà il contributo di un pensiero sorgivo, come bene è stato detto, e la testimonianza carismatica e molto convincente di una vita che la fede nella presenza di Cristo rendeva appassionata  e intensa. 
Per Giussani, infatti, la fede è il riconoscimento di una Presenza, l’incontro con la quale illumina ogni ambito della vita della persona dai rapporti umani al lavoro, alla vita sociale e politica. Di qui la sua forte critica alla ragione, così come viene intesa dall’Illuminismo, chiusa a priori a tutto ciò che non riesce a spiegare da sé; e disposta per questo anche alla censura dell'esperienza personale e della realtà. La fiducia in una ragione aperta alla fede è per Giussani la premessa metodologica per ogni seria ricerca della verità e per ogni seria analisi dell'esperienza religiosa.

Se tutto questo colloca Giussani, seppur appunto in modo sorgivo, dentro il movimento di esperienza e di pensiero di cui si diceva, sono nella sostanza soltanto suoi il carisma e il metodo pedagogico. Senza soffermarci qui su una vicenda già esaurientemente illustrata da Alberto Savorana in Vita di don Giussani, la sua biografia edita da Rizzoli nel 2014, diremo in breve che a metà degli anni ’50 del secolo scorso, lasciando per questo il suo posto di promettente professore di teologia al seminario diocesano, per quello di insegnante di religione in un liceo di Milano, Giussani vive e sviluppa l’esperienza, e quindi il metodo, che troverà poi sistematizzazione ne Il senso religioso (nuova edizione accresciuta), All’origine della pretesa cristiana e Perché la Chiesa. Pubblicati da Jaca Book tra il 1986 e il 1992 e attualmente editi da Rizzoli, i tre volumi costituiscono “Il percorso”; insomma un itinerario di educazione alla fede su misura per la gente del nostro tempo, così come Giussani l’aveva colta e descritta nel suo La coscienza religiosa nell’uomo moderno, Jaca Book 1985, un testo oggi contenuto ne Il senso di Dio e l'uomo moderno, Rizzoli 1994.

E’ questo il quadro in cui si situa il movimento di Comunione e Liberazione, la principale opera educativa di don Giussani, da lui guidata e animata fino all’ultimo respiro. Di CL, riconosciuto ufficialmente sotto il suo pontificato, nella sua lettera a don Giussani in occasione del 20° anniversario di tale riconoscimento, san Giovanni Paolo II scrive tra l’altro l’11 febbraio 2002: “Riandando con la memoria alla vita e alle opere della Fraternità e del Movimento, il primo aspetto che colpisce è l’impegno posto nel mettersi in ascolto dei bisogni dell’uomo d’oggi. L’uomo non smette mai di cercare (…) L’unica risposta che può appagarlo acquietando questa sua ricerca  gli viene dall’incontro con Colui che è alla sorgente del suo essere e del suo operare. Il Movimento pertanto ha voluto e vuole indicare non una strada, ma la strada per arrivare alla soluzione di questo dramma esistenziale (…)”. Senza ignorarne i limiti e gli errori, ma senza nemmeno dare ingiustificato credito ai troppi attacchi in male fede di cui è stato più volte oggetto, è ponendosi in tale orizzonte  che si può comprendere appieno il senso di CL nella storia della Chiesa del nostro tempo.

Robi Ronza è l'autore di "Il movimento di Comunione e liberazione", libro-intervista a don Luigi Giussani, rieditato nei mesi scorsi dalla BUR, con prefazione di don Julian Carron. 


venerdì 20 febbraio 2015

UN GRANDE INVITO ALLA CONVERSIONE


di Luigi Negri    19-02-2015

Questo è il testo del messaggio per la Quaresima inviato ai fedeli da monsignor Luigi Negri, Arcivescovo di Ferrara-Comacchio e Abate di Pomposa.

Carissimi figli e figlie, 
il messaggio che vi rivolgo all’inizio di questa Quaresima 2015 non può non far riferimento innanzitutto alla gravità della situazione in cui la società ed il mondo versano oggi: dai fenomeni sempre più gravi di disintegrazione della nostra vita sociale dovuta al permanere di una crisi economica gravissima - di cui forse si intravvede qualche spiraglio positivo, ma con la previsione di tempi lunghi per via della vastità del malessere che è in atto - alla situazione di assoluta precarietà in cui vive la società mondiale sotto l’urto della minaccia del fondamentalismo islamico che semina quotidianamente azioni efferate e disumane nella vita di interi popoli, spegnendo tante vite innocenti, moltissime delle quali giovani se non addirittura bambini. 
In ordine di tempo ricordo le parole, forti e accorate, di Papa Francesco che è intervenuto sull’uccisione dei 21 egiziani copti, «assassinati per il solo fatto di essere cristiani» il cui sangue «è testimonianza di fede». Questa minaccia si sta affacciando sulla vita del nostro Paese. Tali situazioni, che generano un forte senso di precarietà, ma anche sentimenti di angoscia e paura, mi spingono a rivolgervi, all’inizio di questa Quaresima, un grande invito alla conversione. Innanzitutto la conversione dell’intelligenza e del cuore.
Caravaggio, Conversione di San Paolo
Seguendo la vita e la missione del Signore Gesù Cristo, dobbiamo chiedergli l’umiltà con cui ha vissuto: totalmente aperto al Mistero, ogni giorno alla presenza del Padre. Noi dobbiamo imparare a vivere e a ragionare come il Signore, partecipando alla vita della Chiesa e vivendo la Quaresima come occasione che consente a ogni persona, ad ogni cristiano, di maturare integralmente nella sua identità cristiana e umana.
Non c’è fede senza dipendenza. Non c’è fede senza obbedienza. Non c’è fede senza assumere come criterio per affrontare la vita, personale e sociale, quei criteri che nascono dalla vita della Chiesa e dalla funzione di chi guida la Chiesa, secondo la certezza di Paolo espressa nella 1a Lettera ai Corinzi: «Noi abbiamo il sentimento di Cristo» (2,16). 
Raccomanderei particolarmente, perciò, che i momenti della vita della comunità - dalle celebrazioni eucaristiche all’omelia, ai momenti di incontro delle varie iniziative e delle varie attività - siano sostenuti dalla volontà di convertire la nostra intelligenza e il nostro cuore alla verità di Cristo che ci giunge dalla testimonianza della Chiesa. Alla conversione intellettuale e del cuore, che io ritengo assolutamente necessaria per vivere positivamente la tragedia in cui versano il nostro Paese e tutto il mondo, intendo aggiungere la necessità di vivere una vera carità verso i nostri fratelli uomini per i loro bisogni materiali e spirituali. Mai avvenga che cessiamo di sentire come nostra la vita e le fatiche dei nostri fratelli, affinché superiamo la diffusa concezione comoda e borghese della vita.  Impegniamoci a rinunziare a qualcosa a cui teniamo affinché tale rinunzia sia occasione di bene per i nostri fratelli uomini. 
La povertà che ci circonda è grande. Le risorse che la nostra comunità ecclesiale impegna nelle quotidiane iniziative caritative sono grandi. Posso dire, con assoluta tranquillità, che oltre a ciò che ci serve per vivere come Chiesa non abbiamo nessun’altra risorsa, poiché tutto è stato devoluto alla carità. Come non dirvi inoltre, fratelli e sorelle, che oltre a questa povertà materiale che ci interpella - ci mette in crisi, ci provoca, e potremmo anche dire che ci schiaffeggia facendoci uscire dal nostro comodo - c’è un'altra ancor più terribile povertà che è la povertà spirituale, la povertà etica, la povertà culturale. Mi riferisco al vuoto delle convinzioni e delle certezze che attanaglia la vita di tanti uomini e donne di oggi, li fa vivere in modo precario, minacciato da un sempre più inesorabile emergere di inconsistenze che spesso portano la vita ad un epilogo violento. Penso agli omicidi-suicidi che ormai segnano in maniera inesorabile la nostra società. 
Sentiamoci tutti richiamati ad una testimonianza che porti dentro la vita la grande ed unica certezza che il Signore è risorto ed è l’unica possibilità di salvezza per l’umanità di questo tempo e di ogni tempo. La Chiesa vive un momento gravissimo, in cui emergono grandi possibilità per un nuovo incontro con gli uomini - come mi sembra documentato da tante iniziative che il Signore ha premiato con successi significativi - e nel contempo caratterizzato da una grande debolezza: la debolezza di chi rischia di perdere la coscienza vera della fede, di chi non ha un discorso cristiano da vivere e da proporre, di chi unisce sprazzi desunti dalla vita della fede a una mentalità esclusivamente votata al pensiero unico dominante, di cui spesso parla Papa Francesco. 
Il pensiero unico dominante è una cosa totalmente negativa. Dobbiamo lottare contro di esso perché prevalga quel senso di appartenenza a Cristo che ci rende partecipi, in maniera gioiosa, sacrificata e creativa, dell’unica grande esperienza di Chiesa che si esprime tranquillamente in varietà di posizioni, di sensibilità, di carismi e di realtà ecclesiali. 
Vi raccomanderei di intensificare una preghiera costante alla Vergine Maria perché ci doni l’umiltà, come tante generazioni cristiane che ci hanno preceduto, di raccoglierci sotto il suo manto e da lì trarre quella inesorabile volontà di essere figli di Dio e fratelli e sorelle di Gesù Cristo, portando questa certezza fino alle estreme conseguenze. Vi benedico tutti di cuore.


DON GIUSSANI, CHE CI HA INSEGNATO A FARE DELLA FEDE UN INCONTRO CON LA REALTÀ

MONS. MASSIMO CAMISASCA
Febbraio 18, 2015 

«In lui ogni istante era avvenimento. Lo animava profondamente la tensione a non vivere mai nulla come scontato, come abitudine, ma come domanda a una Presenza»


Don Giussani è stato un genio dell’umano
A questa conoscenza dell’uomo egli è arrivato attraverso molte strade. Certamente attraverso una sua capacità di osservazione e penetrazione, attraverso l’ascolto, ma anche attraverso tanti maestri: i suoi insegnanti di seminario; i grandi della letteratura, della musica, dell’arte; e anche noi stessi, perché egli ha accettato di imparare (quasi di rubare) qualcosa da chiunque.

La sua conoscenza dell’uomo, che ha descritto ne Il senso religioso attraverso un’apologia della ragione e del cuore, lo ha reso capace di dire cose che possono interessare persone di ogni cultura, etnia, tradizione. È stato un uomo che cercava se stesso in ogni uomo, curioso dell’umanità di tutti e assieme un uomo che mendicava Cristo in ogni cosa. Così ne è diventato testimone. In lui ogni istante era avvenimento. Lo animava profondamente la tensione a non vivere mai nulla come scontato, come abitudine, ma come domanda a una Presenza.

L’opera dello Spirito suscita il dono di ciascuno. Don Giussani ha contribuito a suscitare il dono personale in migliaia e migliaia di uomini e donne. Non ha creato una realtà massificata, in cui tutti erano uguali, come sotto un coperchio, ma ha generato una realtà variegata, ricca delle personalità diverse che lui ha evocato e che ha condotto all’unità. Questa è veramente l’opera divina. I grandi uomini della terra sono capaci di chiamare al proprio fianco persone valide, ma non sono capaci di condurre a unità le differenze. Invece il segno profondo che ciò che è nato intorno a don Giussani è opera dello Spirito, è proprio l’unità. Egli ha creato un popolo. Questo è profondamente divino.

La potenza culturale di don Giussani era enorme. 
Descriveva fin dall’inizio la sua idea di cultura commentando la frase di san Paolo ai Tessalonicesi: Vagliate ogni cosa, trattenete ciò che è buono (1Ts 5, 21). 
Ci ha educati a fare della fede un incontro con la realtà. Dall’incontro con Cristo per Giussani nasce una cultura nuova, chiamata ad incidere negli ambienti in cui vivono gli uomini. Essa divenne una delle tre dimensioni che, insieme alla carità e alla missione, costituì l’anima della nuova GS nata intorno a lui.

Ci ha sempre educati alla carità. Tutto infatti nasce dalla carità, dal nostro cuore che accetta di condividere la vita con quella degli altri, come Dio ha condiviso la nostra. Le opere di carità nate da don Giussani sono tantissime: scuole, centri di accoglienza, associazioni di famiglie, iniziative missionarie. Già dalla fine degli anni Sessanta aveva pensato a una missione in Brasile. Fu sicuramente un’apertura importante perché egli era convinto della necessità della missione come vero ecumenismo: condividere con altri fratelli che vivono in orizzonti lontani e diversi quello che viviamo noi.

Tutta l’esistenza di Giussani è stata dedicata a documentare il metodo della trasmissione del cristianesimo. Una sintonia impressionante con quello che fu il tentativo del Concilio Vaticano II, un concilio pastorale voluto per indicare la strada attraverso cui vivere il cristianesimo. Desiderava lanciare i giovani verso il futuro, voleva portare un cambiamento, non una rivoluzione, una novità nella continuità. 

Tema centrale di questo passaggio verso una tradizione rinnovata è stato l’esperienza dell’autorità. Egli ne fu un estremo sostenitore, soprattutto dopo il Sessantotto, quando essa fu duramente contestata. Era fermamente convinto che senza autorità non c’è educazione, perché educare è trasmettere qualcosa che si è ricevuto. Combatté tuttavia anche ogni forma di autoritarismo e di clericalismo, mettendo in luce il valore affettivo dell’autorità.
Don Giussani resta presente in mezzo a noi in molti modi. Attraverso il suo insegnamento, che è ben lungi dall’essere stato scoperto in modo esauriente. Attraverso l’opera di conversione di intere esistenze umane. Un insegnamento vero, autentico, mira infatti al cambiamento dell’esistenza. Resta presente, dunque, attraverso il popolo che da lui è nato. Attraverso tutto ciò che il fiume dello Spirito, incontrandosi con la storia, farà sorgere ancora dal suo dono.


giovedì 19 febbraio 2015

GESU' AIUTAMI

L’ultima preghiera dei copti uccisi dall’ISIS

I copti trucidati dai jihadisti dello Stato Islamico in Libia sono morti pronunciando il nome di Cristo.
Lo conferma Anba Antonios Aziz Mina, Vescovo copto cattolico di Giuzeh. “Il video che ritrae la loro esecuzione  è stato costruito come un'agghiacciante messinscena cinematografica, con l'intento di spargere terrore. Eppure, in quel prodotto diabolico della finzione e dell'orrore sanguinario, si vede che alcuni dei martiri, nel momento della loro barbara esecuzione, ripetono "Signore Gesù Cristo". 

Il nome di Gesù è stata l'ultima parola affiorata sulle loro labbra. Come nella passione dei primi martiri, si sono affidati a Colui che poco dopo li avrebbe accolti. E così hanno celebrato la loro vittoria, la vittoria che nessun carnefice potrà loro togliere. Quel nome sussurrato nell'ultimo istante è stato come il sigillo del loro martirio”. 
Papa Francesco ha ricordato i 21 martiri cristiani copti con queste parole.

“Oggi ho potuto leggere dell’esecuzione di quei ventuno o ventidue cristiani copti. Dicevano solamente: “Gesù aiutami!”. Sono stati assassinati per il solo fatto di essere cristiani. Lei, fratello, nel suo discorso ha fatto riferimento a quello che succede nella terra di Gesù. Il sangue dei nostri fratelli cristiani è una testimonianza che grida. Siano cattolici, ortodossi, copti, luterani non importa: sono cristiani! E il sangue è lo stesso. Il sangue confessa Cristo. Ricordando questi fratelli che sono morti per il solo fatto di confessare Cristo, chiedo di incoraggiarci l’un l’altro ad andare avanti con questo ecumenismo, che ci sta dando forza, l’ecumenismo del sangue. I martiri sono di tutti i cristiani”

Intanto, in Egitto, il governo ha proclamato sette giorni di lutto nazionale per i martiri della Libia, mentre in diverse diocesi, tra digiuni e veglie di preghiera, fedeli e Vescovi avanzano la proposta di dedicare a loro nuove chiese. 
Il Presidente Abdel Fattah al-Sisi ha dato disposizione di costruire a spese dello Stato una chiesa dedicata ai martiri della Libia nella città di Minya, dalla cui regione provenivano la gran parte dei copti decapitati dai jihadisti. Per decreto presidenziale, le famiglie delle vittime del terrore islamista riceveranno un risarcimento in denaro e diverranno titolari di un assegno pensionistico mensile.



martedì 17 febbraio 2015

PRETI, POESIE

«in questi giorni diversi preti di Cesena ci hanno lasciato. E il dolore di queste perdite è grande per tutti. Riguardando l’archivio delle mie poesie mi sono accorto di avere sei testi dedicati alla figura del prete. Allego i testi.

A testimonianza che anche con la poesia si può descrivere la vita, la dedizione, i sacrifici che tanti sacerdoti hanno profuso per dare il senso della vita a tanti uomini, indicargli la meta, vivere quel centuplo che Gesù ha promesso ai Suoi che lo seguono.

Mi permetto di condividere con voi queste riflessioni in versi, in cui voglio confermare la necessità di voler bene ai sacerdoti, figure insostituibili per vivere la fede cristiana. Anche quando i preti, come tutti noi, hanno limiti e fragilità.

Grazie e chiedo scusa se mi sono permesso.
Franco Casadei»

Preti col tricorno

Non li vedrò più
i preti col tricorno,
la veste sfilacciata
che striscia sulla ghiaia

non li vedremo più
i preti dalla dottrina austera,
le chiese aperte
i lini ricamati a mano
turiboli anneriti
madonne coperte sugli altari,
il velo che s’alza nei giorni stabiliti

ore di misericordia
nascosti da una grata
giorni, anni
seduti su una panca
fra rosari e salmi

non li vedremo più
su biciclette di ruggine
su auto rottamate
lungo i sentieri
a benedire stalle e casolari
le muffe di case popolari

le messe in gregoriano
i patroni in processione
fiori d’arancio
torme di bambini
i cortei con rintocco a morto
verso i cimiteri

come noi, peccatori e santi,
per secoli guide di popolo,
segno del mistero.

Avremo altri preti
senza collare
senza vesti nere
le chiese con le porte chiuse…

non li vedremo più.

FINO IN FONDO

Durante il funerale di don Ezio mi è stata data la possibilità di portare, insieme ad altri amici, la sua bara fino al cimitero.

QUANTO PESA QUESTA BARA.

Da sempre Lo ricordo nella mia vita. Da sempre lì, sorridente ed un po’ storto;  stanco quando è presto e sveglio quando è tardi.
Poi un giorno non c’è più. C’era sempre stato, sempre. Ed ora non lo vedo. Guardo e non lo vedo.


Con la spalla reggo il peso e con l’orecchio inseguo l’anima che lascia il corpo. Ma tutto è silenzio.  Il legno è duro, liscio, freddo.
In sei portiamo la bara ma il peso della morte è tutto su di me. Uno è troppo alto, l’altro è troppo incerto, quello non mi aiuta, tutto il peso è su di me. Non importa quanti siamo a reggere la morte, il peso è sempre tutto, non si divide per le schiene, è sempre tutto su ogni spalla.

E più cammini e più pesa. Ogni passo è più pesante, ogni metro è più pesante, ogni giorno è più pesante.  E dopo tanti anni di cammino, mi accorgo che ho ancora paura di non reggere quel peso, di finire in una bara che finisce in una fossa.

E questi che camminano con me? Hanno la mia schiena e le mie spalle, ma tutto il peso è su di loro. Su ognuno di loro. Sono troppo alto, sono troppo incerto e non li aiuto per niente.

Mi sa che me ne vado, sono stanco, se tutti noi finiamo al cimitero non c’è bisogno di farsi accompagnare. Non c’è bisogno di farsi compagnia.
E poi alzo la testa, dalla strada, dalla bara, per un attimo, che però basta.
Là in fondo, alla fine del viale di cipressi, sopra la chiesa, c’è una croce. Mi attende. Mi guarda. Mi aspetta. Ancora pochi passi.

La bara è più leggera ora, tutto è più leggero quando vedi la meta. La vista della casa alleggerisce il viandante. E i miei compagni? Ognuno ha la sua altezza, siamo tutti molto incerti e non ci aiutiamo per niente, ma senza di loro non sarei mai giunto a guardare negli occhi quella croce.

Troppo lungo il tragitto per camminare da solo, troppo pesante quella bara per le mie spalle. Grazie Billi di esserti fatto portare fino in fondo; nel fondo c’è una croce che giustifica il cammino e mi rende indispensabili quelle schiene inutili con cui l’ho condiviso.

La Tua croce e le loro schiene, di questo ho bisogno per portare il mio peso fino in fondo, fino al fondo.


Ea 
(Andrea Alberti)

giovedì 12 febbraio 2015

IL TESTIMONE

Oggi don Ezio Casadei, padre e fratello, guida del movimento a Cesena da 50 anni, chiudendo gli occhi nella morte, li ha aperti alla realtà più vera, ed è già alla presenza del Padre.

Non c’è molto di chiaro in questo mondo.

Esistere vuol dire vivere sulla riva di un’isoletta avvolta in un mare sconosciuto. Le tenebre ci sovrastano e ci confondono: non ci è dato capire molto quaggiù, almeno delle cose che contano. I più sottili ragionamenti e le più intelligenti filosofie sembra che non riescano a graffiare veramente sulla realtà. Sono come solitari complicati e interminabili per ingannare l’attesa.

Ma l’attesa di cosa? Di un testimone.

Un testimone ci incoraggia a non moltiplicare i ragionamenti, ma ci prende per mano e ci porta davanti a Gesù, il figlio di Dio, il principio e la fine. Ed ecco che l’oscurità di cui siamo fasciati rivela una presenza, una vita, un destino di comunione.

Percepire la presenza di Cristo, ascoltarne il respiro oltre la soglia, andare con passo sicuro verso di lui perchè si riveli e ci riveli non la possibilità di sapere e di capire, ma la ragione per vivere: questo il vero dono di un testimone.

Questo dono è stato fatto a noi da don Ezio.


lunedì 9 febbraio 2015

BELGISTAN

I fiori del male
Bruxelles, capitale dei suicidi e del jihad, dove il cristianesimo si sta spegnendo e a un gaio nichilismo subentra l’islam
di Giulio Meotti | 06 Febbraio 2015 ore 17:20


Era il 30 marzo 2013 e Robert Rediger all’epoca viveva a Bruxelles. Aveva voglia di un drink al bar Metropolis, capolavoro dell’art nouveau. “Passavo per caso e vidi un cartello che diceva che il bar avrebbe chiuso quella sera. Ero sbalordito. Ho chiesto ai camerieri. Hanno confermato; non conoscevano i motivi precisi della chiusura. Adesso tutti questo stava per scomparire, di colpo, nel cuore della capitale d’Europa… E’ stato in quel preciso momento che ho capito: l’Europa aveva già commesso il proprio suicidio”. E’ a Bruxelles che Michel Houellebecq celebra la conversione all’islam di uno dei protagonisti del suo ultimo romanzo “Sottomissione”.


Nei giorni scorsi il Belgio ha raggiunto un nuovo record: il più alto numero pro capite di combattenti islamici in Siria e Iraq rispetto a qualsiasi altro paese europeo. Bruxelles è diventata la capitale della guerra santa, oltre che dell’Unione europea. La prima cittadina del Vecchio continente a morire sui campi di battaglia del jihad fu Muriel Degauque, una ragazza belga cattolica originaria di Charleroi, la capitale del carbone e di quel sobborgo di Marcinelle nei cui cunicoli, una mattina dell’agosto 1956, trovarono la morte oltre cento operai italiani. Muriel si convertì all’islam, cambiò il proprio nome in Myriam (un congedo dal Belgio in cui era nata e cresciuta) e trovò la morte vicino a Baghdad come bomba umana. Era il 9 novembre 2005. Ma già nel 2001, due giorni prima dell’11 settembre, due tunisini reclutati in Belgio erano riusciti a farsi passare da giornalisti e a uccidere, facendosi esplodere, il comandante afghano Massoud, nemico di al Qaida e dei talebani.

La scoperta del ruolo centrale del Belgio nello scacchiere del terrorismo è casuale: tutto inizia nel marzo 2004, quando la polizia olandese ferma un panettiere belga, Khalid Bouloudo, per un faro dell’auto rotto. Contro di lui c’è un mandato d’arresto internazionale che lo accusa di essere coinvolto negli attentati di Casablanca. E’ l’operazione “Asparagi”, prodotto tipico della città fiamminga di Maaseik, dove risiede Bouloudo. Tra gli arrestati Hassan el Haski, mente degli attentati di Madrid, Mourad Chabarou, reclutatore di combattenti per l’Iraq, e Youssef Belhadj, autore del video di rivendicazione di Madrid. Sono affiliati al Gruppo islamico combattente, in contatto con il gruppo olandese Hofstad, legato all’omicidio di Theo van Gogh.

Com’è stato possibile che Maaseik, la città di Van Eyck e Rubens e del cristianesimo belga, sia diventata allora una centrale del terrorismo islamico in tutta Europa e oggi una delle città con più reclutamenti per la guerra santa in Siria e Iraq?

Lo chiamano “Belgistan”, è la triste evoluzione di un paese agiato, annoiato e scettico che non è mai riuscito a sostituire altri ideali a quelli tramontati dell’impero. Eppure, parlate con un belga: vi darà la sensazione di un uomo soddisfatto. La questione sociale? Sotto controllo. La vita famigliare? Decente. Le distrazioni alle fatiche quotidiane? Abbondano. Paura della guerra? Nessuno ci pensa. E’ la gaia incoscienza del Belgio, caratteristica del borghese confortato da una sorte propizia. Un mondo di caffè, di teatri, di circoli municipali, di fanfare operaie, di vini cordiali, di lavoro per tutti, di conversazioni argute, di carillons, di librerie, di cooperative prosperose, ricco di umore meridionale (i belgi sono i meridionali del nord).

Bruxelles era destinata a diventare, come Londra, Parigi o Atene, il luogo per eccellenza della fusione nazionale. Doveva funzionare come un crogiuolo, dove si sarebbero mescolati funzionari valloni, fiamminghi e stranieri e si sarebbe creato l’homo belgicus. Messi fra Germania, Francia e Olanda, si direbbe che i belgi abbiano assorbito attraverso le frontiere la brillante grazia dei francesi, la pacata struttura psicologica degli olandesi, la vocazione al lavoro dei tedeschi. Essi costituiscono l’esempio massimo di sintesi dell’uomo qualunque europeo, la cerniera di mondo latino e germanico e con essa l’incontro di due aspetti squisitamente europei del cristianesimo: il cattolicesimo e la riforma. Eppure, il paese è malato. E avanza lo spettro di una nuova religione.

Il Belgio, oltre a detenere il record di jihadisti in Europa, è oggi il primo paese europeo per tasso di suicidi. Sono i suoi fiori del male. Il più noto suicida è il premio Nobel per la Medicina, Christian de Duve, che si è ucciso due anni fa tramite iniezione letale in un surreale, ultimo incontro con i suoi quattro figli. Sei suicidi al giorno. Duemila all’anno. Con un tasso di suicidio stimato a più di venti ogni 100 mila abitanti, il Belgio batte tutti i record in Europa occidentale (la media mondiale è di 14,5 per 100 mila abitanti). Il suicidio è la prima causa di mortalità tra i belgi che hanno tra i 25 e i 44 anni e la seconda causa, dopo gli incidenti automobilistici, fra quanti ne hanno tra i 15 e i 24. Una gioventù bella ma malata. I giovani belgi, afferma con desolazione il quotidiano Libre Belgique, “soffrono la vita” .

Secondo uno studio, compilato dai professori Moens, Haenen e Van de Voorde sulla base di dati forniti dall’Organizzazione mondiale della Sanità, il numero dei suicidi fra i giovani è aumentato dell’81 per cento rispetto a dieci anni fa. E sono ancora troppi, affermano gli studiosi di Lovanio, quelli che vengono spiegati in altro modo: misteriosi incidenti stradali, inspiegabili avvelenamenti che mascherano talora le reali intenzioni della vittima. E’ la “legge del silenzio” che per motivi umanitari induce molti medici a risparmiare ulteriore dolore ai genitori e ai parenti registrando un’altra causa sul certificato di morte. La tragica statistica si gonfierebbe, inoltre, se andassero a segno alcuni dei tentativi di suicidio (migliaia) che si registrano ogni anno, e se considerassimo anche la legge dell’eutanasia, con altre sei morti al giorno. In Belgio è nato anche il primo “supermercato della morte”. A Flémalle, una cittadina poco lontano da Liegi. Le lapidi? In quarta fila. Le corone? In fondo a destra. Le bare? A sinistra.

Un paese dominato dal nichilismo, dove l’islam è già oggi la prima religione del paese. Nelle scuole di Bruxelles l’insegnamento della religione musulmana ha superato per numero di studenti quello della religione cattolica. Lo dice il Centro di ricerca e informazione sociopolitica: secondo l’indagine, fra i ragazzi degli istituti primari, nell’ora di religione per scelta delle famiglie il 43 per cento studia l’islam (una quota che si attesta al 41,4 nei licei); il 27,9 per cento segue corsi di “morale laica” (ateismo), e solo il 23,3 per cento ha optato per la fede cattolica.

Già oggi, a Bruxelles un cittadino su tre è musulmano, e il nome più frequente all’anagrafe fra i nuovi residenti è Mohammed. Nel 2035 la città sarà a maggioranza musulmana. I grandi momenti della vita, come battesimi, matrimoni e funerali, in Belgio non sono più legati alla cristianità, in un paese i cui simboli sono stati a lungo l’Adorazione dell’agnello di Van Eyck, la Madonna di Bruges di Michelangelo, i quadri di Bruegel, Memling, Van der Weyde, la cattedrale di Anversa, il cane di Sant’Uberto e l’università di Lovanio (fondata da Papa Martino V).

A Bruxelles oggi soltanto sette matrimoni su cento sono cattolici, i bambini battezzati sono solo il 14,8 per cento e i funerali cattolici si fermano al 22,6 per cento. “E’ la fine del cattolicesimo sociologico”, dice uno studio del Crisp citato dal quotidiano Le Soir. Di recente, le autorità belghe hanno deciso che le feste cardine della cultura europea e cristiana, come Ognissanti, Natale e la Pasqua, dovevano essere sostituite dalle più neutre “Vacanze d’autunno”, “Vacanze d’inverno” e “Vacanze di primavera”. Un solstizio laicista. E due anni fa ha debuttato il nuovo albero di Natale secolarizzato, simbolo di un paese trasparente, senz’anima. Non più l’abete delle foreste delle Ardenne, ma un Xmas Tree di acciaio, luci e proiezioni video.

Fu nel 1986 che avvenne la svolta, quando per la prima volta l’antica università cattolica di Lovanio nominò un rettore ateo. Fondata nel 1425 per iniziativa del duca Giovanni IV di Brabante, autorizzato da una bolla pontificia di Martino V, l’ateneo era sempre stato un centro di cultura umanistica e un caposaldo nella lotta contro la Riforma luterana. Oggi produce alcune delle idee più progressiste d’Europa. Fu lì che si riunirono i capi della riforma cattolica, il tedesco Karl Rahner, il belga Edward Schillebeeckx, padre del “nuovo catechismo olandese”, i francesi Yves Marie Congar e Marie Dominique Chenu, lo statunitense Gregory Baum, severo critico dell’enciclica Humanae vitae e lo svizzero-tedesco Hans Küng, teorico della fallibilità papale. Oggi Lovanio offre il primo corso di laurea in Teologia islamica in Europa.

Di pari passo, infatti, il Belgio adottava la forma più radicale di multiculturalismo che l’Europa abbia mai conosciuto. Nel 1974, il governo belga riconobbe ufficialmente la religione islamica. Il primo risultato di questo riconoscimento fu l’approvazione, nel 1975, dell’inserimento della religione islamica nel curriculum scolastico. I musulmani in Belgio sono al 75 per cento praticanti. “Una gioventù radicalizzata, che rifiuta i valori occidentali”, scrive la giornalista fiamminga Hind Fraihi: “A Bruxelles, ci sono isole come Molenbeek, dove si fatica a credere di essere in Belgio”. Il proselitismo intanto straripa.

Il numero totale dei belgi convertiti all’islam è stimato in 20 mila. Nei tribunali, la sharia interferisce insidiosamente nei giudizi dei magistrati e ad Anversa è nata la prima corte che legifera con la legge islamica. Le scuole pubbliche distribuiscono anche pasti halal. Negli ultimi anni in molti quartieri di Bruxelles sono scomparse le donne e ricomparsi i veli integrali. I mercati sono in mano alla comunità musulmana e in molti quartieri non esistono più macellerie con costolette di maiale. Ad Anderlecht, un comune brussellese ad alta densità islamica ma anche con un’importante comunità ebraica, non si contano più gli atti di antisemitismo e gli ebrei stanno fuggendo dal paese dopo la strage al Museo ebraico della capitale di un anno fa. Gli alloctoni illuminati come Mimount Bousakla – politica di origine marocchina che attacca il dogma del multiculturalismo – sono minacciati di morte dai fondamentalisti islamici. A due passi dalle istituzioni europee, gli imam predicano contro Bruxelles, “capitale degli infedeli”.

Molte chiese, appena macchiate da qualche incrostazione della controriforma spagnola, sono rimaste esteriormente uguali. Ma dentro sono diventate delle moschee, come la Signora del Perpetuo Soccorso. In una chiesa di Bruges è conservato il “Sangue Santo”, che un conte di Fiandra riportò dalla Palestina dopo una crociata. Ma il prodigio della liquefazione, dicono le guide, non avviene più da parecchi secoli. Si è seccato.