domenica 3 maggio 2015

IL NUOVO INNO NAZIONALE: SIAM PRONTI ALLA RESA

Il sangue di un poliziotto può essere versato, ma quello di un manifestante no. 
Giammai. Sono ragazzi.
Andrea Cangini
Da Ilrestodelcarlino

NON C’È un nesso diretto, è chiaro, però...
 Però l’aver voluto proditoriamente metter mano alle parole dell’Inno di Mameli incoraggiando il coro che ha inaugurato l’Expo a sostituire il noto “siam pronti alla morte” col più ecumenico ed angelicato “siam pronti alla vita”, aiuta a capire il clima culturale nel quale venerdì hanno avuto luogo le violenze milanesi.
E le difficoltà incontrate dalle forze dell’ordine nel reprimerle. Reinterpretare un inno nazionale è, di per sé, un’operazione spericolata. Farlo in ossequio ai canoni del politicamente corretto è un suicidio. Un suicidio culturale: il presupposto all’impotenza. Quel “siam pronti alla morte” rende infatti onore agli eroismi risorgimentali, rammenta che la guerra può rappresentare una necessaria evoluzione della politica, ci ricorda che lo Stato può, e in alcuni casi deve, esercitare la violenza di cui detiene legittimamente il monopolio. Giustapponendo la parola “vita” alla parola “morte” salta uno schema secolare e si inibisce agli stati l’uso della forza. Ovvio che un contesto del genere renda onnipotenti e incontenibili anche le più esigue minoranze, purché debitamente aggressive.

SI È dunque creata una realtà nella quale la parola «guerra» è proscritta, non è tollerabile la morte di un solo soldato, non è accettabile l’uso del manganello da parte di un poliziotto o di un carabiniere. Perciò, dal capo della polizia in giù, ieri erano tutti lì a celebrare lo straordinario successo del giorno prima, quando alcune centinaia di black bloc hanno messo a ferro e fuoco Milano. Il motivo di tale vanto? Aver «evitato il contatto fisico» tra manifestanti violenti e forze dell’ordine. Una follia, una posizione grottesca, chiaro segno di una frustrazione profonda. La frustrazione di chi sa di non poter svolgere adeguatamente la propria funzione, perché il sangue di un poliziotto può essere versato, ma quello di un manifestante no. Giammai. Sono ragazzi. L’esiguo, e pertanto imbarazzante, numero di arresti risponde dunque a questa logica: per arrestarli bisogna fermarli, per fermarli occorre la forza, ma l’uso della forza è vivamente sconsigliato. E quand’anche li si arresta, la magistratura non convalida il fermo.
E QUAND’ANCHE  lo convalida, subito i professionisti della violenza vengono rimessi in libertà. Ce ne sono alcuni che hanno decine di denunce sulle spalle: prevedere un forte, ma forte davvero, aggravio della pena in caso di recidiva sarebbe il minimo. Così come sarebbe il minimo estendere anche a chi si macchia di violenza politica il principio dell’arresto in flagranza differita. Oggi è applicato solo agli ultras, come se chi minaccia lo Stato meritasse maggiore indulgenza. Così vanno le cose, in Italia. E perciò le forze dell’ordine si guardano bene dal far rispettare la legge che vieta ai manifestanti di mascherare il volto, perciò non usano i proiettili di gomma di cui pure si sono dotate, perciò assistono impotenti a devastazioni largamente annunciate. No, venerdì, a Milano, lo Stato non ha vinto, ha perso.

E, mentre lo Stato soccombeva, nel cuore dell’Expo si inneggiava alla «vita» come se la vita reale non fosse quella che, tra molotov e spranghe, andava in scena nel centro cittadino. «Siam pronti alla vita»: ma solo a quella idealizzata negli spot del Mulino Bianco.

sabato 2 maggio 2015

UN FANTASMA SI AGGIRA NEL PD

 L’opposizione a Renzi va fatta, 
ma nella società
di Robi Ronza 
30-04-2015
da lanuovabussola


Ieri il governo Renzi ha superato l’ostacolo del primo dei tre voti di fiducia che ha deciso di porre sull’”Italicum”, la legge elettorale pensata per garantire all’attuale premier un lungo futuro politico. Gli altri due voti analoghi sono in programma oggi. Ieri 38 deputati del PD ostili alla linea di Renzi non hanno partecipato alla votazione; tra questi Bersani, Rosy Bindi, Civati, Cuperlo. Oggi dovrebbe accadere lo stesso. Grazie al “premio di maggioranza”  alla Camera il PD dispone tuttavia di un numero tale di seggi che 38 assenti non bastano a metterlo in crisi. Pertanto anche oggi l’”Italicum” dovrebbe continuare a procedere verso l’approvazione definitiva. Si tratta, come già abbiamo ricordato, di una risposta cattiva, perché  pericolosa per la democrazia, a un problema reale, quello della stabilità del governo. Un problema al quale si sarebbe potuto dare una risposta diversa, ma così non è stato.

Da abilissimo politico quale è Renzi ha giocato drammatizzandola la carta della fiducia ben sapendo che al momento a lui non c’è alternativa né dentro né fuori del suo schieramento. Da ottimo giocatore ha fatto finta di rischiare tutto quando sapeva di non rischiare nulla o quasi. E se oggi continuerà a vincere, come è praticamente certo, uscirà dalla vicenda ancora più insostituibile (per adesso) di quanto fosse prima. 

Un fantasma si aggira nel Pd, diremo parafrasando il celebre inizio del “Manifesto del Partito Comunista” di Marx e Engels. Non è però il Pci ma la Democrazia Cristiana. All’ombra del contrasto tra Renzi e la vecchia guardia del suo partito stanno infatti facendo la loro ricomparsa, per ora dietro le quinte, Romano Prodi e Enrico Letta.  Qualcuno potrebbe osservare che il primo non è più parlamentare e che il secondo ha recentemente annunciato le proprie dimissioni  (anche se per il momento è ancora in carica). Non sono più i tempi tuttavia nei quali la presenza in Parlamento era per i leader politici un requisito indispensabile. Oggi anzi è il contrario: da Renzi a Berlusconi, a Grillo tutti quelli che più contano ne stanno fuori. Perciò le annunciate dimissioni di Letta da deputato significano esattamente il contrario di quanto un tempo avrebbero voluto dire. Renzi non ha fatto in tempo a essere democristiano per motivi anagrafici, ma della sinistra Dc è un evidente erede; Prodi e Letta  provengono dall’esperienza avviata dentro la Democrazia Cristiana da Beniamino Andreatta, di cui il giovane Letta fu segretario.

Per uno di quei paradossi di cui la vita pubblica italiana non è avara la battaglia per il controllo del partito erede del vecchio Pci rischia ancora una volta di giocarsi tra post-democristiani. Il Partito Democratico nasce dalla confluenza tra il vecchio Partito Comunista Italiano e le correnti della sinistra democristiana. Entrate nella nuova forza politica come una componente minoritaria, sorprendentemente questi gruppi ne costituiscono ormai saldamente il vertice, al punto che possono addirittura permettersi il lusso di uno scontro interno. Con tutta la poca sintonia che abbiamo con Renzi e con il suo progetto statalista e tendenzialmente neo-autoritario, nella deprecata ipotesi di uno scontro tra Prodi e Letta da una parte e Renzi dall’altra a nostro avviso, nonostante tutto, varrebbe la pena di tifare per Renzi. Meglio infatti qualcuno che almeno è contemporaneo al tempo in cui viviamo.

Aggiungendosi allo stato di sbando generale in cui si trova l’area del centro-destra, questa mesta  conclusione ci dà tuttavia molto bene l’idea della situazione nella quale ci troviamo. Nel futuro prevedibile a Renzi non c’è alcuna alternativa in sede politica, il che equivale a dire che, oggi come oggi, nella sfera delle istituzioni non c’è spazio alcuno per una presenza di qualche significato per chi abbia a cuore ciò che abbiamo a cuore noi. Tanti auguri a Mario Adinolfi e alla sua scelta di fare la sua battaglia dentro il Pd o comunque per aprirsi un varco nel Pd. Adinolfi e il suo giornale-movimento La Croce costituiscono una novità importante e positiva in quanto a chiarezza di giudizio in tante cose e in quanto a efficacia nel raggiungere e trovare ascolto in ambienti che difficilmente altri potrebbero raggiungere. Restano però una vicenda interna ad un’area che va a tutta forza da un’altra parte; che quindi ha senso solo per chi per storia passata e per collocazione presente sta in quell’area, e non può né desidera andare altrove. In tali limiti può essere una buona scelta, ma non è una scelta di validità generale.

A nostro avviso, e fino a quando le cose vanno come vanno, tutti gli altri devono lavorare solo nella società civile per costruire dei soggetti sociali forti, consapevoli e non subalterni; dei soggetti che non puntano a espugnare il Palazzo ma soltanto a stringerlo d’assedio. Dei soggetti in grado di porre a chi sta al potere delle domande forti per contenuti e per capacità di mobilitazione. Oggi in generale la vera nuova frontiera della presenza pubblica della gente di fede è questa.


venerdì 1 maggio 2015

BALTIMORA, ITALIA

A Baltimora va a fuoco il modello sociale progressista, tutto burocrazia e sussidi. L’Europa prenda appunti
di Mattia Ferraresi | 29 Aprile 2015



Baltimora non è Ferguson. Non è una periferia segregata dominata dal potere bianco, è una città che una volta era la sesta più popolosa degli Stati Uniti con tutti gli attriti dell’èra postindustriale e una chimica sociale infiammabile, guidata saldamente per quarant’anni dal Partito democratico. Il sindaco è una giovane donna afroamericana, che in questi giorni è stata molto criticata da sinistra per aver usato troppo spesso la parola “thug”, che sta per malvivente, teppista, delinquente. Ha usato quel termine, e non un più simpatetico “manifestante”, per qualificare i protagonisti degli scontri.

Baltimora è uno degli esperimenti urbani democratici che sono cresciuti in America negli ultimi decenni, e il modello ha alcuni tratti comuni, dall’estensione del settore pubblico sotto la rigida supervisione dei sindacati, alla riduzione delle forze di polizia, fino alla moltiplicazione degli strati burocratici che hanno creato un clima inospitale per le aziende che vogliono crescere e fare affari.

All’origine del “blue-city model”, come lo chiama il Wall Street Journal, c’è una concezione centralista dell’amministrazione che secondo il quotidiano conservatore tende a generare tre conseguenze sociali fra loro correlate:
 “Alto tasso di criminalità,
crescita economica lenta
e collasso del sistema delle scuole pubbliche, che si trasforma in un serbatoio di posti di lavoro per insegnanti invece che in un luogo d’insegnamento”.
 A questo va aggiunta la crescita smisurata dell’edilizia popolare, politica che porta voti a sinistra ma crea sacche periferiche di criminalità, disoccupazione e povertà contrastata a suon di sussidi, situazione alla quale spesso si sovrappone il tema razziale.

Non è una storia estranea all’Europa delle banlieue e dei campi nomadi in periferia.
Il quartiere dove è stato arrestato Freddie Gray (morto per gravi lesioni alla volonna vertebrale) è abitato al 96 per cento da neri e ha un tasso di disoccupazione del 21 per cento, quasi il triplo della media della città, che a sua volta è superiore a quella dello stato del Maryland. Le circostanze della morte del ragazzo vanno stabilite in modo imparziale, e il contesto non fornisce giustificazioni né attenuanti nel caso specifico. Ma in questi giorni nelle strade di Baltimora quello che sta andando a fuoco è il modello sociale progressista.

tratto da: Mattia Ferraresi ILFOGLIO  | 29 Aprile 2015


"MADRI SURROGATE” NEPALESI COMMISSIONATI DA COPPIE OMOSESSUALI

l caso delle povere donne nepalesi

Madri invisibili
Assuntina Morresi
30 aprile 2015

Voli speciali stanno portando in Israele decine di neonati, figli di “madri surrogate” nepalesi e commissionati da coppie omosessuali israeliane, evacuandoli dalle zone terremotate. Finora sono arrivati tre bambini, con le rispettive coppie gay che risultano loro genitori “legali”. Se ne aspettano più di venti nelle prossime ore, e il numero potrebbe aumentare di molto: in Israele l’utero in affitto è accessibile solo a coppie eterosessuali, e gli omosessuali che vogliono farlo se ne vanno all’estero. 

Il Nepal è una delle mete preferite (non solo per Israele, e non solo per omosessuali) perché la grande e diffusa povertà della popolazione ha fatto della maternità surrogata una “produzione low cost”: si può avere un figlio con appena seimila dollari, contro qualche decina di migliaia dell’India e più di centomila, ormai, negli Stati Uniti. È emblematico che il caso emerga definitivamente dalla polvere di dolore e morte del sisma che ha scosso il tetto del mondo proprio nel giorno in cui il Papa chiama credenti e persone di buona volontà a «difendere» le donne da sfruttamento, sottovalutazione, mercificazione.
 


Seimila miserabili dollari per convincere una donna povera a portare avanti una gravidanza conto terzi e partorire un figlio che dovrà abbandonare appena nato, cedendolo a coppie o single, ricchi a sufficienza per poter pagare una cifra relativamente modesta. Sorpresi dal terremoto, coppie omosessuali e single israeliani che erano in Nepal per prelevare i neonati commissionati se ne stanno tornando in patria con i bambini già nati e, in alcuni casi – almeno quattro – con le madri surrogate che li portano ancora in grembo, in attesa di partorire.
Se ci fossero ancora dubbi sull’umiliante mercato dell’utero in affitto e sull’ignobile sfruttamento delle donne coinvolte, queste brevi cronache sono in grado di fugarli tutti: non sappiamo niente delle madri surrogate di quei piccoli. Non un nome, una storia, un racconto. Gli articoli sinora pubblicati in giro per il mondo non le nominano, le coppie omosessuali appena sbarcate dagli aerei non ne parlano, quelle coppie che pure dovrebbero sapere chi sono quelle giovani donne, visto che ne hanno commissionato e pagato le gravidanze, e che hanno ottenuto l’oggetto del contratto, il tanto atteso “bimbo in braccio”.


Che cosa ne è stato di chi ha appena partorito? Sono sopravvissute al terremoto? In quali condizioni sono restate nel loro Paese? Non sappiamo, non si sa, a nessuno sembra importare niente: per le cronache semplicemente queste madri non esistono, perché hanno già svolto il “lavoro” per cui sono state retribuite, e devono solo essere dimenticate. Per il mondo non sono madri, esseri umani come ciascuno di noi, ma solo incubatori a pagamento. I “genitori” dei piccoli sono quelli che hanno stipulato il contratto di maternità conto terzi, nella piena legalità conferita dalle leggi e da quei seimila miserabili dollari. Una cifra superiore cambierebbe comunque poco: il giogo della schiavitù non ha prezzo.
 

Ma l’esiguità della somma dà la misura della miseria estrema di queste persone, per le quali solo poche migliaia di dollari significano la sopravvivenza personale e delle loro famiglie.


Il volo verso la salvezza dal terremoto – in Israele – è stato consentito solo a quelle madri surrogate “fortunate” che ancora devono partorire, cioè che aspettano di terminare il “lavoro” e onorare l’impegno stipulato nel contratto. Sopravvissute al sisma, devono ancora cedere il proprio bambino: per questo possono e, soprattutto, devono essere portate via e seguire i committenti, con un permesso speciale del governo israeliano. E c’è chi continua parlare di «dono» e di «diritti»…
Chissà chi quelle donne hanno lasciato in Nepal: genitori, fratelli, parenti, sicuramente qualcuno a cui badare, qualcuno da mantenere, vista la loro disponibilità ad affittare il proprio grembo. Ma, a quanto pare, se ne sono venute via da sole, senza familiari o conoscenti. Chissà cosa ne sarà di loro una volta svolto il compito, consegnati i propri figli alle coppie acquirenti. Probabilmente un volo di ritorno in Nepal, in quel che resta delle loro case dopo il terremoto, avendo intanto assaporato qualche settimana di benessere. Certamente, di nuovo invisibili.
da avvenire