lunedì 2 marzo 2015

TI SEGUIRO' FUORI DALL'ACQUA

«Hai afferrato la mia mano. Hai fatto tutto quello che potevi per dire che ci sei. E in questo tuo esserci, non posso negarlo: io qualcosa c’entro. Molto più di qualcosa. Sei qui per me, non contro di me»
Questa è più che la recensione di un libro straordinario. È la testimonianza del valore della vita, alla faccia dei vaniloqui di #Marzano e di #Lalli

Ti prende per mano, Dario Fani, autore del libro fresco di stampa “Ti seguirò fuori dall’acqua”, edito da Salani. 

Ti prende per mano e ti porta con sé davanti al vetro della neonatologia, ma anche dentro la sua testa e nel fondo del suo cuore. Dove si aggrovigliano domande e paure. Ti prende per mano e così segui con lui la storia di suo figlio Francesco, nato con tre mesi di anticipo e un cromosoma in più. Le prime ore concitate, la scoperta che è affetto dalla sindrome di Down, le settimane in incubatrice, la paura delle complicazioni, la dimissione.

In questa storia in prima persona, in questo dialogo immaginario tra padre e figlio, prima duro e poi dolcissimo, l’autore non censura niente. Tanto che da donna, da madre, leggendo le prime pagine ti chiedi cosa penserà, Francesco, quando dovesse, da grande, capitargli tra le mani questo libro di suo padre. Perché non c’è filtro: Dario Fani dalla penna fa uscire tutto lo sgomento per la diagnosi, la rabbia, l’accusa al neonato di aver assassinato il figlio perfetto, tanto desiderato; l’idea, persino, che ci sia stato uno scambio, perché quel figlio “non può” essere il suo.

Questo, fino all’incontro. A pagina 59 (un terzo del libro) un’infermiera glielo mette tra le braccia, questo bimbo di carne. «Ora che ti sento – caldo – vicino a me, tutto si complica. Ora che non c’è un vetro a separarci, ora che giochi con il mio dito, ogni giudizio, ogni pensiero diventano difficili… E’ folle – è stata una follia – la mia presunzione di volerti raccogliere dentro un’idea. Tu sei vita. Ecco cosa sei… Tu sei il germoglio e le mie idee foglie marcite nel fango. Inutili. Irreali». E’ in questo preciso momento che si scioglie l’ampolla d’amore che ogni padre custodisce nel cuore, anche senza saperlo. Inizia qui, la sua paternità tutta in salita. Da ora in poi, una storia d’amore e di complicità tra maschi. E solo Dio sa quanto abbiamo bisogno di maschi così, di padri così. Gente che magari si arrabbia con la vita ma non getta la spugna. Padri che accettano la sfida e capiscono che quando si ha un figlio vince il gioco di squadra.

E sentite la tenerezza quando a Francesco chiede di avere pazienza con la sua mamma, che aveva avuto delle complicazioni dopo il cesareo e ha saputo solo il terzo giorno di avere un figlio “speciale”. «Tua mamma ti tiene in braccio. Non riesce ad amarti come meriti. Si sforza, eppure ancora gli appari un estraneo. Non darti pensiero per questo, è normale. Al principio – ti ricordi? – io ti trattavo come un nemico… Devi avere pazienza, ci vuole del tempo… Fidati di me, finirete con il diventare inseparabili… Non pensare che io abbia più amore di lei per te, non è vero. Io ti riempio di parole; ma tu non bevi il mio latte, bevi il suo. Dalle il giusto tempo e il resto verrà da sé. Tempo, non serve altro. Fidati.» Fidati, gli dice più volte nel libro.

E così, questo esserino sottopeso, attaccato ai fili e alle sonde, dentro l’incubatrice («si chiamano incubatrici perché dentro ci mettono loro, che sono i nostri incubi?», si era chiesto all’inizio), con quella gambina che si agita quando gradisce qualcosa (il sapore del latte della mamma, la ninna nanna inventata da papà…) comincia a non essere più un estraneo, un nemico. «Hai afferrato la mia mano. Hai fatto tutto quello che potevi per dire che ci sei. E in questo tuo esserci, non posso negarlo: io qualcosa c’entro. Molto più di qualcosa. Sei qui per me, non contro di me». 
Da questo primo incontro in poi, nell’attesa di rivederlo si agitano i pensieri, si affannano le ricerche. «Ho ripreso le mie ricerche e ho letto un fatto che mi ha fatto pensare. Circa il 78 per cento dei bambini come te si trasforma in aborto naturale… Allora ho capito che sei una rarità, una meraviglia. Uno dei pochi che ce l’ha fatta, uno di quelli che è voluto arrivare fino in fondo: non ti sei arreso. Sei qualcosa di prezioso e forte… La vita ti ha dato un giro di carte davvero pessimo, ma tu non sei uscito dal gioco, sei rimasto fino alla fine e hai trovato il coraggio di andare a vedere cosa c’era nel piatto… Ora chi mi chiede: “Cos’è suo figlio?” so cosa dire: “Mio figlio è uno dei ventidue. Una rarità, una meraviglia. Un insegnante. Un maestro di vita. A differenza di tutti noi è un vincente per nascita”».

Alla faccia dell’infermiera uscita dalla sala parto, che portava il neonato «con le braccia tese e alte, come non volesse macchiare ulteriormente il suo camice… come si porta un giocattolo guasto» e che aveva dello «alla collega con un disgusto degno di una macellaia: “Era l’ultimo parto. Guarda come abbiamo finito!”… “Dimmi te se nel 2009 dobbiamo vedere queste cose qua”». E non si riferiva ad una cosa, ma a un bambino. Alla faccia pure dell’altra infermiera, quella che dopo poco gli aveva consegnato il «foglio illustrativo. Come se invece di un bimbo – scrive l’autore – fossi diventato papà di un medicinale. “Questo spiega suo figlio. Non se lo perda”». E giù tutto l’elenco dei possibili tratti dismorfici di un bambino affetto dalla sindrome di Down. «Non so dirti perché me lo abbia consegnato, così, a tradimento… Forse per punirmi, perché secondo lei farti venire al mondo merita una punizione».

Alla faccia di chi non capisce come si possa, ancora, mettere al mondo gente così
, questo padre accetta di andare fino in fondo alle sue domande, alla sua paternità. «Finché ci sarai, io sarò con te. E ci sarò non per testimoniare la tristezza di una vita difficile, ma la gioia infinita della tua resistenza. Della tua voglia di vivere, di lottare, di capire, di cercare di annusare le cose del mondo. Allora non ci sarà sguardo di pietà che non si converta al nostro entusiasmo. Non ci sarà pensiero di morte che non sarà vinto dalla nostra vitalità». E non perché tocca farsene una ragione ed indossare la maschera del bravo papà. Francesco gliel’ha strappata, quella maschera di uomo perfetto, sempre di corsa, che nella vita si occupa di programmazione in ambito socio-sanitario e le sfide è abituato a vincerle sempre. «Mi stavi già cambiando e non lo sapevi», gli dice. Perché grazie alla fragilità del suo bambino ha scoperto che «non tutto è frutto di una pianificazione, e anche una pianificazione perfetta non rende perfetta la vita. La vita non è un progetto semplice, neppure complesso, neppure finito. Non si può pensare che rispetti i programmi o le scadenze. La vita è vita, piena di incertezze». Insieme a questo bimbo, che ora ha cinque anni, ha scoperto la bellezza della vita «lenta ma senza paura. L’unica vita che ha senso vivere».

«La natura ha deciso di farti nascere. E a ognuno di noi genitori spetta di capirne il perché», scrive a pagina 158, implorando suo figlio di tener duro, dentro quell’incubatrice, di combattere ancora. E sono proprio i giorni in cui più forte si avverte il pericolo, e si teme che il piccolo non ce la faccia, che Dario scrive: «Mi piace amarti, bambino mio. Chi l’avrebbe mai detto, all’inizio?»
E’ allora che capisce tutto quello che quando nasce un figlio, OGNI figlio, c’è bisogno di capire.
«Non sei venuto per essere guarito, sei venuto per guarire. Non sei il malato, non sei la malattia. Sei il medico: sei la cura. Sei venuto per salvare me , e – un po’ più in là – il mondo. e anche se non ho ancora capito il segreto della tua medicina, posso dirti che funziona. Io miglioro… Mi hai insegnato a guardare nella sofferenza e a far fiorire da quello sguardo l’amore»

P.S. C’è da augurarsi che questo libro non venga boicottato, come in Francia è stato censurato il video “Dear future mom” pensato da Coordown, Les amis d’Éléonore e dalla Fondazione Jérôme-Lejeune per la Giornata Mondiale della Sindrome di Down.
Lì, alcuni ragazzini down cercavano di consolare una mamma che aveva scoperto di aspettare un figlio affetto dalla loro stessa sindrome. Le dicevano «non avere paura». Le dicevano che anche loro, i down, possono imparare a leggere e a scrivere; possono andare a scuola, aiutare il loro papà ad aggiustare la bici, andare a vivere da soli, viaggiare, trovare un lavoro e con i soldi guadagnati invitare la mamma a cena fuori. A volte sarà difficile, dicono i ragazzi in diverse lingue; a volte sembrerà quasi impossibile. Ma anche noi possiamo essere felici.
Quel video non si può vedere perché potrebbe offendere la sensibilità delle madri che «nel pieno rispetto della legge hanno fatto una scelta diversa». O forse quel video non si può vedere perché racconta che la felicità non è sempre (e solo) là dove la indica il mondo. Dario Fani l’ha capito.



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