venerdì 29 luglio 2016

GEORGE WEIGEL: L’EUROPA VUOLE MORIRE IN PACE?

 Il Foglio ha interrogato alcuni intellettuali cattolici americani su un continente che “vuole morire in pace” . Ecco quanto ha dichirato George Weigel, biografo del Papa San Giovanni Paolo II
 
George Weigel
(…) Per George Weigel il problema dell’occidente è nel comprendere chi ha di fronte. “La mancanza di volontà di nominare questa minaccia per quello che è va considerata parte del problema della incapacità dell’occidente di affrontare la minaccia con successo, sconfiggendola”, dice al Foglio Weigel, acclamato biografo di Karol Wojtyla e considerato uno dei più influenti e ascoltati intellettuali cattolici degli Stati Uniti. “Se l’occidente non è disposto ad affrontare il fatto che è stato il ritiro della propria potenza militare da Iraq e Afghanistan ad aver creato il vuoto da cui è emerso il veleno dell’Isis, non ci sarà risposta soddisfacente alla minaccia islamista o alla crisi dei rifugiati che paralizza l’Europa. Il presidente Obama, naturalmente, ha la responsabilità maggiore per questo ritiro e per il conseguente vuoto riempito dall’Isis, e ciò che è ancora peggio è stata la sua mancanza di volontà di imparare dagli errori”. Dieci anni fa, Weigel fu uno dei primi a inquadrare il conflitto interno all’Europa nel best-seller “La cattedrale e il cubo”. Dove il Cubo è La Grande Arche de la Défense, l’edificio voluto a Parigi da Mitterrand come monumento alla laicità, mentre la Cattedrale è quella cattolica di Notre-Dame.  


“Quando ho provato a discutere di questi problemi morali e culturali con gli europarlamentari a Bruxelles, mi è stato detto, in poche parole: ‘Non venire qui a provocare, sappiamo che siamo finiti, ma preferiamo morire in pace’”, continua Weigel al Foglio. “Questo messaggio mi ossessiona fin da allora. Se l’Europa e l’occidente in generale ridurranno la libertà a mero arbitrio personale – la ‘Repubblica del Me’ – allora non c’è motivo di pensare che andremo a resistere con successo alla sfida esistenziale posta dai jihadisti dell’islam. O a risolvere i nostri molteplici problemi. O a invertire un inverno demografico auto-indotto. Sarebbe utile che i leader della chiesa cattolica in tutta l’Europa occidentale si concentrassero su tali questioni piuttosto che perdere tempo a stabilire la morale sessuale cattolica e l’etica del matrimonio. La crisi morale della civiltà in Europa è, in fondo, una crisi di un secolarismo inacidito in un nichilismo e in uno scetticismo che alla fine producono ciò che il cardinal Joseph Ratzinger ha chiamato nel 2005 la ‘dittatura del relativismo’. La decadenza spirituale e intellettuale, a quanto pare, è invalidante per la civiltà come la decadenza materiale”.

Secondo Weigel, il problema è anche ormai una incapacità europea nel giustificare una eventuale guerra al terrore islamista. “L’occidente ha bisogno di giustificare i propri impegni verso la democrazia liberale. Questo è il presupposto assoluto per la difesa della democrazia liberale. E sembra ormai chiaro che la licenziosità nelle sue varie forme non fornisce tale giustificazione. La visione biblica della persona umana e quella della società umana sono tra i fondamenti culturali dell’occidente e, a meno che non venga recuperata, l’occidente è nei guai. Stiamo andando verso un periodo molto difficile. La mancanza di leadership politica in tutto l’occidente – e certamente includo gli Stati Uniti in questa accusa – è assolutamente spaventosa. Abbiamo bisogno di una figura come quella di Giovanni Paolo II per recuperare le parti più nobili del nostro patrimonio culturale, compreso l’impegno per la tolleranza e il pluralismo, e quindi ricostruire le democrazie su basi forti. Democrazie che sanno che possono e devono sconfiggere l’islamismo terrorista”. (…)


tratto da il Foglio del 20 luglio, di Giulio Meotti

VESCOVI ITALIANI, PARLATE CHIARO

Tom Kaine è stato nominato candidato alla vicepresidenza degli Stati Uniti con Hillary Clinton. Si tratta di una personalità di scarso rilievo politico, di alto profilo personale, ma è stato nominato soprattutto perchè cattolico.

Su questo punto è intervenuto il Vescovo Tobin. Riporto la dichiarazione in Inglese, perchè mi sembra più efficace e stringata, e segue una traduzione.

Bishops Thomas Tobin of the Diocese of Providence, Rhode Island, posted a message on Facebook :
VP Pick, Tim Kaine, a Catholic?
Democratic VP choice, Tim Kaine, has been widely identified as a Roman Catholic. It is also reported that he publicly supports “freedom of choice” for abortion, same-sex marriage, gay adoptions, and the ordination of women as priests. All of these positions are clearly contrary to well-established Catholic teachings; all of them have been opposed by Pope Francis as well.
Senator Kaine has said, “My faith is central to everything I do.” But apparently, and unfortunately, his faith isn’t central to his public, political life.
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Il vescovo Thomas Tobin della diocesi di Providence, Rhode Island, ha postato un messaggio su Facebook :
VP Pick, Tim Kaine, un cattolico?
La scelta VP democratico, Tim Kaine, è stata ampiamente identificata come un cattolico. Si segnala inoltre che egli sostiene pubblicamente "libertà di scelta" per l'aborto, il matrimonio omosessuale, adozioni gay, e l'ordinazione delle donne come sacerdoti. Tutte queste posizioni sono chiaramente in contrasto con gli insegnamenti cattolici consolidati; tutti loro sono contrari a quello che insegna Papa Francesco, pure.
Il senatore Kaine ha detto: "La mia fede è centrale per tutto quello che faccio." Ma a quanto pare, e, purtroppo, la sua fede non è fondamentale per la sua vita politica pubblica."




mercoledì 27 luglio 2016

UN VECCHIO PRETE È MORTO E DARÀ VITA.

 UNA VITTIMA? NO, UN MARTIRE NEL CUORE DELL’EUROPA
26 luglio 2016 AGENSIR
Davide Rondoni

Hanno ammazzato un prete. In chiesa. Doveva essere lui, don Jacques. Lo aveva deciso il Dio invocato per tanti anni, pregato in silenzio per lunghi decenni tutti i giorni, offerto a tanti per tanti giorni. Non è cosa più grave che ammazzare un ragazzo al Mc Donald. Ma forse non sanno questi lupi assetati di sangue che hanno commesso un errore. Perché se le tutte le altre persone uccise in Europa erano povere, disgraziate vittime del terrorismo, come le chiamano i media furbi e vili, padre Hamel invece è un martire. Un vero martire. Non come loro che muoiono dando morte. I martiri sono più utili dei giornali per capire cosa succede. I martiri fanno sempre la differenza. E ora chiedono a tutti noi: ci sono uomini che uccidono usando il nome di Dio e un vecchio uomo sgozzato, martire per Dio. Da che parte stai?

Padre Jacques Hamel, 84 anni, il parroco sgozzato da due attentatori
Doveva essere lui, don Jacques. Lo aveva deciso il Dio invocato per tanti anni, pregato in silenzio per lunghi decenni tutti i giorni, offerto a tanti per tanti giorni. Lui aveva visto tante cose, la guerra, i cambiamenti sociali. Aveva visto cambiare la Francia – figlia prediletta della Chiesa, si diceva un tempo. Doveva essere lui il primo prete sgozzato in nome di Allah in terra europea dopo secoli e secoli. Lo aveva deciso il Dio che di certo ne conosceva la fede, la pazienza, il coraggio di una vita fedele alla Chiesa. Il primo prete martire in questo modo orrendo. Un vecchio prete, in un sobborgo, che fastidio dava? Ma la sua chiesa era un obiettivo sensibile – sì, lo era. Perché questi che sono entrati e l’hanno sgozzato non ragionano come noi ragioniamo. E allora li chiamiamo pazzi. Ma non lo sono per nulla.
Sono nichilisti islamici, combattenti di una guerra a pezzi che solo gli stupidi o gli interessati fanno finta di non vedere.
Ora hanno ammazzato un prete. In chiesa. Non è cosa più grave che ammazzare un ragazzo al Mc Donald. Ma forse non sanno questi lupi assetati di sangue che hanno commesso un errore. Perché se le tutte le altre persone uccise in Europa erano povere, disgraziate vittime del terrorismo, come le chiamano i media furbi e vili, padre Hamel invece è un martire. Un vero martire. Non come loro che muoiono dando morte. Lui è morto e darà vita. Un vecchio prete. Una vittima da poco, quasi, verrebbe da dire, meno importante dei tanti troppo giovani uccisi a Kabul, a Nizza a Parigi? Lui stesso, immagino, di certo già sta sorridendo delle nostre parole. Del nostro strano paradosso a riguardo della sua morte. Infatti, se nella logica del terrorismo, e nella logica della politica e della cultura che pavide o prepotenti attraverso guerre e leggi hanno alimentato terrorismo don Hamel è una vittima come le altre, e forse, se si può dire, quasi “meno importante” delle altre (era vecchio, lo sapeva pure lui, sarebbe d’accordo con noi) ecco nel computo più profondo don Hamel appartiene luminosamente, tremendamente alla razza dei martiri. E questo cambia le cose. Cambia molto le cose. Non le cambia per i media, e per il dolore di amici e parenti. E nemmeno per il dolore di altre vittime come lui. Ma cambia le cose al livello in cui le cose si comprendono.

Lui è un martire. Il primo in Europa – un vecchio prete – come tanti ce ne sono stati tra i cristiani nel mondo in questi anni e mesi che non abbiamo voluto vedere, nel quasi silenzio internazionale. Uccisi perché cristiani.

È stato ucciso da uomini che, sappiamo, erano francesi. Con in bocca il nome che danno a Dio, gli hanno tagliato la gola. Rispondono a un appello oscuro e mondiale: “colpite”. Un grido di guerra. Che come un vento sta mietendo vittime ovunque. Ma il collo piegato di don Jacques dà una piega diversa a tutta la faccenda. Il suo sangue che si unisce allo sterminato sangue dei cristiani martiri sparso nel mondo chiarisce le cose (e di certo farà germinare frutti di fede e di giovinezza). Ci sono cosiddetti martiri che in nome di Dio uccidono e veri martiri che in nome di Dio muoiono. Chi preferirà la nostra ammirazione ? Il potere, la forza hanno molte seduzioni. Ma il sacrificio di don Jacques – un vecchio prete in una vecchia Europa – come di tanti troppi cristiani nel mondo, sta chiarendo dove sta la luce e dove l’ombra.
In nome di Dio non si uccide, semmai in nome di Dio si muore.
Ma la decadente, supponente, chiacchierona cultura europea non saprà onorare il martirio di don Jacques. Non capirà le differenze, continuerà a parlare una lingua lontana dalla vita.
Verranno altri martiri in terra europea. L’invito del Papa a essere fratelli, a non considerare i confini un bene identitario (erano francesi questi assassini, no?) e a cercare tra uomini di fede autentica a collaborare contro l’odio, è l’unica strada. Le altre non funzionano.
Non funziona la strategia di integrazione in nome della neutralità, non funziona una integrazione senza amicizia. E non c’è amicizia senza condividere e discutere delle cose importanti – come l’amore, come Dio. Non funziona più nulla di quanto inventato da questa politica europea. E la Francia, la bellicosa Francia sempre pronta a intervenire in giro per l’est e il sud del mondo per garantirsi la propria grandeur, si ritrova esposta, violata. Abitata dal primo evidente martire europeo. Da una piccola rosa recisa. Da questa vita piccola  (era anziano, si torna bambini) sprigiona però una luce immensa. Che mostra come tutte quelle che i media, i politici, i commentatori chiamano “vittime” sono tutti, tutti martiri. Dio lo sa. Perché l’odio che uccide usando il nome di Dio fa morire in nome di Dio. Tutti martiri.
Hanno fatto un errore, i lupi assetati di sangue.
Perché forse pensavano che per noi fosse già chiaro, che le nostre vittime le considerassimo già nostri martiri. Pensavano che ci sentissimo già dentro una guerra santa. I loro capi gliela raccontano così a queste teste bacate da odio e orrore. E ora hanno fatto l’errore di creare un indubitabile martire in Europa. Un vero e proprio martire. Uno che muore in nome di Dio, invece di essere come loro – che uccidono usando il nome di Dio. Padre Jacques non sapeva che Dio aveva deciso questo destino per lui. Forse se glielo avesse annunciato un qualche angelo con un bicchiere di rosso francese in mano non ci avrebbe creduto. “Io martire, un vecchio prete in un sobborgo francese?”. Ma Dio ama la sua chiesa di amore furioso e dolce. E ha colto un dire strano, quasi che avesse paura di fare troppo male. E ha scelto il vecchio don Jacques. Per illuminare cosa sta succedendo.

Perché i martiri sono più utili dei giornali per capire cosa succede. I martiri fanno sempre la differenza. E ora chiedono a tutti noi: ci sono uomini che uccidono usando il nome di Dio e un vecchio uomo sgozzato, martire per Dio. Da che parte stai? Da dove ripartire per guardare questo tempo cupo e spaventoso? Dal potere, dalla guerra? O dall’amore per il Dio di don Jacques, quel Dio che chiama amici i suoi, e che dice siete fratelli? Non ce ne eravamo dimenticati, pensando di costruire società “perfette” senza di Lui?

lunedì 25 luglio 2016

RATZINGER: CHE COSA MINACCIA LA DEMOCRAZIA

Il mondo perfetto non esiste
i di J. Ratzinger* (1984)

D. «Che cosa minaccia oggi la democrazia?»
R. «C’è innanzitutto l’incapacità di fare amicizia con l’imperfezione delle cose umane: il desiderio di assoluto nella storia è il nemico del bene che è nella storia. L’idea che la storia passata sia stata una storia di non libertà si afferma sempre di più; e che finalmente ora, o tra poco, si potrà o si dovrà costituire la società giusta».
«Io penso che noi oggi dobbiamo con ogni decisione chiarirci che né la ragione né la fede promettono, a nessuno di noi, che un giorno ci sarà un mondo perfetto.


Esso non esiste. La sua continua aspettativa, il gioco con la sua possibilità e prossimità, è la minaccia più seria che incombe sulla nostra politica e sulla nostra società, perché di qui insorge fatalmente l’onirismo anarchico.
Per la consistenza futura della democrazia pluralistica e per lo sviluppo di una misura umanamente possibile è necessario riapprendere il coraggio di ammettere l’imperfezione ed il continuo stato di pericolo delle cose umane».
«Sono morali solo quei programmi politici che suscitano questo coraggio. Immorale è al contrario quell’apparente moralismo che mira ad accontentarsi solo del perfetto. Sarà quindi necessario anche un esame di coscienza nella predicazione morale della Chiesa o vicina alla Chiesa, le cui ipertese esigenze e speranze spingono alla fuga dal piano morale a quello utopico».


*Cristianesimo e democrazia pluralista (Christliche Orientierung in der pluralistichen Demokratie? Uber die Unverzichtbarkeit des Christentums in der modernen Welt), conferenza del 24 aprile 1984,

traduzione di don Pietro Cantoni.

domenica 24 luglio 2016

COMBATTERE IL TERRORISMO ISLAMICO IN MODO CRISTIANO.

Intervista a Rémi Brague

Lo storico francese Rémi Brague, considerato fra i più grandi pensatori contemporanei, ha rilasciato un’intervista alla rivista Famille Chrétienne dopo l’attentato di Nizza. Il filosofo sottolinea il problema dell’islam (e dell’islamismo) e spiega come affrontare il nemico che sta colpendo l’Europa in modo cristiano, cioè senza odiarlo. Sull’attitudine di politici e intellettuali a non chiamare le cose con il loro nome, preferendo parlare di generico terrorismo e non terrorismo islamico, ad esempio, afferma:

«La paura di nominare il nemico è antica. Chi, prima della caduta del muro, osava nominare il marxismo-leninismo o l’Unione Sovietica? Si preferiva parlare vagamente di “ideologie”. E gli uomini di Chiesa non sono stati da meno nell’applicare questa strategia evasiva. Il plurale è un escamotage conveniente. Utilizzato ancora oggi, come quando si parla di “religioni”. Allo stesso modo si preferisce usare l’acronimo Daesh, che include solo i termini arabi, piuttosto che usare il termine “Stato islamico”, in modo da evitare di nominare l’islam».

E sulla necessità di non fare di tutta l’erba una fascio, accusando l’islam di essere terrorista, spiega:
«La vera linea di demarcazione non è tra islam e islamismo. Tra questi due non c’è che una differenza di grado, ma non di natura. Ciò che bisogna veramente e fermamente distinguere è da una parte l’islam, con tutte le sue sfumature e le sue intensità, e dall’altra i musulmani in carne e ossa. (…) Non bisogna ridurre queste persone concrete al sistema religioso che domina i loro paesi d’origine».

Poi, più che sulla violenza, si sofferma sullo scopo della violenza dei jihadisti:
«Non dimentichiamo che la violenza è prima di tutto un mezzo e che noi dobbiamo chiederci quale sia lo scopo. Questo scopo è l’istituzione, in tutto il mondo, di una legislazione che altro non è che una forma di sharia, in grado di governare la morale individuale e il comportamento in famiglia, l’economia e infine il sistema politico. Siamo affascinati da aspetti spettacolari degli attentati, dalle decapitazioni messe in scena dallo Stato islamico con grande attenzione e bravura. Ma tutto questo ci distrae dal vero problema, che è quello dello scopo. Il quale può essere ottenuto con altri mezzi, più discreti, ma altrettanto efficaci, come il senso di colpa dell’avversario, la pressione sociale, la propaganda ripetuta senza fine, tutte forme di un inganno».

Infine, il filosofo Brague spiega davvero che cosa significa perdono cristiano in relazione agli attentati terroristi:
«Molte persone pensano che il perdono delle offese, e anche quella richiesta incredibilmente paradossale di Cristo che è l’amore per i nemici, significhi rifiutare di ammettere che abbiamo dei nemici. Al di fuori di questa prospettiva cristiana del perdono e dell’amore per il nemico, l’avversario può solo divenire l’equivalente del male assoluto (…). Il perdono dei nemici non è mai controproducente. Quello che certamente produce è la conversione del nostro cuore, il rifiuto di lasciarci trascinare nella spirale della vendetta, nell’estremizzazione della violenza. Colui che è pronto a perdonare si chiederà se chi dice di essere suo nemico non abbia anche qualche ragione di esserlo. Si sforzerà di correggersi, senza sensi di colpa. E combatterà, perché bisogna combattere, e lo farà anche con coraggio. Ma senza odio».

Luglio 21, 2016 Redazione

mercoledì 20 luglio 2016

CARRON: RITORNARE AGLI ASPETTI ELEMENTARI DEL CRISTIANESIMO

San Bertrand de Commiges, chiesa di Sant Just
«Iuvenescit Ecclesia, la Chiesa ringiovanisce…: suona come un’affermazione gioiosa l’incipit della Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica sulla relazione tra doni gerarchici e carismatici per la vita e la missione della Chiesa che reca la data della Pentecoste 2016 e la firma della Congregazione per la dottrina della fede. E in effetti l’intero suo svolgimento (5 capitoli e 24 paragrafi) è un percorso per riprendere consapevolezza dei modi in cui i carismi suscitati senza sosta dallo Spirito Santo nel tessuto vivo della Chiesa la ringiovaniscono in modo permanente. Lo disse il Vaticano II mezzo secolo fa, lo ridice oggi la Santa Sede con parole rafforzate dall’esperienza e dalla storia, entrambe condivise in questa lunga ma ancora breve tappa post-conciliare da Comunione e Liberazione, movimento di respiro globale eppure ovunque con l’inconfondibile volto dell’umanità di ogni specifico luogo dove i figli spirituali di don Luigi Giussani sono arrivati per trapiantarne il carisma educativo e missionario. Don Julián Carrón è uno di loro, quello chiamato a raccogliere il suo impegnativo testimone (è il destino di chi arriva dopo i fondatori) e a portarlo in lungo e in largo come presidente della Fraternità di Cl, sospinto dallo slancio di un Papa che parla la sua stessa lingua natale.


Don Carrón, la Lettera intende «favorire una feconda e ordinata partecipazione delle nuove aggregazioni alla comunione e alla missione della Chiesa». Che intento, e quale gesto, ha letto in questo documento?
Un gesto di paternità della Chiesa riguardo ai doni che lo Spirito suscita in essa per ringiovanirla, mostrando la loro articolazione in rapporto ai doni gerarchici. Solo se si capisce la natura di questa relazione, i doni carismatici potranno servire a incrementare la comunione e la missione della Chiesa.


Uno dei punti centrali del testo è il rapporto tra carisma e servizio alla Chiesa. L’esperienza di Cl che cosa insegna su questo aspetto?
Don Giussani ci ha sempre educati, non solo con le parole ma soprattutto con i gesti, a metterci al servizio della Chiesa nel modo in cui prendeva sul serio qualsiasi richiesta gli veniva rivolta dal Papa o dai vescovi, vivendo l’obbedienza come suprema virtù a imitazione di Cristo. In secondo luo- go, invitandoci costantemente alla missione ci educava al servizio della Chiesa. Tutto il movimento era da lui percepito come parte della missione della Chiesa universale. Fin dall’inizio ci ha proposto di vivere le dimensioni del mondo con quella apertura senza limite che vediamo in papa Francesco. Pensi che i primi giovani del movimento partirono per il Brasile nel gennaio 1962 per comunicare quel Cristo che aveva cambiato la loro vita.


Per quale fine è dato il carisma di una realtà ecclesiale? E che cosa va visto nella loro grande varietà?
Il loro scopo è «il fine apostolico della Chiesa ». Dice san Paolo: «La manifestazione dello Spirito è data a ciascuno per l’utilità» tanto della persona che lo riceve quanto della Chiesa tutta. «Tutto si faccia per l’edificazione ». La loro molteplicità parla della condiscendenza di Dio che, con la sua fantasia, dona alla sua Chiesa questa varietà di carismi per raggiungere ciascuno secondo la propria sensibilità, storia o cultura, con una modalità attrattiva e persuasiva.


Mettiamoci a confronto con una realtà concreta come quella di una parrocchia: in che modo deve proporsi la presenza di un movimento all’interno del tessuto comunitario?
Parrocchia e movimento sono chiamati a collaborare insieme, secondo i loro compiti, all’unica missione della Chiesa. I movimenti possono raggiungere gli uomini nell’ambiente lavorativo, ricreativo, educativo, eccetera, per partecipare, poi, alla vita della comunità cristiana radunata nella parrocchia. Come succede ovunque, i membri dei movimenti collaborano da tempo con gli ambiti catechistici, caritativi e liturgici in seno alla comunità parrocchiale.


Cos’è andata scoprendo nel corso del tempo Comunione e Liberazione nel suo cammino dentro la Chiesa in relazione alla propria missione specifica?
Uno degli aspetti più rilevanti di questa Lettera è che ha come oggetto «le aggregazioni di fedeli, movimenti ecclesiali e nuove comunità», tutte realtà accomunate dalla tensione a «suggerire una proposta di vita cristiana tendenzialmente globale», o «forme rinnovate della sequela di Cristo», senza una specificità particolare. Noi ci riconosciamo pienamente nella descrizione, secondo la quale lo scopo di questa aggregazioni è portare «nei nuovi contesti sociali il fascino dell’incontro con il Signore e la bellezza dell’esistenza cristiana vissuta nella sua integralità». Come scrisse don Giussani nella sua ultima lettera a san Giovanni Paolo II, «ritengo che il genio del movimento che ho visto nascere sia di avere sentito l’urgenza di proclamare la necessità di ritornare agli aspetti elementari del cristianesimo, vale a dire la passione del fatto cristiano come tale nei suoi elementi originali, e basta».


In che modo ci si educa a comprendere che cosa lo Spirito Santo chiede ai movimenti in questa fase che potremmo definire di maturità della loro presenza e azione?
Il Papa ci invita tutti a essere una Chiesa in uscita. Come ci ha detto papa Francesco al termine della plenaria del Pontificio Consiglio per i laici, la Chiesa si rivolge «sempre a volti, menti, cuori di persone concrete... allargando gli orizzonti e raccogliendo le nuove sfide che la realtà ci presenta... alzate lo sguardo e guardate “fuori”, guardate ai molti “lontani” del nostro mondo». Solo uscendo per incontrare il bisogno degli uomini, solo attraverso la realtà e la necessità degli uomini, potremo riconoscere che cosa ci chiede lo Spirito Santo dandoci la grazia del carisma.


A che cosa vi sentite chiamati dalla parola e dalla testimonianza di papa Francesco?
A imparare a interloquire con gli uomini del nostro tempo attraverso una modalità semplice, a portata di mano di tutti: un incontro, che può suscitare curiosità e desiderio nei nostri interlocutori.


Potendoglisi rivolgere personalmente, che cosa propone e che cosa chiede a chi si avvicina oggi alla realtà di Comunione e Liberazione?
Noi proponiamo la bellezza del fascino della fede, una fede vissuta nelle circostanze presenti. Chiedo la semplicità di accoglierci per quello che riusciamo a testimoniare di quel fascino attraverso la nostra vita, raggiunta e cambiata dalla grazia di un incontro.


 INTERVISTA FRANCESCO OGNIBENE
19 luglio 2016 avvenire 

DOPO NIZZA BISOGNA SEMPLICEMENTE RIFARE IL CRISTIANESIMO

MONS. LUIGI NEGRI
Luglio 18, 2016 
Avendo affermato sé come assoluto e avendo negato la Chiesa, oggi gli uomini occidentali sono rimasti soli, con l’unica compagnia della solitudine e del silenzio



Vorrei intervenire brevemente su questa orrenda vicenda per dire, insieme alla mia più grande vicinanza a tutte le vittime e ai loro famigliari, alcune parole che sento profondamente. Mi rendo conto che tanto sarà detto in queste ore e in questi giorni, molti discorsi di circostanza da parte di chi custodisce questo sistema sociale che si sta disfacendo sotto l’urto di pressioni che sembrano davvero irresistibili.

Da parte mia vorrei semplicemente e brevemente rivolgermi alla gente, alla gente vera, quella che ha i volti che ho visto stamattina nelle trasmissioni televisive, la gente che si sente profondamente smarrita e abbandonata. Per secoli, in effetti, era stato detto alle varie generazioni che c’era una presenza nella nostra vita, una presenza che non sarebbe mai venuta meno, quella amorevole del Signore nostro Gesù Cristo, alla luce del quale tutte le circostanze – anche quelle più terribili che hanno caratterizzato la vita dei nostri popoli negli ultimi secoli – hanno potuto essere vissute con esemplare dignità, una dignità che ha reso grandi le generazioni passate anche nella tragedia.
Oggi però, avendo negato tale Presenza per affermare l’uomo come assoluto, e avendo negato la Chiesa per affermare l’autonomia della ragione umana e del progresso scientifico – che culmina nelle orrende manipolazioni genetiche che sono costantemente sotto i nostri occhi – non resta che constatare che l’uomo è rimasto solo, che non c’è veramente più nessuno accanto a lui, e all’incommensurabile dolore per le perdite umane e famigliari non rimane che la compagnia della solitudine e del silenzio. Ma allora cosa dobbiamo fare? Personalmente non posso parlare se non per quelli che credono in Dio o quelli che quantomeno lo attendono. A costoro dico che bisogna ritornare a quello che ha affermato in un lucido studio sulla chiesa delle origini il beato card. J. H. Newman, e ribadito dall’allora card. Ratzinger: bisogna semplicemente fare il cristianesimo.
In questo mondo dove tutto si dissolve e la solitudine domina la vita dei singoli e della società, condannandola a un processo segnato dalle diverse patologie – la più tremenda delle quali è la violenza – bisogna decidersi a non puntellare l’impero. I primi cristiani non puntellarono l’impero ma fecero semplicemente un’altra cosa: fecero il cristianesimo. Affermarono che Cristo, vivente tra loro nel mistero della Chiesa, era l’unica vera risposta sulla vita dell’uomo e del mondo. Forti di questa certezza la testimoniarono con la loro vita, quindi non semplicemente parlando di Dio, perché di Dio parlano anche gli atei, e neppure genericamente parlando del trascendente, ma del Dio di Gesù Cristo, che in Gesù Cristo si è fatto carne e storia.

Ricostruiamo dunque le nostre comunità attorno a Gesù Cristo, facciamo nascere dalla sua presenza quella socialità nuova a cui fa riferimento la “Lettera a Diogneto”, e investiamo il mondo di una tale presenza, che è forte e mite. Forte perché certa che Dio ha vinto, ha già vinto in Cristo – e questa vittoria non sarà eliminata da nessuna forza diabolica – ma anche mite, perché questa nostra vita nuova è una proposta di libertà che rivolgiamo alla libertà di ogni uomo e donna che vive accanto a noi. Non so cosa succederà in futuro ma so che quanto più si dilaterà l’esperienza autentica della chiesa nella sua natura più propria, tanto più aumenterà, in tanti uomini e donne, la speranza e il sorriso, poiché avranno riconosciuto quella Presenza che non viene mai meno.

DONALD TRUMP UN FENOMENO AMERICANO CHE NON FA PIÙ RIDERE


Ma rimane lo zimbello del bel mondo giornalistico italiano

Oggi si apre la Convention repubblicana a Cleveland e gli inviati dei giornali italiani hanno deciso di scrivere tutti lo stesso pezzo.
Hanno scoperto che negli Stati Uniti si può girare armati e un “tycoon di destra” sta per assicurarsi la nomination.

E’ una grande festa del giornalismo collettivo. Maria Laura Rodotà sul Corriere della Sera ha la penna puntata su Trumpland e ci spiega che “Steve Loomis, ha chiesto inutilmente al governatore John Kasich un bando temporaneo delle armi per tutta la settimana”. L’inviata con un fremito sottolinea che “è vietato portare palle da tennis, bombolette spray, corde e zaini. Ma si può passeggiare con un mitra”.
Federico Rampini su Repubblica non si fa fregare cita anch’egli Loomis e ci dà dentro con grande originalità: “La polizia locale ha potuto vietare durante la convention «armi improprie» come «le pistole ad acqua e le palle da tennis» (sic); ma rimane perfettamente legale girare con un kalashnikov”. Wow.
Paolo Mastrolilli sulla Stampa - come la Rodotà sul Corriere e Rampini su Repubblica - cita Steve Loomis, il presidente del sindacato di polizia di Cleveland che ha chiesto il bando delle armi durante la convention. Toh, compare il nome di Nixon, non può mancare in una Convention di “un tycoon di destra”. Massimo Gaggi sul Corriere della Sera – come Rampini su Repubblica e Mastrolilli sulla Stampa – spiega che Trump dopo la strage di poliziotti a Cleveland “in un tweet piange le vittime di Baton Rouge e si chiede «quanti altri difensori della nostra sicurezza dovranno essere uccisi a causa della mancanza di leadership nel nostro Paese: noi chiediamo legge e ordine»: «Law and Order», come nel noto serial televisivo”.

Il serial in realtà è sulle pagine dei giornali italiani. Va in onda sempre la stessa puntata. A reti unificate. Quando mai avremo il piacere di leggere un pezzo originale e controvento?

venerdì 15 luglio 2016

ATTENTATO A NIZZA: ALLA LAICA FRANCIA NON RESTA CHE PREGARE

 Renato Farina
venerdì 15 luglio 2016


C'è una certezza: il sangue. E un'altra: la paura.
L'immenso camion bianco si è mosso a gran velocità alle 22 e 30 di ieri, ha puntato sulla folla che sciamava sulla Promenade des Anglais a Nizza. Si era appena dissolta la luce allegra dell'ultimo fuoco d'artificio per le celebrazioni della festa nazionale francese. Attentato, certo — dice il buon senso.
Il buon senso ormai ha imparato a individuare nelle sciagure la volontà assassina. E qui siamo al terrorismo allo stato puro, nella sua quintessenza.

C'è il segno inesorabile della farneticazione dei guerrieri del califfo, che non sanno che farsene della vita degli altri, se non spazzarla via, come un bottino da far valere davanti a un Dio che non esiste, non c'è un Dio così, non può che essere un ologramma spaventoso del Diavolo.
Investire la folla pacifica e perciò colpevole, nel bel mezzo di una festa pagana, patriottica, di una nazione nemica è puro orrore. E se l'orrore si può perpetrare, proprio per questo si deve fare, e l'hanno fatto. Così ragionano i teorici e gli esecutori di questa guerra santa, anzi demoniaca. Il primo conteggio dice: 73 morti.

Tutto questo accade mentre l'Europa si sta accasciando su se stessa, incapace di fare memoria non dico del suo battesimo cristiano, ma di quella fraternità che pur la Rivoluzione francese, attingendola dal Vangelo ha proclamato, e si festeggiava proprio nel momento in cui il Tir bianco piombava sulla folla.
Seguo il succedersi degli eventi e della conta dei morti (30, poi 50, 60, e poi 73: non finisce mai) sul sito Facebook e twitter di Nice-Matin, il quotidiano locale. E c'è una notiziola che colpisce, tra quelle luttuose, e accende un'idea di che cosa sia l'uomo. "I tassisti di Nizza stanno evacuando la folla gratuitamente, portando la gente lontano dal luogo dell'attacco". Li vedo questi tassisti. Portano le famigliole fuori dal cerchio supposto del pericolo, e ci si reimmergono, con coraggio, per un bene più grande, obbedendo a qualcosa di diverso dall'odio che arde nonostante tutti i relativismi del mondo, tutti i rancori e la noia, in fondo al nostro cuore.
Non è ammesso oggi pronunciare la parola vendetta, non ha nessun senso. Ma capacità di piegarsi sui feriti, e rendere impossibile l'azione e il reclutamento a questi seguaci del Diavolo, ripetendo e sperando come Gesù: non sanno quello che fanno. Come il buon samaritano dobbiamo curare i feriti dai briganti, versare olio e vino sulle ferite di chi è stato colpito dai malfattori.

Ma alle autorità degli Stati tocca oggi non solo curare i feriti, ma impedire che gli assassini facciano nuove vittime. E' misericordia anche questa: prevenire, combattere, annientare le furie omicide in nome di un Dio che non esiste. I capi delle nazioni sappiano adesso rinunciare alle pretese egemoniche e alle ambizioni idiote e personalistiche per costruire insieme un po' di pace in questo caos.


GRANDE INTERVISTA A RÉMI BRAGUE

L’EUROPA CORRE PERICOLI MOLTO PIÙ GRAVI DELLA BREXIT
TEMPI Luglio 11, 2016 Elisa Grimi
Lo storico della filosofia della Sorbona spiega cosa vuol dire quando dice che «dobbiamo tornare al Medio Evo». E augura sulla sua generazione (quella degli ex sessantottini «privilegiati») di finire «prima possibile nell’immondezzaio della storia»

«Pensate alla Svizzera, rannicchiata nel cuore del continente, con le sue tre lingue ufficiali più il romancio, e le sue due confessioni cristiane: un’Europa in miniatura, che tuttavia non fa parte dell’Unione. L’Europa è più grande dell’Unione Europea». 
Rémi Brague, saggista e storico della filosofia, docente alle università di Parigi I Pantheon-Sorbona e di Monaco Ludwig-Maximilian, ha studiato e scritto molto a riguardo dell’identità europea. All’indomani del referendum che ha sancito l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, ha risposto ad alcune domanda di Tempi.


Professore, che cosa pensa di questa Europa all’indomani della Brexit?
La cultura europea ha le sue ricchezze, e i pericoli che la minacciano si trovano a un livello diverso da quello politico. In ogni caso immagino che nessuno desideri rimorchiare la Gran Bretagna per trainarla fino al Pacifico e ormeggiarla al fianco della Nuova Zelanda. E immagino che gli studenti del continente continueranno a sognare di formarsi a Oxbridge. Mentre io per parte mia continuerò a ridere leggendo P. G. Wodehouse, e a riflettere leggendo Chesterton o C. S. Lewis.

Subito dopo il referendum la sterlina ha avuto una flessione ma poi ha rimbalzato. C’è chi si mostra entusiasta del risultato, per molti inglesi sembra trattarsi di una vera e propria liberazione da un potere impersonale e distante. Gli si deve dare torto?
Le reazioni dei britannici mi sembrano più sfumate di così. Non è certo che siano tutti entusiasti, nemmeno fra quelli che hanno votato per l’uscita dall’Unione Europea. In ogni caso, occorre vedere quali cambiamenti concreti seguiranno a questo referendum, perché la decisione non si ferma lì, la parola ora passa al parlamento.

Il fenomeno delle migrazioni di massa è sotto gli occhi di tutti. Molti migranti sono profughi costretti a fuggire dalla propria terra per potere sopravvivere. Hanno perso tutto e si ritrovano a dovere ricostruire la propria vita in terre che non conoscono veramente, dove lingua, cultura e tradizione sono diverse dalle loro. Crede che i problemi per l’accoglienza di questi migranti, insieme a quelli determinati dalla massiccia immigrazione comunitaria, siano stati determinanti per la vittoria della Brexit alle urne? Si tratta di una motivazione egoista o realista?
La presenza massiccia di immigrati provenienti da regioni del mondo i cui costumi e le cui religioni sono molto diversi da quelli europei, è un problema reale. Bisogna avere il coraggio di porlo e di cercare i mezzi per affrontarlo in modo più serio che con discorsi sulla tolleranza, la diversità, il meticciato e altre ingenuità. Bisogna anche ricordarsi che l’Occidente è in gran parte responsabile delle guerre che ispirano il desiderio di queste persone di abbandonare i loro paesi e cercare in Europa la pace e il benessere.

Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo, alla vigilia del voto aveva detto che una Brexit sarebbe stata «l’inizio della fine della civiltà occidentale così come la conosciamo». A risultato conosciuto, non sono mancati commenti da tutto il mondo. La cancelliera tedesca Angela Merkel ha affermato che «l’idea dell’unità europea è una idea di pace, non possiamo mai dimenticarlo», mentre il presidente francese François Hollande ha detto che farà «di tutto affinché si adotti un cambiamento profondo piuttosto che un ripiegamento dell’Europa». È solo un gioco di facciata delle principali potenze europee, preoccupate che il sistema collassi, e con esso i loro crudi interessi?

Queste affermazioni apocalittiche mi sembrano un po’ ridicole. La civiltà occidentale mi sembra minacciata da altri fattori più gravi da ben prima della Brexit. Anzitutto dalla mancanza di fiducia in se stessa.
La «fine della civiltà occidentale» è una possibilità reale, ma niente dimostra che debba consistere in un crollo brusco. Temo piuttosto un suo esaurimento progressivo, a causa della rinuncia a se stessa, che sarebbe indolore e passerebbe quasi inavvertito. Le parole di Angela Merkel mi sembrano invece un richiamo salutare: il motivo iniziale del progetto dei padri dell’Europa (Adenauer, Schuman, De Gasperi) non era la ricchezza economica, ma il mantenimento della pace: si trattava anzitutto di rendere impossibile un nuovo scontro fra la Francia e la Germania.

Il collante di questa Europa sembra essere unicamente la moneta, collante che si sta rivelando sempre più fallace. Crede sia possibile ritornare a parlare di identità europea per ciò che la costituisce nella sua origine, tornare a parlare cioè della storia dell’Occidente?
Non sono sicuro che si debba vedere nella moneta unica qualcosa di scarsa importanza. Ricordo di avere avuto una reazione emotiva molto forte quando ho visto apparire le prime monete dell’euro, che portano ciascuna, a differenza delle banconote, il sigillo del paese che le ha emesse. «Gli amici sono anche qui», mi è venuto spontaneo pensare. Inoltre, mentre la carta o il pezzetto di metallo non hanno alcun valore intrinseco, la moneta detta «fiduciaria» esiste solamente grazie alla fiducia, e dunque la simboleggia. Non si deve opporre l’economia a un’identità europea che sarebbe solo spirituale.

Papa Francesco ha recentemente dichiarato che, guardando al tasso altissimo di disoccupazione in Europa, c’è certamente qualcosa che non va in questa Unione “massiccia”. Ma ha anche sottolineato che due sono le parole che egli associa a questa Europa: fecondità e creatività. Lei crede realisticamente che oggi sia realizzabile un progetto d’integrazione che non sia solo burocratico ed economico-commerciale ma anche educativo e culturale?
Fecondità? Se si tratta di uno sguardo retrospettivo al passato, la fecondità effettivamente è stata una delle cause più importanti del successo storico dell’Europa a partire dall’XI secolo. Se invece si guarda al presente, parlare di fecondità è uno scherzo di cattivo gusto, dal momento che sappiamo che le popolazioni europee non rinnovano le loro generazioni e si condannano così all’estinzione. Creatività? Sì, certamente, a condizione di non pretendere di «creare» a partire dal nulla. Perché è più facile distruggere che costruire. Nelle rivoluzioni capita spesso che si distrugga per fare piazza pulita, senza che poi sorga nulla di durevole. Ho l’impressione che il progetto di integrazione europea non funzioni meglio in nessun altro ambito che in quello dell’educazione. Il programma Erasmus funziona piuttosto bene e permette a un numero sempre maggiore di giovani di scoprire altre lingue e paesi europei diversi dai loro.

A Parigi si è di recente concluso il Symposium Thomisticum, un convegno internazionale di filosofia in collaborazione con studiosi provenienti da tutto il mondo. In tale occasione lei ha proposto una riflessione in cui si esortava il ritorno al Medio Evo, quello dei padri della Chiesa (non quindi il periodo buio), in cui era possibile una visione unitaria della società. Il convegno si è svolto nei pressi del Pantheon, sul quale è impresso il motto “Liberté, égalité, fraternité”. Forse che tale finta laicità che questa iscrizione celebra non sia l’origine della perdizione dell’Europa di oggi?
Il Medio Evo al quale ho detto che dovremmo tornare, con una formula volontariamente paradossale e provocatoria, non è quello che coincide col sogno di una società organica che non è mai esistita se non nell’immaginazione. Io pensavo solamente ai concetti fondamentali del pensiero medievale: la creazione, la provvidenza, la redenzione, il perdono. È il Medio Evo dei padri della Chiesa, ma anche quello dei grandi scolastici, e anche quello degli scrittori. È il Medio Evo che è stato anche, prima del Rinascimento italiano, il teatro di una successione quasi ininterrotta di microrinascimenti che tentavano di recuperare quel che poteva essere salvato dell’eredità antica, sia pagana sia cristiana: Boezio, Cassiodoro, Alcuino, Giovanni Scoto Eriugena, la scuola di Chartres.

Le nuove generazioni sono in balìa degli alti e bassi dell’economia mondiale. Impostano la loro vita inseguendo l’altalena di crescita e decrescita del Pil, l’enorme precarietà impedisce loro di formare una famiglia. Da questo punto di vista, l’esperimento europeo non è forse fallito? Come possono gli europei ritrovare se stessi in queste condizioni?
La situazione che lei descrive, e che costituisce in gran parte la causa del tracollo demografico dell’Europa, è il risultato di decisioni prese dagli europei della mia generazione, i figli del baby boom diventati sessantottini. Questi privilegiati, che grazie all’ombrello nucleare americano non hanno conosciuto la guerra in Europa e hanno goduto dei «Trenta gloriosi» (gli anni del miracolo economico europeo fra il 1945 e il 1973, ndr), si sono mostrati di un egoismo scoraggiante nei confronti della generazione seguente, che hanno voluto d’altra parte poco numerosa. Le hanno lasciato un ambiente inquinato, un debito pubblico sempre crescente e, nell’ambito morale, degli esempi di comportamento devianti e mortiferi. Mi auguro che la presente generazione ci getti prima possibile nell’immondezzaio della storia.

Allontanandosi dallo sguardo ipocrita tipico della realtà del suo tempo, G. K. Chesterton scriveva quasi un centinaio di anni fa La Nuova Gerusalemme, un racconto in cui il protagonista partendo da Londra, capitale del più grande impero di allora, si recava nella Parigi capitale del giacobinismo che aveva coniato il mondo moderno, quindi scendeva nella Roma papale, imperiale e repubblicana; attraversava poi il mare per arrivare all’ombra delle piramidi egiziane e da lì giungeva nella Terra Promessa dei Patriarchi biblici. Vale ancora il suo pensiero per cui «l’uomo moderno è simile a un viandante che non ricorda più il nome della sua meta e deve ritornare nel punto da cui proviene per scoprire dove è diretto»? È possibile questo per un europeo di oggi? Da dove partire?
Devo confessare che, benché io ami tantissimo l’opera di G. K. Chesterton, il libro La Nuova Gerusalemme manca alle mie letture. Chinarsi sulle proprie origini e sulla propria storia non è un modo sbagliato per sapere chi si è. Questo non significa che saremmo obbligati a continuare nella stessa direzione dei nostri antenati. Spetta solo a noi, che viviamo nel tempo presente, decidere. Ma è proprio per questo che abbiamo bisogno di prendere più chiaramente coscienza di quello che siamo. E noi siamo costituiti da esperienze accumulate dai nostri antenati. Che non ne siamo coscienti non cambia nulla alla questione.


Leggi di Più:
 L'Europa dopo la Brexit. Intervista a Rémi Brague | Tempi.it 

giovedì 14 luglio 2016

LA MANCANZA DI MEMORIA CI STA UCCIDENDO.


LEONARDO LUGARESI

Travolto, come tutti, dallo tsunami di chiacchiere che sulla rete, in televisione e sui giornali è immediatamente seguito all’incidente ferroviario avvenuto ieri in Puglia, sono sbigottito nel constatare che nessuno ricorda che un incidente molto simile (per non dire identico) c’è stato il 9 febbraio del 2016 (ripeto: il 9 febbraio del 2016!) in Germania, nei pressi della cittadina di Bad Aibling, 40 chilometri a sud di Monaco di Baviera. Anche lì scontro frontale tra due treni, dieci morti e una novantina di feriti. Anche lì in un tratta a binario unico (come ce ne sono tante in tutta Europa e come in moltissimi casi è giusto che sia) … ah, lì c’era anche il sistema automatico di blocco dei treni (!), solo che non ha funzionato …

Naturalmente questo non cambia nulla per la terribile sciagura che è accaduta ieri, ma ricordarlo forse ci avrebbe risparmiato milioni di stupidaggini che si sono dette, scritte e purtroppo anche lette e ascoltate in queste ore. Ma noi, ormai, non ci ricordiamo niente, neanche quello che è successo ieri l’altro. Siamo come dementi che hanno perso completamente la memoria.
E la demenza, alla lunga, uccide.



DALLAS: QUANDO MUORE UN SOGNO TUTTO PUÒ SUCCEDERE

Massimo Introvigne
LANUOVABUSSOLA sabato 9 luglio 2016


La sparatoria di Dallas — dove un afro-americano ha ucciso cinque poliziotti dopo che la polizia aveva abbattuto due afro-americani in Louisiana e Minnesota — è il più grave attentato contro le forze dell'ordine americane dopo l'11 settembre e segnala quello che i sociologi più attenti alla vita sociale degli Stati Uniti segnalano da tempo: gli Stati Uniti sono disuniti, il sogno americano di una società dove, alla fine, qualunque sia il colore della pelle o la religione alcuni valori sono condivisi da tutti, è finito.

Qualcuno potrebbe pensare che il sogno americano è una finzione, pensando alla Guerra Civile che ha fatto più morti statunitensi delle due guerre mondiali messe insieme. Eppure dalle ceneri di quella terribile guerra era nato faticosamente un ethos americano condiviso, rafforzato dalle due guerre mondiali vissute dalla nazione con un afflato patriottico che aveva unificato le diverse etnie e religioni, i cui fedeli avevano combattuto ed erano morti insieme nelle stesse trincee. Il movimento per i diritti civili degli afro-americani aveva avuto i suoi oppositori, ma alla fine era entrato in una narrativa americana condivisa. E poteva sembrare che l'elezione di un presidente di colore, Barack Obama, nel 2008 avesse finalmente consacrato l'unità della nazione al di là delle barriere razziali. Anche molti che non condividevano nulla dell'agenda politica di Obama avevano festeggiato la sua elezione — quel giorno ero a Chicago, e lo ricordo bene — precisamente per questo motivo. Le ultime ferite della schiavitù si rimarginavano e la nazione voltava definitivamente pagina. O almeno così sembrava.

Perché, di fatto, è avvenuto il contrario. La narrativa americana si fondava infatti su due elementi: un sentimento di superiorità — quello che dà tanto fastidio ai vicini latino-americani — secondo cui l'America è la prima potenza mondiale, investita della missione di prendersi cura del resto del mondo, e l'idea che i buoni americani — siamo neri o bianchi, protestanti, cattolici o ebrei — condividono una serie di valori morali essenziali. 

Il secondo elemento della narrativa aveva cominciato a rompersi con l'aborto, che aveva diviso profondamente "pro-choice" e "pro-life", e si è rotto definitivamente con il matrimonio omosessuale. I commenti durissimi dei quattro giudici su nove della Corte Suprema, compreso il suo presidente, che non hanno condiviso la decisione della maggioranza di imporre a tutti gli Stati il matrimonio fra persone dello stesso sesso hanno offerto un'immagine plastica degli Stati Disuniti. Se volano gli stracci all'Interno della Corte Suprema, la più augusta istituzione del Paese, la narrativa degli Stati per definizione Uniti crolla come un castello di carte. 

Con Obama è successo anche dell'altro. In una riedizione più lunga della disastrosa presidenza di Jimmy Carter, gli Stati Uniti hanno fatto un passo indietro, hanno abbracciato il pluricentrismo e hanno dato l'impressione di abbandonare la pretesa di essere la potenza regolatrice dell'ordine mondiale, salvo poi cercare di riprendersela nel confronto con la Russia con una serie infinita di passi indietro, passi avanti e contraddizioni.
Qualcuno può pensare che la fine di una certa arroganza americana sia positiva. Ma ne nasce una profonda crisi della coscienza nazionale. Del resto, la certezza del primato degli Stati Uniti era già stata erosa negli anni precedenti attraverso la concatenazione di tre eventi successivi. Anzitutto l'11 settembre ha fatto perdere all'America la sicurezza di essere inattaccabile sul suo suolo, che pure aveva resistito alla seconda guerra mondiale, per non parlare della perdita di fiducia negli apparati di sicurezza interni, anche a prescindere dalle diffuse ipotesi complottiste. Secondo: la crisi economica del 2008 ha distrutto la fiducia secondo cui i meccanismi messi in piedi dopo la crisi del 1929 assicuravano in modo certo che quella crisi non potesse ripetersi. Terzo: una serie di clamorosi rovesci diplomatici, dal Venezuela alla Libia.
Nel 2016 è poi successo qualche cosa che sarebbe stato impensabile sotto qualunque altro presidente: Obama ha accettato di cedere il controllo dell'Icann, cioè le chiavi di Internet per tutto il mondo, dal governo degli Stati Uniti (che le ha tenute finora) a un'autorità internazionale.

Chi passa del tempo negli Stati Uniti percepisce quasi fisicamente questa crisi della coscienza americana e questa mancanza di fiducia, su cui del resto si gioca tutta la campagna elettorale — fra Trump che promette di fare di nuovo grandi gli Stati Uniti e la Clinton che assicura competenza laddove c'è stato, soprattutto nel secondo quadriennio di Obama, dilettantismo a tutti i livelli —, anche se comunque finisca il quadro non sembra destinato a migliorare. 

Certamente ci sono degli attori non governativi che possono in qualche modo sostituirsi al governo degli Stati Uniti. Abbiamo visto diverse volte Obama convocare i vertici di Apple, Microsoft, Google, Facebook e Amazon e farsi sostanzialmente dettare la linea da loro, anche con rovesciamenti spettacolari rispetto a progetti (per esempio in materia di brevetti) che aveva annunciato in precedenza. Questo è uno degli sviluppi più inquietanti: non conta chi sia il presidente, queste cinque aziende da sole sono in grado se vogliono di fermare il mondo. Forse non assistiamo alla fine dell'egemonia degli Stati Uniti ma alla sua privatizzazione, con il passaggio dal governo a un pool di aziende private che hanno fatturati superiori a quelli di molti Stati europei. Tuttavia, mentre nel potere dei loro governi gli americani avevano abbastanza fiducia, in quello delle aziende ne hanno molto meno, e dal momento che è la mancanza di fiducia che causa le crisi politiche ed economiche la situazione attuale non è sorprendente.

Se viene meno la narrativa nazionale, risorge anche il problema razziale e l'odio tra bianchi e neri, o più esattamente fra bianchi poveri — i cosiddetti "white trash", "rifiuti bianchi" — e afro-americani poveri, perché quelli ricchi siedono negli stessi salotti buoni della politica e negli stessi consigli di amministrazione.

È una guerra tra poveri che hanno perso la sola ricchezza che ne accompagnava la povertà: la narrativa americana, non importa se vera o mitologica, secondo cui la grandezza della nazione e la sua superiore e condivisa moralità erano valori per cui valeva la pena di stare insieme e di sopportare qualche torto. Quando cadono le narrative nazionali e muoiono sogni secolari, tutto può succedere, compresa la tragedia di Dallas.