venerdì 27 febbraio 2015

“LA VITA? LA PRENDO SUL SERIO… E CIOÈ CON IRONIA”


Alessandro D'Avenia:
E’ diventato famoso con “Bianca come il latte, rossa come il sangue”. Ora nel suo nuovo romanzo, “Ciò che inferno non è”, parla della sua Palermo e di Don Puglisi, ucciso dalla mafia. Mentre di sé dice: “Ciò che conta non è essere sicuri di sé, ma essere sicuri di essere se stessi. Cerco di cominciare da me”. E su come bisogna vivere ha le idee (molto) chiare…
Sembra un cherubino, Alessandro D’Avenia. E chissà se lui la considera un’offesa. Però, D’Avenia con i suoi boccoli ricci, quasi biondi, e l’occhio azzurro ci si avvicina pericolosamente. E voi vi domanderete, a questo punto, cosa c’entra il suo aspetto fisico con i suoi romanzi: c’entra. Nella misura in cui la sua bellezza da un lato l’ha trasformato in un’icona per gli adolescenti, d’altro fa storcere il naso agli intellettuali. Troppo bello e pure troppo giovane. Ed invece non c’è nulla di giovane in Ciò che inferno non è, la vita di Don Puglisi, raccontata come una via crucis da D’Avenia:”Ho rinunciato alla retorica antimafia, agli eroi talmente in alto da essere inservibili per il vivere quotidiano. Eroe è chi fa bene il proprio lavoro, chi afferma l’altro con la propria vita. Questo hanno fatto Falcone, Borsellino, Puglisi”, dice lui. Glissa, invece, sulle domande più frivole relative alla sua bellezza. Confessa: “Dico sempre che la vita, se la prendi sul serio (cioè anche con ironia) ha sempre il miglior copyright“. Ecco il ritratto di uno scrittore che può andare (molto) lontano.


D’Avenia la sua stessa vita sembra quasi un romanzo. Palermo, una famiglia di sei figli. Sceglie un mestiere “rischioso” come fare l’insegnante, diventa scrittore e il suo libro è subito un bestseller. E le ragazze la trovano anche molto bello. Si è reso conto di tutto ciò?
Dico sempre che la vita, se la prendi sul serio (cioè anche con ironia) ha sempre il miglior copyright. Ogni vita, se non rinuncia alla sua altezza, diventa qualcosa di grandioso. Io in fondo volevo solo fare l’insegnante di liceo, ma ci ho messo tanta di quella passione che alla fine tutto l’amore dato mi sta tornando indietro con gli interessi. Mi sono reso conto e ho avuto paura: non sono all’altezza di tutto questo e per questo mi godo tutto questo come un dono, senza sopravvalutarlo. Se le ragazze mi trovano bello è solo merito dei miei genitori. Ma quando hai un teatro pieno di ragazzi in orario non scolastico per un professore che parla di libri, la bellezza di cui stiamo parlando è un’altra. Quella estetica, se c’è, passerà in fretta. La bellezza delle parole, quella resta. I ragazzi cercano questo: progetti, non oggetti”.
Ora ha scritto Ciò che Inferno non è: un inno civile. Poteva limitarsi a fare lo scrittore carino e intellettuale. Perché ha scelto di cambiare?
“Non programmo le mie storie. Questa non la volevo scrivere, stavo già lavorando ad altro. Ma il bello delle storie è proprio questo: ti sorprendono e ti costringono a viverle. Quando ho cominciato questo libro mi sono detto: non so come fare. Quando l’ho finito, dopo tre anni, ho detto: non so come ho fatto. Fa parte del mistero della scrittura. Non ho scelto di cambiare, ho scelto di essere cambiato. E non c’è niente di meglio per uno scrittore: se la scrittura cambia te cambierà anche i lettori. Nei libri precedenti ho fatto lo stesso. Non lo vivo come un cambiamento, ma come un percorso di ricerca che spero non si esaurisca mai. La vita non è equilibrio come vogliono farci credere, ma tensione, continua apertura verso l’altezza, come l’alto mare aperto in cui si lancia l’Ulisse dantesco”.
Ciò che inferno non è è un romanzo che prende molto. E per la storia di Don Puglisi, ma anche perché lei sembra “intossicato’ da Palermo. Viene immediatamente l’urgenza di andarci. E’ questo l’effetto che voleva creare? Far pensare e ammaliare?
“Nella mia scrittura cerco sempre l’intelletto d’amore dantesco, cioè quella unione di cuore e testa che oggi sono divorziati nella vita di tutti i giorni. Si conosce solo ciò che si ama, e lo si conosce di più se lo si ama di più. Io amo la mia città e per questo ne vedo anche tutti i difetti. La amo di un amore vero, l’amore che nel darsi all’altro lo cambia proprio perché lo fa sentire non giudicato ma amato così come è. Ammaliare è compito di ogni arte, ma l’importante è che la seduzione conduca il lettore a se stesso, non all’autore. Solo quando il cuore è preso, la testa può comprendere. Non è un caso che in italiano abbiamo questo verbo così bello che unisce l’aspetto mentale e quello sentimentale: comprendere”.
Il suo romanzo è un omaggio a don Pino Puglisi che ha conosciuto. Ma anche agli eroi di tutti i giorni come lui?
“Palermo è il personaggio principale con cui tutti gli altri devono confrontarsi. Un teatro di luce e tenebra in cui si muovono uomini e donne di tutti i giorni, come nei quadri di Caravaggio. Ho rinunciato alla retorica antimafia, agli eroi talmente in altro da essere inservibili per il vivere quotidiano. Eroe è chi fa bene il proprio lavoro, chi afferma l’altro con la propria vita. Questo hanno fatto Falcone, Borsellino, Puglisi. Erano ottimi magistrati i primi due, un ottimo insegnante e sacerdote il terzo. A ciascuno di noi è chiesto l’eroismo quotidiano. Don Pino quando guardava un ragazzo sorrideva sempre, e così ne ampliava la vita. Diceva con quel sorriso: la tua vita è grande, siine all’altezza. So di un insegnante che entrato in classe il primo giorno di superiori ha guardato i trenta che aveva davanti e ha detto: “siete troppi, vi diminuiremo”. Ecco l’altra faccia della medaglia: il mondo o lo ampli o lo diminuisci. Il primo atteggiamento è impegnativo ma cambia il mondo in meglio, il secondo è facile e comodo e gli effetti sono deprimenti”.
Come vede Palermo oggi, ci torna spesso?
“Torno tutte le volte che posso. I miei genitori abitano lì. Il mio mare abita lì. Le mie vie. La vedo da turista: bellissima e da scoprire. Faccio fatica però ad accettarne il lato oscuro, che tutt’ora permane, anche se la città è diventata ancora più bella in questi ultimi anni”.
A proposito di giovani, alcuni ragazzi non hanno voluto leggere il suo libro perché l’argomento è troppo serio. Cosa direbbe a questi ragazzi se potesse parlare loro?
“Che lo leggano lo stesso, proprio perché ne hanno paura. La loro paura verrà ripagata in termini di speranza e bellezza. Se non cambia loro la vita in meglio… glielo rimborso”.
C’è molta empatia verso i ragazzini del Brancaccio. Lei dice che chiunque di noi sarebbe potuto crescere come loro. E’ forse il messaggio più importante del libro: non giudicare, non credersi migliore. Sbaglio?
“Sono stato in quei quartieri e ho visto situazioni di ogni tipo, proprio come nei quadri di Caravaggio. Squarci di luce fortissime e angoli oscuri. Solo se passi qualche giorno nelle scarpe di un altro puoi “comprenderlo”, ma se prima non cambi tu non puoi pretendere che cambi l’altro. Questo è ciò che impara Federico: amare è sporcarsi le mani, sbagliare, cadere, rialzarsi. Non bastano le chiacchiere. Quando capisce che lui è proprio come quei bambini allora può cominciare ad aiutarli, perché ha cominciato ad amarli”.
Il suo romanzo sembra scandito come una via crucis, lo sa?
“Mi interessava scavare dentro la cronaca e capire se c’era una storia più grande e ho scoperto che c’era la più grande di tutte. L’amore ha l’ultima parola, anche in una tragedia così. Chiunque lo leggerà si sentirà morire e risorgere. Come è successo a me nello scriverlo”.
Cosa risponde a chi la definisce uno scrittore per ragazzi?
“Che non ha letto i miei libri”.
Dice il suo protagonista : Ho il cuore pieno di desideri, sogni, cose belle. Però non ho la corazza. È lei a non avere la corazza? Lo sa vero che tutti hanno visto in Federico lei da ragazzo?
“Adesso ho un po’ più di corazza, ma il cuore è rimasto di carne”.
E ultimo: come si comportano con lei alunni, vicini, conoscenti? Come con uno scrittore famoso? E se si, lei è vittima del peccato veniale di sentirsi orgoglioso?
“Gli alunni ti vedono tutti i giorni: conoscono i miei difetti e i miei pregi. Proprio il continuare a insegnare, incontrare genitori, lottare per la vita dei ragazzi, mi impedisce di perdere il contatto con la realtà. Continuo a insegnare pur potendo smettere proprio perché voglio diventare un uomo migliore di quello che sono. E proprio perché a scuola, con tutti i fallimenti che comporta, trovo l’antidoto per non diventare orgoglioso quando mi capita. Preferisco essere fiero delle scelte che faccio: lo dico sempre ai ragazzi, ciò che conta non è essere sicuri di sé, ma essere sicuri di essere se stessi. E cerco di cominciare da me”
Lavinia Capritti


Nessun commento:

Posta un commento