martedì 29 settembre 2015

PERCHÉ FRANCESCO HA RICORDATO DOROTHY DAY

E' UNA SANTA PER IL NOSTRO TEMPO PERCHE' ESEMPLIFICA CIÒ CHE DI MEGLIO C’È NELLA VITA CATTOLICA: LA CAPACITÀ DI ESSERE “ET ET” E NON “AUT AUT”

di Marco Respinti
27-09-2015  LANUOVABUSSOLA

Davanti al Congresso degli Stati Uniti d’America giovedì 24 settembre Papa Francesco ha evocato i nomi di Abraham Lincoln (12809-1865), Martin Luther King (1929-1968), Dorothy Day (1897-1980) e Thomas Merton (1915-1968)  (clicca qui). Quattro figure estremamente complesse e parecchio diverse l’una dall’altra. E tutte chiacchierate. Ma Dorothy Day con un vantaggio sostanziale: quello di essere contemporaneamente cattolica e Serva di Dio

Nel marzo 2000, infatti, Papa san Giovanni Paolo II (1920-2005), che di comunismo, operai e santi s’intendeva, ha dato ufficialmente all’arcidiocesi di New York il permesso per avviarne il processo di beatificazione. Cosa però impossibile se lei fosse stata davvero, come si dice, comunista. E infatti qualcosa non quadra, come brillantemente osserva Stephen Beale sull’intelligente e cattolicissimo Crisis Magazine (clicca qui). Newyorkese, la Day fu agitatrice sindacalista, giornalista socialcomunista, attivista anarchica, femminista arrabbiata e libertina che divideva volentieri il letto con amanti marxisti. Nel 1917 brindò alla rivoluzione russa. In carcere finì spesso per proteste pubbliche non autorizzate. Nel 1920 (o era il 1921?) abortì la creatura che le aveva generato in grembo un certo suo amorazzo e dopo poco si sposò con un altro amorazzo in comune (la sua famiglia era episcopaliana, ma lei si era da tempo lasciata ogni cristianesimo alle spalle). Poi però cambiò vita, totalmente, diventando cattolica.


Tutto iniziò a metà del 1925 quando la Day si rese conto che un terzo amorazzo l’aveva messa nuovamente incinta. Questa volta però si guardò dentro, e dentro scoprì il volto del suo vero io, Gesù Cristo. La creatura che portava dentro di sé nacque nel 1926, fu battezzata nel luglio 1927 con il nome di Tamar Teresa (è scomparsa nel 2008) ed è lei il simbolo della conversione di Dorothy. Quando infatti Forster Battherham, il padre, deciso anticattolico, si diede alla macchia, al fianco di Dorothy vi fu solo tal suor Aloysia, che la istruì nella fede. Passata la vita al setaccio del confessore, il 28 dicembre di quello stesso 1927 Dorothy fu battezzata e accolta nella Chiesa Cattolica.  Ora, la Day si spese nell’impegno sociale a favore di ultimi, emarginati, poveri, diseredati e sfruttati anche dopo la conversione. Ma la cosa non è affatto da comunisti; lei era infatti convinta che il comunismo fosse la risposta sbagliata a esigenze giuste, esattamente come ne era stato convinto Papa Leone XIII (1878-1903) che nel 1891 pubblicò l’enciclica Rerum novarum per affrontare seriamente la “questione operaia” e impedire che il marxismo se ne appropriasse indebitamente.

Alla luce di quest’idea Dorothy fondò nel 1933 il Catholic Worker Movement assieme al cattolico francese Peter Maurin (1877-1949) in cui albergava più lo spirito di san Francesco d’Assisi che quello di Karl Marx. Per molti la cosa è ancora a un marchio d’infamia, ma non ve n’è ragione. La Day si lamentò infatti sempre ad alta voce dello statalismo tipico delle culture progressiste e fu grande avversaria del “New Deal” di Franklin D. Roosevelt (1882-1945). Per lei l’assistenzialismo era inefficace e moralmente dannoso poiché deresponsabilizza le persone e spinge i meno abbienti a vivere di quei sussidi statali che regolarmente finiscono in alcol, fumo e cultura pop cioè anche cheap. Stette dalla parte dei contribuenti espropriati da tasse troppo elevate, disprezzò l’idea del minimo salariale, denunciò come pericolosa per la libertà la società burocratica (che è il socialismo dei Paesi democratici) e per lei persino le leggi contro il lavoro minorile erano ipocrite. Si oppose dunque alla nazionalizzazione dell’industria pesante e difese Aleksandr Solzenicyn (1918-2008) dagli attacchi dei comunisti americani. Addirittura disse che «la previdenza sociale, le leggi sulla salute e le leggi sulla scuola» sono solo un «contentino buttato là al proletariato» per zittirlo. 

In un famoso articolo del febbraio 1945 scrisse che la legge sulla previdenza sociale salutata come una grande vittoria per i poveri e per i lavoratori è in realtà «una grande sconfitta del cristianesimo» perché «è l’accettazione dell’idea della forza e della costrizione. È l’accettazione delle parole di Caino da parte del datore di lavoro: “Sono forse io il custode di mio fratello?”». (clicca qui). Per la Day, poi, l’aborto era un vero e proprio genocidio, e fu sempre nemica giurata della sentenza con cui nel 1973 la Corte Suprema federale lo legalizzò in tutti gli Stati Uniti. Contestò decisamente la sessualità disinvolta degli anni 1960 e si schierò a favore dell’enciclica Humanae vitae, promulgata nel 1968 dal beato Papa Paolo VI (1897-1978). Nel 1950 se la prese con i minatori che frequentavano le taverne dotate di «macchinette che distribuiscono preservativi come gomma da masticare o cioccolato» e un ventennio dopo denunciò la distribuzione di profilattici ai soldati in Vietnam in licenza prima delle battaglie. Anche sul divorzio indicò sempre a tutti l’insegnamento della Chiesa.

La sua dottrina politico-economica non fu il marxismo, ma il distributismo di Gilbert K. Chesterton(1874-1936), Hilaire Belloc (1870-1953) e del padre domenicano Vincent McNabb (1869-1943). Che non è affatto una terza via intermedia fra capitalismo e collettivismo, ma un modo diverso per difendere e diffondere la proprietà privata. Diceva infatti Chesterton (in The Uses of Diversity: A Book of Essays, del 1920): «Troppo capitalismo non significa troppi capitalisti, ma troppo pochi capitalisti». Certo, alcuni aspetti del distributismo non sono chiari o sono persino discutibili, ma accade sempre così con ciò che è umano. Quel che è certo è che non si diventa santi per una dottrina economica, specie se la dottrina economica è il comunismo ateo. 

Dorothy Day è stata un segno di contraddizione, non una comunista. Anzitutto bisognerebbe dunque domandarsi, come i suoi critici però non fanno, cosa il Cielo ci domanda suscitando un carisma come il suo. Perché, come ha detto il cardinal Timothy M. Dolan, arcivescovo di New York, «sono convinto che sia una santa per il nostro tempo» dato che esemplifica «ciò che di meglio c’è nella vita cattolica: la capacità di essere “et et” e non “aut aut”». (clicca qui).


domenica 27 settembre 2015

SCOLA A TUTTO CAMPO


«IlPapa non è populista, è un grande uomo di fede. Ma non va strumentalizzato ideologicamente — dice al Corriere il cardinale e arcivescovo di Milano Angelo Scola , ribadendo il suo no alla comunione per i divorziati e alle unioni di fatto —; ma se due omosessuali vivono insieme in modo casto la Chiesa non ha nulla da dire. Il punto è che a tutti i livelli si pensa poco sulle grandi questioni, dal matrimonio all’immigrazione».
 
CHAGALL le luci del matrimonio
Cardinale Scola, domenica prossima si apre il Sinodo conclusivo sulla famiglia. Un anno fa lei disse al «Corriere»: niente comunione ai divorziati risposati; il Papa non potrà fare altrimenti. Conferma?
«Avevo espresso un auspicio, vedremo come andrà a finire. Se mi si vuol far dire che personalmente non ho trovato ragioni adeguate per accettare la proposta del cardinale Kasper, va bene, fate pure i vostri grafici distinguendo “chi sta con il Papa”, “chi non sta con il Papa”... Però la mia preoccupazione è di natura completamente diversa. Ho l’impressione che si stia “pensando” poco. A tutti i livelli».

Si è passati dall’intellettuale Ratzinger al populista Bergoglio?
«No, Ratzinger è un “umile servitore della vigna” e Francesco non è per nulla un populista. È un grande uomo di fede che, fin dal primo giorno, ha innovato in due direzioni. Ha capito che se non ci si coinvolge di persona non si risulta autorevoli; per questo papa Francesco dà grande importanza ai gesti. E la sua idea della povertà teologica è fondamentale».

Povertà teologica?
«Sì. Il Papa dice: se, seguendo il Vangelo, osserviamo la realtà partendo dalla periferia, dall’esperienza concreta dei poveri, lo vedremo secondo una visuale più completa che facendo il contrario, partendo dal centro e andando verso la periferia. Le due cose dimostrano che ha un fortissimo senso del popolo, un carisma straordinario di coinvolgimento con tutta quanta la realtà. Ed esprime una visione teologica e culturale efficace. Che abbia potuto imparare questa attitudine in un Paese come l’Argentina, dove il popolo ha avuto un peso storico rilevante, senza cadere in facili cortocircuiti — peronismo o non peronismo —, questo è pure un dato importante. Non a caso Bergoglio ha contribuito a far evolvere la teologia della liberazione in una teologia di popolo, liberandola dal rischio dell’ideologia. Se mi è permesso un paragone ardito, la gente diceva di Gesù: “è uno che parla con autorità”. Perché era coinvolto con quello che diceva. Il Papa è così: il populismo non c’entra niente. Semmai il problema è l’uso che si può fare di questo papato».
Che cosa intende?
«Bisogna vigilare sulle strumentalizzazioni esterne, che potrebbero reintrodurre nella Chiesa una logica ideologica, in un momento in cui c’è più che mai bisogno di “mescolare le carte”, di superare le sterili dispute, di ascoltarsi reciprocamente. Se invece si ricade nella logica degli schieramenti contrapposti: “Ecco, avevamo ragione noi che dicevamo certe cose prima”, oppure “No, questo non si deve neppure dire”, è finita. Questa è la sfida che tocca alla Chiesa italiana».

A cominciare dal Sinodo. Lei aveva proposto, anziché scontrarsi sulla comunione, di rendere più agevole la dichiarazione di nullità del matrimonio. Finirà così?
«Resta una differenza qualitativa tra i due problemi. Un conto è snellire la verifica di nullità, cosa che il Santo Padre ha già fatto con il motu proprio, un conto è riammettere alla comunione sacramentale i divorziati risposati, perché la verifica della nullità non ha mai un esito scontato. Se si appura che il matrimonio c’era, c’è. Il rapporto tra Cristo e la Chiesa, entro il quale i due sposi esprimono davanti alla comunità cristiana il loro consenso, non è un modello esteriore da imitare. È il fondamento del matrimonio che nasce. Io, sposo, non potrei mai fondare il “per sempre”, l’indissolubilità, sulle sabbie mobili della mia volontà. E come posso fidarmi in maniera definitiva che mia moglie mi sarà fedele sempre? Cosa succede nel consenso reciproco espresso all’interno dell’atto eucaristico? Che io voglio il dovere del “per sempre” e decido non sulla base della mia fragile volontà, ma radicandomi nel rapporto nuziale tra Cristo e la Chiesa. È questo che, attraverso il sacramento, fonda il matrimonio».

Sta dicendo che la comunione non è un accessorio, ma un fondamento stesso del matrimonio?
«Esattamente».

Ma legare la nullità del matrimonio alla mancanza di fede di uno degli sposi non è un ammorbidimento del vincolo?
«È chiaro che la dimensione soggettiva della fede non è verificabile: io non mi posso permettere di giudicare quanta fede hai o non hai tu. Però la fede non è un fatto individualistico, è inserita organicamente nella comunione. Gesù ha detto: “Quando due o tre di voi si riuniranno in nome mio io sono in mezzo a loro”. L’Eucaristia è il vertice espressivo di questa natura comunionale della fede. Pertanto, rispettando fino in fondo la coscienza di ogni singolo, si può valutare se egli intende o meno fare ciò che la Chiesa fa quando unisce due in matrimonio. L’urgenza prioritaria, per me, è che il Sinodo possa suggerire al Santo Padre un intervento magisteriale che unifichi semplificandola la dottrina sul matrimonio. Un intervento teso a mostrare il rapporto tra l’esperienza di fede e la natura sacramentale del matrimonio».

Don Carron dice che sulle unioni omosessuali serve il dialogo, non il muro. Lei cosa ne pensa?
«Ho già detto che nel riconoscimento pieno della dignità personale di quanti provano attrazione per lo stesso sesso anche noi cristiani siamo stati un po’ lenti. Ma la famiglia è qualcosa di unico, con una fisionomia molto specifica, legata al rapporto fedele e aperto alla vita tra un uomo e una donna. Non reputo conveniente una legislazione che, nei principi o anche solo nei fatti, possa produrre confusione a questo livello. Tra l’altro non sono molto convinto che lo Stato debba occuparsi direttamente di queste cose e sono anche un po’ seccato di fronte a questo Parlamento europeo, perché non ha il diritto di premere sui singoli Stati in favore di una normativa in campo etico. Ho piuttosto l’impressione che, essendo povero di poteri reali, si occupi di queste cose a sproposito, senza tener conto delle differenze tra gli Stati. L’Italia non è certo la Svezia o l’Olanda».

I cattolici dovrebbero far sentire di più la loro voce?
«Sì, attraverso la testimonianza, anche pubblica, del bell’amore. Bisogna distinguere bene la questione delle unioni omosessuali dalla famiglia, essendo però estremamente attenti al percorso che le persone con questa attrazione compiono. Qualche giorno fa ho ricevuto esponenti di una associazione molto interessante, Courage, promossa nel 1980 dal cardinal Cooke, allora arcivescovo di New York. Persone che si impegnano a vivere la castità in questo tipo di attrazione...».

Se ad esempio due omosessuali vivessero insieme in modo casto, la Chiesa non li condannerebbe?
«Certo che no. In questo campo non esiste il bianco e il nero. Come nella situazione dei divorziati e risposati: ogni caso è personale. Tutto ciò che ha a che fare con la dimensione sessuale dell’io è personale e può essere trattato solo singolarmente. Non esiste la categoria degli omosessuali o la categoria dei divorziati e risposati. Ognuno di noi, che sia omosessuale o eterosessuale, da quando nasce a quando muore deve fare i conti con questa dimensione. È quello che taluni psicoanalisti chiamano “il processo di sessuazione”. Allora, tutti noi dobbiamo essere rispettosi fino in fondo del cammino sia degli omosessuali sia degli eterosessuali. A me non piacciono le semplificazioni esasperate, per cui tutto il Sinodo si riduce al problema dell’ammissione dei divorziati alla comunione sacramentale, per cui quando si parla di unioni omosessuali tutto si riduce al diritto di essere famiglie, e non si entra mai in un pensiero forte, non si toccano mai le questioni che ci sono dietro, le uniche in grado di promuovere la dignità di tutti e la loro equilibrata libertà».

Per questo dice che si pensa poco?
«Certo. Guardi anche all’immigrazione».

Una famiglia di migranti in ogni parrocchia: è d’accordo?
«A Milano abbiamo iniziato da tempo a muoverci in questa direzione. La Chiesa fa il buon Samaritano: accoglie, cura. Ma si sta affrontando in profondità il problema? Non è più solo un’emergenza, è un fenomeno strutturale, e nei prossimi 30-40 anni diventerà imponente. Non sarà qualche commissione di tecnocrati che a tavolino risolverà tutto. Potrà essere utile anche quella, ma c’è bisogno di una visione politica che sappia valorizzare i dati dell’esperienza. Preparando i “Dialoghi di vita buona” che faremo a Milano con varie voci della società civile — rettori delle università, imprenditori, filosofi — una domanda era ricorrente: “Siamo tutti davanti all’evidenza che un’epoca sta finendo. E adesso?”. Stiamo entrando in una fase in cui la discontinuità sarà un elemento ineludibile. Si incrociano fattori dirompenti gravemente sconnessi tra di loro, dalle bioingegnerie genetiche alle neuroscienze, alla civiltà delle reti, al meticciato, alla mutazione antropologica, a un modo di valutare i comportamenti individuali e i comportamenti sociali. E tuttavia non c’è mai il puro frammento. Questa inedita discontinuità va governata riconoscendo la rottura, ma nello stesso tempo cercando di cucire quel che può essere cucito. Altrimenti non riusciremo ad andare oltre lo smarrimento della domanda: “E adesso cosa succede?”».

ALDO CAZZULLO
CORRIERE DELLA SERA

27 SETTEMBRE 2015

sabato 26 settembre 2015

DRACULA A CAPO DELL'AVIS = ARABIA SAUDITA A CAPO DELLA COMMISIONE ONU PER I DIRITTI UMANI

Le minoranze, i perseguitati, i discriminati e chiunque nel mondo soffre per il mancato riconoscimento dei suoi diritti umani può stare tranquillo: nel 2016 sarà difeso dall’Arabia Saudita. Purtroppo non è uno scherzo: l’ambasciatore saudita Faisal bin Hassan Trad è appena stato eletto a capo del Consiglio per i diritti umani dell’Onu per l’anno 2016.

DIRITTI UMANI. Toccherà dunque a uno dei pochi paesi a non aver mai firmato la Dichiarazione universale dei diritti umani, difendere per conto dell’Onu i diritti umani nel mondo. Quest’anno la presidenza, che viene ricoperta a rotazione da un paese di una diversa area continentale, toccava al gruppo asiatico e la monarchia assoluta islamica l’ha spuntata su paesi come Bangladesh, Cina, Emirati Arabi Uniti, India, Indonesia, Giappone, Kazakistan, Maldive, Pakistan, Repubblica di Corea, Qatar e Vietnam.

«PIÙ DECAPITAZIONI DELL’ISIS». L’annuncio, comprensibilmente, ha destato molta perplessità. Hillel Neuer, direttore di UN Watch, ong di Ginevra che monitora il lavoro in difesa dei diritti umani delle Nazioni Unite, ha commentato così la notizia: «È scandaloso che l’Onu abbia scelto un paese che ha giustiziato più persone dello Stato islamico quest’anno per presiedere il Consiglio dei diritti umani. Petrolio, dollari e politica nuocciono a questi diritti».

RECORD MONDIALE. Neuer non ha usato mezzi termini, ma ha le sue ragioni. L’Arabia Saudita è il quarto paese al mondo per numero di esecuzioni capitali, dietro Iraq, Iran e Cina, che detiene il record assoluto e irraggiungibile con migliaia di condanne a morte contro le centinaia degli altri paesi. Nel 2014 in Arabia Saudita sono state decapitate in tutto 88 persone. Ad agosto è stata decapitata la 102esima del 2015. E mancano ancora quattro mesi alla fine dell’anno.

CONDANNE ALLA CROCIFISSIONE. Pochi giorni fa, il 17 settembre per la precisione, nel Regno è stato condannato alla crocifissione Ali Mohammed Al-Nimr, figlio di un critico della monarchia islamica, arrestato nel 2012 quando aveva appena 17 anni. È stato accusato di aver protestato in modo illegale e di essere in possesso di armi da fuoco. Secondo molti giornali arabi, il ragazzo avrebbe confessato tutto sotto tortura. La sua richiesta di appello, appena respinta, è stata giudicata non pubblicamente, ma in segreto.
Solo per citare uno degli ultimi esempi di intolleranza radicale, l’Arabia Saudita ha proibito a National Geographic di vendere il suo numero di agosto in edicola e di spedirlo agli abbonati. La rivista ha citato «motivi culturali» alla base della censura. In copertina, sotto il titolo “La rivoluzione silenziosa”, c’era una foto di papa Francesco.

«ZERO DIRITTI». Al di là di questi ultimi casi, l’elenco delle violazioni dei diritti umani che avvengono in Arabia Saudita è lungo: dal trattamento delle donne a quello delle persone non islamiche, dalla violazione della libertà religiosa alla negazione della libertà di espressione, dallo sfruttamento disumano dei migranti per lavoro al trattamento riservato agli omosessuali, che possono incorrere anche nella pena di morte, per non parlare della rigidissima applicazione della sharia.
L’attivista laico Kacem El Ghazzali riassume così la vita nel Regno: «Questa è l’Arabia Saudita: l’unico membro dell’Onu a non aver firmato la Dichiarazione universale dei diritti umani, uno Stato con zero diritti per le minoranze, zero diritti per le donne, zero diritti umani, zero libertà e un sacco di oppressione e barbarica soppressione per chi dissente».


CI PENSANO I SAUDITI. Il Consiglio Onu per i diritti umani è nato nel 2006 e al Palazzo di vetro avevano giurato che «gli Stati membri avranno i più alti standard nella promozione e protezione dei diritti umani». Il Consiglio ha come scopo quello di «rafforzare, promuovere e proteggere i diritti umani nel mondo», oltre che «denunciarne le violazioni». Da oggi, ci penserà l’Arabia Saudita.

Occorre una ulteriore conferma della deriva delle istituzioni più importanti del pianeta che dovrebbero garantire la comunità umana anzichè, come accade , aggredirla?
Ormai l’ONU non è più un organismo di garanzia e imparzialità, ma solo una struttura inutile, costosissima e al soldo del maggior offerente, compratori che a suon di centinaia di milioni di dollari si comprano la legittimità a compiere qualsiasi violazione dei Diritti. Non solo ma è diventata essa stessa un pericolo con la diffusione delle nuove ideologie 'gender' che vengono imposte insieme all'aborto a tutti i paesi 'democratici' del mondo, specialmente i più poveri.
Da notare che nessuna associazione internazionale a difesa dei 'diritti umani obiettato ' come HRW o Amnesty International(tutte fanno capo comunque al Dipartimento degli Stati Uniti e legati a vari magnati )


giovedì 24 settembre 2015

THANKS, GOD

PORTARE LA NOSTRA PARTE DI NOTTE

CHAGALL, BLUE ANGEL
Portare la nostra parte di notte,
la nostra parte di mattino.
................................

Qui una stella, là un'altra stella.
Qualcuno smarrisce la via!
Qui una nebbia, là un'altra nebbia.
Poi, il giorno!

EMILY DICKINSON

TIMES ARE CHANGING

La tenerezza di Francesco mette Gesù davanti a ogni "strategia"



Il primo giorno americano di Francesco è stato talmente zeppo di eventi che è difficile scegliere da cosa cominciare: in ordine c'è stata la sua impacciata presenza nel tempio del potere mondiale, o almeno in quello che ne è il simbolo, la Casa Bianca, la sventagliata ai vescovi americani riuniti nella cattedrale di San Matteo, e la canonizzazione presso il National Shrine of the Immaculate Conception, di fra Junipero Serra, apostolo della California e colosso dell'evangelizzazione. 

Nella teatrale solennità della South Lawn, nell'incontro con Barack Obama ed elegantissima signora, ha, credo involontariamente, confermato quanto molti entusiasti supporter americani pensano di lui, vale a dire che è più vicino a Martin Luther King che a Benedetto XVI. La complicità dell'unica citazione del suo discorso, quella del reverendo di "I have a dream", ha portato molti opinionisti a elogiare non solo l'indiscussa autorità morale, ma anche l'apertura mentale, l'audacia del riformatore, l'energia esibita nell'imprimere una torsione alla Chiesa avvertita, troppo spesso, come ripiegata su se stessa, statica e conservatrice. 
La liturgia laica messa in piedi dal presidente degli Stati Uniti era tutta tesa a consacrare l'uomo della Speranza, il mediatore generoso dell'accordo con Cuba, l'eroe della lotta al climate change e l'idolo clericale di milioni di  fans.
Insomma Francesco leader mondiale, più che religioso, dal "buon radar politico", stratega furbo che fiuta sempre il vento e indica obiettivi, magari non proprio alla portata, ma sempre "politicamente corretti". Bergoglio ha ancora 4 giorni e 15 discorsi per mostrare che è un colossale autoinganno. 


Più interessante l'incontro con i 400 monsignori americani nella cattedrale di Washington, o almeno meno scontata l'attesa.
 Che tra il pontefice argentino e l'episcopato più ricco e numeroso del mondo l'intesa non fosse perfetta, non è una novità anzi per giorni è stato il luogo comune sventolato da siti e osservatori sulle colonne di quotidiani più o meno ostili. Il "papa comunista" è lontano dal sentire ecclesiale americano, troppo a sinistra per un corpo vescovile più spostato a destra, un pontefice insofferente al cattolicesimo statunitense a tinte civili che sposa liberismo e Vangelo. Queste le argomentazioni ricorrenti.
Sia chiaro, la dissonanza c'è, ed è evidente, ma non è all'origine del corposo momento di incontro che Francesco ha voluto riservare ai vescovi americani. Gliene ha dette quattro — commentava un collega — e con quel suo fare dolce li ha messi in riga. Non credo che un discorso articolato, spiritualmente e teologicamente inappuntabile, magistrale quanto un'enciclica possa essere ridotto ad una ramanzina, o peggio a "il Papa sono io e comando io". Bergoglio ha fatto molto di più.
E sebbene gli americani abbiamo preso gusto nel fargli le pulci, testando persino la sua "cattolicità", difficilmente potranno sfuggire alla logica della tenerezza, alla paternità amorosa che sprizza da ogni parola pronunciata da Francesco davanti ai confratelli statunitensi. 

Solo alcuni accenni di un discorso che va letto integralmente, senza censure.
1. Pregare, predicare, pascere, le nuove tre p che definiscono un vescovo.
2. Non complesse dottrine ma l'annuncio gioioso di Cristo
3. Arretrare, decentrarsi e abbassarsi, evitando la tentazione dell'autoreferenzialità e del narcisismo.
4. Non fare della Croce un vessillo di lotte mondane.
5. Non lasciarsi paralizzare dalla paura o leccarsi le ferite inferte dalla secolarizzazione.
6. Praticare la via del dialogo con tutti: il linguaggio aspro e bellicoso della divisione non si addice alle labbra del pastore.
7. Meglio la prossimità dell'amore che l'ancoraggio alle certezze granitiche.
8. Comunione, collegialità e unità. Il mondo è fin troppo frazionato per aggiungerci le divisioni tra pastori.
9. Non evadere le questioni irrinunciabili: sacralità della vita, poveri, bambini, immigrati, anziani e malati, vittime di terrorismo e guerra, ambiente e famiglia.
10. Esercitare la pastorale della prossimità e l'accoglienza verso i migranti. 

Detto così sembra un decalogo, con l'aggravante di una connotazione imperativa.
Ma lo straordinario Francesco ha tenuto quello che per tutti sarebbe stato un intervento correttivo con una dolcezza e una umiltà tali da spingere gli interlocutori a protendersi nell'ascolto. Non un giudice o un maestrino, ma un fratello tra fratelli, che ama troppo la Chiesa per tracciare strategie, preferendo di gran lunga la guida dello Spirito ai programmi personali. Un uomo capace di esercitare autorità e misericordia verso una Chiesa che ancora cura la ferita dello scandalo pedofilia, e che avverte ancora il bisogno di ribadire un "mai più" che dovrebbe ormai essere quasi scontato.

Quando poi torna a parlare di nuovo spagnolo, durante la celebrazione per la canonizzazione del missionario francescano a cui si devono i nomi delle più grandi metropoli della west coast, ripete quanto affermato in cattedrale davanti ai vescovi: Gesù per tutti. Un messaggio inclusivo che si traduce in un annuncio senza paura, senza pregiudizi, senza purismi. E' l'annuncio dell'abbraccio misericordioso di Cristo che non fa liste selettive, non distingue tra degni e non, non elabora progetti.

Anche ai fedeli arrivati per festeggiare il nuovo santo, come ai vescovi americani, il Papa chiede di non chiudersi in un'élite cristallizzata o di arroccarsi sulle proprie sicurezze, ma di diventare Chiesa in uscita, pronta a condividere la tenerezza riconciliatrice di Dio. 


Cristiana Caricato
ilsussidiarionet
giovedì 24 settembre 2015


leggi tutto il discorso
http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2015/september/documents/papa-francesco_20150923_usa-vescovi.html


mercoledì 23 settembre 2015

LIBERTA' RELIGIOSA E FAMIGLIA NATURALE: IL PRIMO SALUTO DI FRANCESCO AD OBAMA

Il pontefice alla presenza di Obama ha trattato un argomento caro ai vescovi locali e meno all’attuale Amministrazione democratica
di Matteo Matzuzzi | 23 Settembre 2015 ILFOGLIO

Washington, dal nostro inviato. La sorpresa è che nel discorso alla Casa Bianca, davanti a un sorridente Barack Obama e a una radiosa Michelle in abito nero, il Papa ha detto ben poco su quello che è uno dei suoi grandi cavalli di battaglia, la povertà, salvo un rapido accenno ai “milioni di persone sottoposte a un sistema che le ha trascurate” e ai “più deboli del nostro mondo”. A tal proposito, riprendendo “le sagge parole del reverendo Martin Luther King”, Francesco ha osservato che “siamo stati inadempienti in alcuni impegni ed è ora giunto il momento di onorarli”. Dopo gli inni nazionali, le fanfare, gli onori militari e una rievocazione storica con soldati in divisa storica armati di piffero, Francesco si è presentato come “figlio di una famiglia di emigranti” ora ospite “in questa nazione, che in gran parte fu edificata da famiglie simili”.

 Terminati i ringraziamenti di rito, il Pontefice ha subito gettato sul tavolo il tema della libertà religiosa, caro ai vescovi locali e meno all’attuale Amministrazione democratica. E mentre Obama, nel suo indirizzo di saluto, parlava come sempre di libertà religiosa solo in riferimento alle minoranze oppresse e alle chiese date alle fiamme, il Papa  – nel primo discorso istituzionale della sua vita negli Stati Uniti, pronunciato in un lento e cadenzato inglese (Bergoglio, come aveva fatto sapere qualche giorno fa il Sostituto della Segreteria di stato, mons. Giovanni Angelo Becciu, ha sostenuto un corso intensivo durante l’estate per migliorare la dizione) – ha sottolineato come i cattolici americani “si attendano che gli sforzi per costruire una società giusta e sapientemente ordinata rispettino le loro preoccupazioni più profonde e i loro diritti inerenti alla libertà religiosa”.

Una libertà che, ha aggiunto il Pontefice, “rimane una delle conquiste più preziose dell’America. E, come i miei fratelli vescovi degli Stati Uniti ci hanno ricordato, tutti sono chiamati alla vigilanza, proprio in quanto buoni cittadini, per preservare e difendere tale libertà da qualsiasi cosa che la possa mettere in pericolo o compromettere”. Anche sul tema della famiglia, di cui Francesco – come avrebbe spiegato più tardi nell’incontro con i vescovi ospitato nella cattedrale di San Matteo – parlerà abbondantemente a Philadelphia in occasione dell’Incontro mondiale della famiglia che si concluderà domenica con la messa da lui celebrata nel Franklin Parkway, ha voluto comunque chiarire che è necessario “sostenere le istituzioni del matrimonio e della famiglia in un momento critico della storia della nostra civiltà”.

Grande sintonia, invece, il Papa l’ha espressa a Obama riguardo la battaglia a difesa del clima: “Trovo promettente che lei abbia proposto un’iniziativa per la riduzione dell’inquinamento dell’aria. Considerata l’urgenza, mi sembra chiaro anche che il cambiamento climatico è un problema che non può più essere lasciato a una generazione futura”. Da qui, l’invito a fare il possibile per “affrontare dei cambiamenti che assicurino uno sviluppo sostenibile e integrale, poiché sappiamo che le cose possono cambiare”. C’è stato anche spazio per la diplomazia nell’intervento di Francesco alla Casa Bianca. Pur senza mai nominare Cuba, i negoziati degli ultimi mesi e le parole pronunciate nei giorni scorsi sull’isola caraibica, il Pontefice ha menzionato “gli sforzi compiuti di recente per riconciliare relazioni che erano state spezzate e per l’apertura di nuove vie di cooperazione all’interno della famiglia umana”. Sforzi che, ha aggiunto, “rappresentano positivi passi avanti sulla via della riconciliazione, della giustizia e della libertà”. Domani, nel primo mattino americano (le 15.20 in Italia), il Papa interverrà al Congresso: “Spero di dire una parola di incoraggiamento a quanti sono chiamati a guidare il futuro politico della nazione nella fedeltà ai suoi principi fondativi”.
Matteo Matzuzzi


lunedì 21 settembre 2015

DUE PAROLE SUL MEETING DI RIMINI


Davide Rondoni
Clandestino zoom

Il Meeting di Rimini e stata una occasione come al solito ricca di incontri. 

Al di la della tendenza della attuale leadership di CL a proporre un movimento un po' da Citton ( lo studente cattolico bravo che don Giussani incontrò al Berchet e a cui disse: sei buono e bravo e tutti ti dicono bravo, ma non sei "presente", sussultando quando invece uno studente dei primi giessini in assemblea disse che "Uno tra noi" era il motivo di tale inizio di presenza cristiana) e al di là di certe espressioni culturali un po' da oratorio ( come la mostra sull'arte contemporanea) la grande manifestazione riminese resta un punto in cui molti - specie giovani- incontrano esperienze di fede vivaci, sia in grandi testimonianze sia negli stand secondari, e sono invitati a pensare secondo le dimensioni del mondo. 
Su Il Sussidiario, Giorgio Vittadini, presidente Fondazione Sussidiarietà, tira le somme del Meeting dicendo che è stata l'occasione in cui molti hanno detto "io"', in una assunzione di responsabilità al di fuori di schemi ideologici e sociali. E questo è bene, come assunto educativo permanente.

Ma occorre che tale "io" specie in manifestazioni come il Meeting si proponga come un noi che si misura e si verifica in un'azione che ne chiarisce cultura e proposte per il bene comune. Altrimenti il sentore che va bene tutto e il contrario di tutto, non aiuta nè a orientarsi nell'arte, nella cultura nè nella politica.

Cattolico, si sa, significa, che riguarda tutto, non che tutto è uguale.

 In ogni caso fa sorridere che di una manifestazione in cui era presente la first lady afghana, i martiri di Aleppo e i monaci del Monte Koya molti si concentrino a soppesare l'intervento di un grillino maldicente o di un Renzi che da snobbatore si trasforma in cercatore di consenso. 

Se da un lato è giusto chiedere alla leadership di un grande movimento cattolico nato da un prete anarchico e "guerrigliero", protagonista della riforma della Chiesa, un po' di mordente in più per non essere una fotocopia di Sant'Egidio o una Opus Dei della middle class, dall'altra si sa che esaurita la fase carismatica iniziale, l'eredità di una grande esperienza non continua nelle forme iniziali, e irradia il suo valore ben oltre la continuazione del soggetto che ne detiene il "marchio". è accaduto con il francescanesimo, sta accadendo, con buona pace di tutti (e con vantaggio per tutti), con il giussanesimo.


sabato 19 settembre 2015

FEDE POLITICA LIBERTA' RELIGIOSA CULTURA E IDEOLOGIA IN USA AI TEMPI DI FRANCESCO

DA UN ARTICOLO DI MASSIMO INTROVIGNE 
LA NUOVA BUSSOLA 18/9/15                    

  (...) Più difficile ancora sarà l'impatto con gli Stati Uniti di chi, prima di essere Papa, è stato un intellettuale latino-americano che ha indossato senza scusarsene l'anti-americanismo tipico del suo ambiente culturale di riferimento. (...). 
Notre Dame University, South Bend INDIANA

Anche con il mondo cattolico statunitense, almeno con quello più conservatore che ancora esprime una parte importante dei vescovi, Francesco ha un oggettivo terreno di difficoltà. 

Questo mondo si è battuto con notevole e ammirevole coraggio sui temi della vita e della famiglia. Non è che Francesco non condivida queste battaglie: ha denunciato più volte la «colonizzazione ideologica» del gender e ha mandato regolari messaggi di incoraggiamento alle marce per la vita di Washington. Ma ha un timore, espresso in diverse interviste: che i “poteri forti” alla fine preferiscano una Chiesa che si occupa solo di vita e di famiglia, trascurando i temi della giustizia economica e della critica alla dittatura del profitto e del denaro

I “padroni del mondo” sono disposti a tollerare, per quanto a fatica, e non sempre, una Chiesa rinchiusa nel ridotto pro family, con un'attenzione quasi monotematica al gender, purché non disturbi i manovratori quando si parla di economia e di finanza. 

Un certo mondo cattolico americano critica Francesco perché parla molto di etica economica e un po' meno di etica familiare, e teme che le sue critiche al capitalismo americano, comprese quelle in nome dell'ecologia, siano un assist al socialismo, magari a quello in salsa latino-americana che va di moda in Ecuador o in Bolivia. 
Questa posizione nei confronti del Papa è, da un certo punto di vista, tipicamente statunitense. Qualche volta tradisce una fiducia ingenua nei confronti del capitalismo e del mercato, che portò gli stessi ambienti ad aggredire papa Benedetto XVI dopo l'enciclica Caritas in veritate, che denunciava - lo si dimentica troppo spesso - gli eccessi del capitalismo finanziario con accenti non troppo dissimili da quelli del Pontefice attuale. Non si può neppure fare finta che nel 2008 non sia successo nulla. La crisi finanziaria mondiale ha mostrato che al capitalismo di Wall Street e dintorni non si può dare fiducia quando afferma di sapersi dare le sue regole da solo.

Quanto alla famiglia, al gender e all'aborto, non sempre questi ambienti americani comprendono esattamente la posizione di Papa Francesco. 
Il Pontefice l'ha espressa ancora una volta alla vigilia del viaggio, nell'udienza generale dello scorso mercoledì (clicca qui). Sembrava un'udienza di routine, il cui scopo era concludere il lungo ciclo di catechesi sulla famiglia prima del Sinodo. Non lo è stata. 
Il Papa ha spiegato che la sua triplice battaglia contro la «tecnocrazia economica», contro chi provoca disastri ecologici in nome del profitto e contro le «colonizzazioni ideologiche» che aggrediscono la famiglia, in realtà è una, è la stessa. Gli stessi poteri forti internazionali impongono la dittatura di una finanza senza regole, rovinano l'ambiente e promuovono con ogni mezzo l'ideologia del gender. Sono gli stessi poteri forti: non sono poteri diversi. Criticarli solo sul versante del gender e della famiglia, non andando al cuore del loro dominio, che è economico e finanziario, è riduttivo. 

Naturalmente, è riduttivo - il Papa lo ha ricordato ai “movimenti popolari” latino-americani nei due incontri che ha avuto con loro - anche criticare soltanto le colonizzazioni economiche, dimenticando quelle “ideologiche” del gender e delle politiche anti-familiari. È uno schema certamente diverso da quello dei vescovi e cardinali statunitensi più attivi nel fronte pro family, e non è facile da far capire negli Stati Uniti. È questa la sfida che attende papa Francesco.

LEGGI QUI TUTTO L'ARTICOLO


GLI USA IN ATTESA DI FRANCESCO

George Weigel intervistato da Marco Respinti
la nuova bussola quotidiana 17-09-2015


In occasione della partecipazione all’VIII Incontro Mondiale delle Famiglie in programma a Filadelfia, il 22 settembre Papa Francesco arriverà negli Stati Uniti. Per ragioni diverse ma tutte rilevantissime, i viaggi dei suoi predecessori, il beato Paolo VI (1897-1978), san Giovanni Paolo II (1920-2005) e Benedetto XVI, sono stati sempre decisivi, impressi in modo indelebile nella memoria di chi c’era, dei cronisti e persino della storia non solo strettamente religiosa. Un po’, certamente, perché gli Stati Uniti sono il Paese più potente del mondo sul piano economico e militare, così come più influente sul piano sociale e culturale; ma un po’ anche perché sono un Paese “misterioso”, nato nel secolo dell’illuminismo trionfante, marcato indelebilmente dal sigillo del protestantesimo radicale, eppure di fatto ben disposto nei confronti del cattolicesimo come lo sono pochi altri Paesi.

The Holy Name Cathedral in Chicago
Del cattolicesimo americano vivo e combattivo, George Weigel è certamente uno dei rappresentanti più intelligenti e noti. Sua è la monumentale biografia in due volumi Testimone della speranza. La vita di Giovanni Paolo II (tard. it. Mondadori, Milano 2000) e La fine e l’inizio. Giovanni Paolo II: la vittoria della libertà, gli ultimi anni, l’eredità (trad. it. Cantagalli, Siena 2012), ma preziosissimo – tra i molti suoi libri preziosi – è anche La cattedrale e il cubo. Europa, America e politica senza Dio (trad. it. Rubbettino, Soveria Mannelli [Catanzaro] 2006). Senior Fellow e direttore del programma di Studi cattolici dell’Ethics and Public Policy Center di Washington, Weigel ha accettato di scattare per La Nuova Bussola Quotidiana qualche istantanea di quel “Paese misterioso” alla vigilia del viaggio apostolico del Pontefice. 

Che Paese sono oggi gli Stati Uniti d’America? Pronti per la visita di Papa Francesco?
Penso che l’interesse per la visita del Santo Padre sia enorme e che quindi il Paese lo accoglierà con grande calore.

Le critiche di Papa Francesco all’economia libera di mercato sono molte dure e del capitalismo gli Stati Uniti sono, per molti versi, la casa. I cattolici di buona dottrina, fedeli al Magistero, come per esempio lei, sono in genere ampiamente favorevoli all’economia capitalista. Cosa pensa del pensiero economico dell’attuale pontefice?

Nelle affermazioni che i media e la Sinistra politica amano citare, Papa Francesco ha mai usato la parola “capitalismo”. Il Papa critica l’avidità, la corruzione e la mancanza di attenzione ai poveri. E con queste sue critiche io sono totalmente d’accordo: si tratta infatti di problemi seri. Ma quel che il Pontefice conosce, per l’esperienza che ha dell’Argentina e di altri luoghi dall’America Latina, non è affatto il “capitalismo” inteso come il mercato regolato dal diritto e dalla cultura; quel che c’è in America Latina è infatti principalmente o una forma molto brutta del cosiddetto “crony-capitalism” (il capitalismo clientelare fatto di relazioni strette e sovente poco chiare tra businessmen e funzionari pubblici a discapito della libertà d’intrapresa e della genuina concorrenza), oppure il vecchio mercantilismo travestito da populismo.

I Papi non entrano mai nelle dispute politiche di alcun Paese, ma sui “princìpi non negoziabili” gli Stati Uniti del presidente Barack Obama hanno davvero raggiunto l’apice dell’arroganza ideologica. Pensa che, incontrandolo, Papa Francesco toccherà direttamente l’argomento?
L’incontro tra il Pontefice e Obama sarà di natura privata. Non saprei quindi davvero cosa dire. Eppure il Papa è perfettamente consapevole delle pressioni che l’Amministrazione Obama sta esercitando sulla Chiesa Cattolica attraverso quello che è un vero e proprio disegno d’irriverenza governativa nei confronti della libertà religiosa – un disegno che oggi minaccia la nostra capacità di essere quella “Chiesa ospedale da campo” che il Papa ci chiama a essere. Il Papa sa molto bene anche questo, e io per primo spero che con il presidente Obama solleverà la questione.

Pensa che il viaggio apostolico del Papa possa rafforzare e rincuorare quei cattolici americani che ancora non hanno perso la speranza e la voglia di battersi in difesa del matrimonio e della famiglia naturale, soprattutto dopo la recente sentenza con cui la Corte Suprema federale ha legalizzato le “nozze” LGBT negli Stati Uniti?
La battaglia per la difesa del matrimonio correttamente inteso è stata persa culturalmente molto prima che nel massimo tribunale del nostro Paese. Ricostruire un’autentica cultura del matrimonio sarà il lavoro di generazioni. Spero che il Santo Padre ci aiuti a muovere i primi passi di questo lungo cammino, quanto meno insegnandoci che è questa la strada che dobbiamo percorrere, per amore della nostra integrità di cattolici e come espressione della nostra responsabilità di cittadini.

Poco dopo il rientro del Pontefice dagli Stati Uniti, il 4 ottobre si aprirà il Sinodo dei vescovi sulla famiglia. Da tempo, numerosi rappresentanti della Chiesa che è in Germania, Austria e Svizzera parlano di temi legati al divorzio come mai si era sentito prima da presuli e porporati cattolici. Il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il card. Gerhard Ludwig Müller, paventa addirittura il rischio di una scisma.

Com’è, sul punto, lo stato di salute della Chiesa statunitense?
Molto, molto, ma molto più sano che nei Pesi che lei ha appena citato.

Un’ultima domanda. Prima di arrivare negli Stati Uniti, dal 19 settembre il Papa visiterà Cuba, una Cuba oramai democratizzata che oggi non fa più paura…

A Cuba non esiste alcuna nuova “democrazia”. Da quando, grazie alla mediazione vaticana, l’Amministrazione Obama si è accordata con il dispotismo cubano, nell’isola non è stato fatto un solo passo avanti nella tutela dei diritti umani. Spero che questo sia uno dei punti che il Papa solleverà con Raúl Castro.

venerdì 11 settembre 2015

WE'LL NEVER FORGET

Oggi è il giorno del ricordo di uno dei fatti più sanguinosi dell'umanità: gli attentati dell'11 settembre 2001. Nessuno potrà e dovrà mai dimenticare quei fatti ed è giusto farne memoria ogni volta che è possibile.

Il 20 aprile 2008, in occasione del suo Viaggio Apostolico negli Stati Uniti, Benedetto XVI si recò a Ground Zero per recitare una preghiera in memoria delle migliaia di vittime di quella tragica mattinata di settembre.



PREGHIERA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI


Ground Zero, New York
Domenica, 20 aprile 2008
 

O Dio dell’amore, della compassione e della riconciliazione,
rivolgi il Tuo sguardo su di noi, popolo di molte fedi e tradizioni diverse,
che siamo riuniti oggi in questo luogo,
scenario di incredibile violenza e dolore.


Ti chiediamo nella Tua bontà
di concedere luce e pace eterna
a tutti coloro che sono morti in questo luogo—
i primi eroici soccorritori:
i nostri vigili del fuoco, agenti di polizia,
addetti ai servizi di emergenza e personale della Capitaneria di Porto,
insieme a tutti gli uomini e le donne innocenti,
vittime di questa tragedia
solo perché il loro lavoro e il loro servizio
li ha portati qui l’11 settembre 2001.


Ti chiediamo, nella Tua compassione
di portare la guarigione a coloro i quali,
a causa della loro presenza qui in quel giorno,
soffrono per le lesioni e la malattia.
Guarisci, anche la sofferenza delle famiglie ancora in lutto
e di quanti hanno perso persone care in questa tragedia.
Concedi loro la forza di continuare a vivere con coraggio e speranza.
Ricordiamo anche coloro
che hanno trovato la morte, i feriti e quanti hanno perso i loro cari
in quello stesso giorno al Pentagono e a Shanksville, in Pennsylvania.
I nostri cuori si uniscono ai loro
mentre la nostra preghiera abbraccia il loro dolore e la loro sofferenza.

Dio della pace, porta la Tua pace nel nostro mondo violento:
pace nei cuori di tutti gli uomini e le donne
e pace tra le Nazioni della terra.
Volgi verso il Tuo cammino di amore
coloro che hanno il cuore e la mente
consumati dall’odio.

Dio della comprensione,
sopraffatti dalla dimensione immane di questa tragedia,
cerchiamo la Tua luce e la Tua guida
mentre siamo davanti ad eventi così tremendi.
Concedi a coloro le cui vite sono state risparmiate
di poter vivere in modo che le vite perdute qui
non siano state perdute in vano.
Confortaci e consolaci,
rafforzaci nella speranza
e concedici la saggezza e il coraggio
di lavorare instancabilmente per un mondo
in cui pace e amore autentici regnino
tra le Nazioni e nei cuori di tutti. 


© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana


Rileggi anche cosa disse don Giussani