giovedì 14 luglio 2016

DALLAS: QUANDO MUORE UN SOGNO TUTTO PUÒ SUCCEDERE

Massimo Introvigne
LANUOVABUSSOLA sabato 9 luglio 2016


La sparatoria di Dallas — dove un afro-americano ha ucciso cinque poliziotti dopo che la polizia aveva abbattuto due afro-americani in Louisiana e Minnesota — è il più grave attentato contro le forze dell'ordine americane dopo l'11 settembre e segnala quello che i sociologi più attenti alla vita sociale degli Stati Uniti segnalano da tempo: gli Stati Uniti sono disuniti, il sogno americano di una società dove, alla fine, qualunque sia il colore della pelle o la religione alcuni valori sono condivisi da tutti, è finito.

Qualcuno potrebbe pensare che il sogno americano è una finzione, pensando alla Guerra Civile che ha fatto più morti statunitensi delle due guerre mondiali messe insieme. Eppure dalle ceneri di quella terribile guerra era nato faticosamente un ethos americano condiviso, rafforzato dalle due guerre mondiali vissute dalla nazione con un afflato patriottico che aveva unificato le diverse etnie e religioni, i cui fedeli avevano combattuto ed erano morti insieme nelle stesse trincee. Il movimento per i diritti civili degli afro-americani aveva avuto i suoi oppositori, ma alla fine era entrato in una narrativa americana condivisa. E poteva sembrare che l'elezione di un presidente di colore, Barack Obama, nel 2008 avesse finalmente consacrato l'unità della nazione al di là delle barriere razziali. Anche molti che non condividevano nulla dell'agenda politica di Obama avevano festeggiato la sua elezione — quel giorno ero a Chicago, e lo ricordo bene — precisamente per questo motivo. Le ultime ferite della schiavitù si rimarginavano e la nazione voltava definitivamente pagina. O almeno così sembrava.

Perché, di fatto, è avvenuto il contrario. La narrativa americana si fondava infatti su due elementi: un sentimento di superiorità — quello che dà tanto fastidio ai vicini latino-americani — secondo cui l'America è la prima potenza mondiale, investita della missione di prendersi cura del resto del mondo, e l'idea che i buoni americani — siamo neri o bianchi, protestanti, cattolici o ebrei — condividono una serie di valori morali essenziali. 

Il secondo elemento della narrativa aveva cominciato a rompersi con l'aborto, che aveva diviso profondamente "pro-choice" e "pro-life", e si è rotto definitivamente con il matrimonio omosessuale. I commenti durissimi dei quattro giudici su nove della Corte Suprema, compreso il suo presidente, che non hanno condiviso la decisione della maggioranza di imporre a tutti gli Stati il matrimonio fra persone dello stesso sesso hanno offerto un'immagine plastica degli Stati Disuniti. Se volano gli stracci all'Interno della Corte Suprema, la più augusta istituzione del Paese, la narrativa degli Stati per definizione Uniti crolla come un castello di carte. 

Con Obama è successo anche dell'altro. In una riedizione più lunga della disastrosa presidenza di Jimmy Carter, gli Stati Uniti hanno fatto un passo indietro, hanno abbracciato il pluricentrismo e hanno dato l'impressione di abbandonare la pretesa di essere la potenza regolatrice dell'ordine mondiale, salvo poi cercare di riprendersela nel confronto con la Russia con una serie infinita di passi indietro, passi avanti e contraddizioni.
Qualcuno può pensare che la fine di una certa arroganza americana sia positiva. Ma ne nasce una profonda crisi della coscienza nazionale. Del resto, la certezza del primato degli Stati Uniti era già stata erosa negli anni precedenti attraverso la concatenazione di tre eventi successivi. Anzitutto l'11 settembre ha fatto perdere all'America la sicurezza di essere inattaccabile sul suo suolo, che pure aveva resistito alla seconda guerra mondiale, per non parlare della perdita di fiducia negli apparati di sicurezza interni, anche a prescindere dalle diffuse ipotesi complottiste. Secondo: la crisi economica del 2008 ha distrutto la fiducia secondo cui i meccanismi messi in piedi dopo la crisi del 1929 assicuravano in modo certo che quella crisi non potesse ripetersi. Terzo: una serie di clamorosi rovesci diplomatici, dal Venezuela alla Libia.
Nel 2016 è poi successo qualche cosa che sarebbe stato impensabile sotto qualunque altro presidente: Obama ha accettato di cedere il controllo dell'Icann, cioè le chiavi di Internet per tutto il mondo, dal governo degli Stati Uniti (che le ha tenute finora) a un'autorità internazionale.

Chi passa del tempo negli Stati Uniti percepisce quasi fisicamente questa crisi della coscienza americana e questa mancanza di fiducia, su cui del resto si gioca tutta la campagna elettorale — fra Trump che promette di fare di nuovo grandi gli Stati Uniti e la Clinton che assicura competenza laddove c'è stato, soprattutto nel secondo quadriennio di Obama, dilettantismo a tutti i livelli —, anche se comunque finisca il quadro non sembra destinato a migliorare. 

Certamente ci sono degli attori non governativi che possono in qualche modo sostituirsi al governo degli Stati Uniti. Abbiamo visto diverse volte Obama convocare i vertici di Apple, Microsoft, Google, Facebook e Amazon e farsi sostanzialmente dettare la linea da loro, anche con rovesciamenti spettacolari rispetto a progetti (per esempio in materia di brevetti) che aveva annunciato in precedenza. Questo è uno degli sviluppi più inquietanti: non conta chi sia il presidente, queste cinque aziende da sole sono in grado se vogliono di fermare il mondo. Forse non assistiamo alla fine dell'egemonia degli Stati Uniti ma alla sua privatizzazione, con il passaggio dal governo a un pool di aziende private che hanno fatturati superiori a quelli di molti Stati europei. Tuttavia, mentre nel potere dei loro governi gli americani avevano abbastanza fiducia, in quello delle aziende ne hanno molto meno, e dal momento che è la mancanza di fiducia che causa le crisi politiche ed economiche la situazione attuale non è sorprendente.

Se viene meno la narrativa nazionale, risorge anche il problema razziale e l'odio tra bianchi e neri, o più esattamente fra bianchi poveri — i cosiddetti "white trash", "rifiuti bianchi" — e afro-americani poveri, perché quelli ricchi siedono negli stessi salotti buoni della politica e negli stessi consigli di amministrazione.

È una guerra tra poveri che hanno perso la sola ricchezza che ne accompagnava la povertà: la narrativa americana, non importa se vera o mitologica, secondo cui la grandezza della nazione e la sua superiore e condivisa moralità erano valori per cui valeva la pena di stare insieme e di sopportare qualche torto. Quando cadono le narrative nazionali e muoiono sogni secolari, tutto può succedere, compresa la tragedia di Dallas.

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