mercoledì 31 agosto 2016

DON FABIO BARONCINI, GIUSSANI E CL



Tra i primi a seguire don Luigi Giussani, per 40 anni gli è stato a fianco nella guida di Comunione e Liberazione. Ora, appena celebrati i 50 anni di sacerdozio, in questa intervista don Fabio Baroncini racconta la sua vocazione («la testimonianza che Dio è fedele») e il suo incontro con don Giussani («la scoperta che Cristo è la salvezza per ogni uomo»). E lascia un compito: «Resistere, resistere....»

La lunga vita sacerdotale? «È vedere realizzata la promessa di Dio». Don Giussani? «Per me ha significato scoprire che Gesù Cristo è la salvezza per tutti gli uomini, scoprire l’orgoglio di essere cristiani». Comunione e Liberazione? «Non ha ancora realizzato la genialità di Giussani». A parlare così è don Fabio Baroncini, che del movimento fondato dal servo di Dio don Luigi Giussani non è soltanto uno della prima ora, ma è stato parte del ristretto gruppo di amici che per 40 anni ha condiviso con Giussani la responsabilità del movimento. 
Don Fabio Baroncini e Lidia Giussani

Lo incontro in un caldo pomeriggio di fine luglio nella canonica della sua parrocchia di San Martino a Niguarda, un paesino inglobato nella città di Milano, a due passi dal famoso Ospedale Maggiore Ca’ Granda. A 74 anni, e dopo 30 anni da parroco in questa chiesa, tra pochi giorni lascerà questa casa parrocchiale perché si è dovuto dimettere per motivi di salute e si trasferirà in un nuovo appartamento. Incontrandolo oggi, in questo uomo alto e magro, reso curvo e fragile dalla malattia, che cammina con difficoltà e parla con un filo di voce, apparentemente è difficile riconoscere quel prete “montanaro” che con agilità fuori dal comune guidava i suoi ragazzi su tutte le montagne delle Alpi – anche in escursioni notturne – per fare apprezzare il gusto della bellezza del Creato. Eppure, proprio in questa fragilità risalta ancora di più un’energia che non viene dall’uomo, quello spirito indomito e quella urgenza di rendere presente a tutti il fatto cristiano che ancora oggi, a dispetto della debolezza fisica, lo vede girare instancabilmente per tante famiglie, gruppi, comunità di giovani e vecchi di Cl, per rendere presente il carisma di don Giussani. Don Fabio Baroncini ha appena celebrato i 50 anni di sacerdozio: venti anni passati da coadiutore a Varese, dove è stato l’anima di una delle comunità più numerose e vivaci di Cl e che per l’occasione gli ha dedicato una grande festa, e poi trenta da parroco a Milano.

Don Baroncini, come sintetizzerebbe questi 50 anni di vita sacerdotale?
Sono la testimonianza della fedeltà di Dio al compito che ci dà, alla vocazione cui ci chiama. Arrivato a 50 anni della mia ordinazione sacerdotale vedo oggi che il Signore è stato fedele. All’inizio ho dovuto rischiare sulla speranza, cioè sulla certezza che il futuro mi avrebbe restituito quello che io desideravo, quando tutto apparentemente sembrava dire il contrario. Oggi, dopo 50 anni di vita sacerdotale, dico che questa fedeltà di Dio l’ho verificata.

Come si concretizza questa fedeltà? In cosa consiste questa promessa realizzata?Consiste nel fatto che la mia vita così com’è, con le sue banalità quotidiane, può essere un’offerta a Dio attraverso la quale tanta gente, mi pare di poter dire, abbia creduto in Gesù Cristo. 

In 50 anni di sacerdozio sono sicuramente tanti i fatti e le suggestioni che varrebbe la pena fossero raccontati. Ma quale aspetto in particolare l’ha colpita?
Mi ha sempre colpito la stima di cui sono stato circondato come prete, da tanta brava gente. Ricordo che quando sono diventato parroco qui a Niguarda, andai a parlare con monsignor Ferrari, che era vicario generale di Milano. E lui mi disse: “Guarda, a Niguarda troverai tanta brava gente, che ti darà quello che potrà. E infatti a Niguarda la cosa che mi ha stupito in questi tempi recenti è di quanto la gente voglia bene ai suoi preti. 

TUTTO IL MONDO SARA’ CONTRO DI TE

 “Immaginate, al contrario, uno che resiste… Questo è il cristiano, nella storia questo è il cristiano, e se non è così non è cristiano…. Resistenti bisogna essere. Come resistenti? Resistenti, resistenza…rivoluzione: è un rivoluzionario, e un rivoluzionario deve essere combattivo.

Qual è l’unica risposta all’omologazione? Fare la rivoluzione. Non è un concetto mio, è un concetto di Gesù, è la prima parola detta da Gesù: “Cambiate mentalità”, cambiate modo di giudicare, di vedere, di sentire, di gustare, di amare, di fare le cose.
(…) Cosa vuol dire, dunque, essere contrari alla omologazione generale? Se sei contrario alla omologazione generale non potrai essere riconosciuto, non potranno lodarti, i giornali non parleranno di te, a meno di far scandalo contro di te, le televisioni non riprenderanno la tua faccia (…).
Se sei così, tutto il mondo sarà contro di te, eppure capirai che lo scopo della vita e il gusto della vita starà proprio nel continuamente gridare al mondo, incominciando da chi ti è vicino di banco, quello che il tuo cuore e i cuori di tutti desiderano dalla loro origine (…).

Non puoi non essere perseguitata, amica mia, non puoi non essere odiata. Ma è nel dolore di questa persecuzione che tu coverai il seme luminoso e caldo della messe finale, del significato ultimo del mondo, che un giorno tutti – tutti! – riconosceranno, tutti dovranno riconoscere e diranno: ‘Aveva ragione, aveva ragione!’. Al di fuori di questo scopo non c’è più né affezione, né amicizia”.
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DON LUIGI GIUSSANI

da Realtà e giovinezza. La sfida, (Ed. Sei, p. 86)

sabato 27 agosto 2016

SE LA FEDE SI RIDUCE A SENTIMENTO

 “False accuse alla Chiesa. Quando la verità smaschera i pregiudizi

LUTERO E LA DEMOLIZIONE DEL CATTOLICESIMO
MONS. LUIGI NEGRI


«Chiamiamo le cose con il loro nome, Lutero non voleva riformare, ma ha obiettivamente demolito la Chiesa. Ha ridotto la fede a sentimento e soppresso la realtà ecclesiale nella sua sacramentalità. E' inesatto e parziale dire che è stato un riformatore non capito». Sono parole di monsignor Luigi Negri, che domenica sera al cinema Tiberio di Rimini ha presentato in un affollato incontro pubblico il suo ultimo libro, la nuova edizione aggiornata di "False accuse alla Chiesa. Quando la verità smaschera i pregiudizi", editore Gribaudi, con una presentazione di mons. Luigi Giussani.

Fra i dieci capitoli del lavoro, scritto nello stile vigoroso e sintetico che contraddistingue l'autore, uno è dedicato appunto al protestantesimo, un tema attualissimo visto l'ormai prossimo cinquecentenario delle origini. Rispondendo alla domanda del moderatore su cosa fosse accaduto nel 1517 e anni seguenti, ha spiegato l'arcivescovo di Ferrara-Comacchio:
Lutero affigge le 95 tesi sulla porta della chiesa
del castello di Wittenberg

«Lutero ha iniziato la riduzione della fede a sentimento. Sotto la spinta di tante problematiche, anche personali e morali, ma è indubbio che da Lutero in poi la fede non è una cosa oggettiva, un incontro reale e storico che continua a seguirmi: è un sentimento. Detto nelle sue formulazioni più radicali: se senti di essere salvato sei salvato; se non senti di essere salvato non sei salvato».
Il sentimento si provoca nella lettura della Sacra Scrittura. Per cui la realtà ecclesiale nella sua concretezza, non solo non è più necessaria ma anche è sostanzialmente dannosa. La Chiesa costituisce una forma di mediazione indebita tra Cristo e la persona. Ma il Cristo che il protestante sostiene di incontrare, è un Cristo che finisce molto rapidamente ad essere il contenuto del messaggio scritturistico, interpretato adeguatamente dagli esegeti.

Le cose bisogna chiamarle con il loro nome, Lutero non voleva riformare, non so se in partenza avesse questo desiderio, ma di fatto obiettivamente ha demolito la Chiesa. Quando ha iniziato la sua demolizione, la Chiesa cattolica era fiorente in quasi tutta Europa. Ma se la fede è un problema individuale, soggettivo, non si può neanche vedere la Chiesa, la vera Chiesa che è quella degli eletti è segreta: la vede solo Dio e uno la individua nella sua coscienza. Perciò non c'è una storicità della Chiesa degli eletti, c'è la storicità della Chiesa tedesca, inglese, francese....
Abbinato a questo c'erano enormi possessi economici e fondiari: i grandi ordini cavallereschi tedeschi possedevano due terzi delle campagne. Ecco, una cosa che non c'entra assolutamente con la fede cattolica e che se non verrà mai superata dai luterani impedirà il ritorno, oltre il fatto che le donne sono anche vescovesse, è che è stata creata la Chiesa di Stato. Lutero dice: in tutta questa massa di realtà ecclesiale, io chiedo ai principi della nazione tedesca di proteggerci. Così nasce la Chiesa tedesca.  In Inghilterra c'è la chiesa anglicana, a Praga la chiesa ussita e così via. Così, per la prima volta, la qualificazione ecclesiale non è la fede, ma essere tedeschi, inglesi, francesi eccetera.

Riduzione psicologistica e spiritualistica della fede, e soppressione della realtà ecclesiale nella sua sacramentalità: Lutero non ritiene che la Chiesa sia sacramento, anche perché ha fatto praticamente scomparire quasi tutti i sacramenti, tranne il battesimo.
Noi ci siamo trovati di fronte, in questi tre secoli, a un tentativo di demolizione dall'interno della Chiesa che è di carattere protestantico. Quando alcuni grandi uomini di Chiesa come Benedetto XVI e san Giovanni Paolo II parlavano di un cripto-protestantesimo presente nella realtà della Chiesa cattolica, dicevano che il nemico protestante non era fuori, il nemico protestante si era saldamente insediato all'interno della Chiesa.

Questo è Lutero. Se si dice un'altra cosa, se si dice che è stato un grande riformatore ma la Chiesa non l'ha capito, eccetera, si dicono cose certamente parziali e inesatte".

UN ROTTAME ALLA DERIVA


Questo è il destino di CL che vogliono i giornaloni e le "intelligenze" radicali e laiciste del paese. Questo è quello che auspica Dario Di Vico nella lapide scolpita nel Corriere di ieri ( qui ). 
Un movimento ininfluente, lontano dalla politica, giovanilista e spiritualista, obbediente e funzionale al potere, lontano dalla baldanza originaria e dalla presenza generata da don Giussani.



Giudicare tutto per essere felici» (a costo di essere definiti «integralisti») è il titolo di una mostra del meeting dedicata a MILANO STUDENTI che dice esattamente com’era GS e come sarà CL

Agosto 26, 2016 Leone Grott
Una mostra al Meeting di Rimini ha raccontato “Milano studenti”, il giornalino nato al liceo Berchet dove insegnava don Luigi Giussani


Costava 50 lire una copia di Milano Studenti, il giornale fatto da alcuni ragazzi di Gioventù Studentesca che frequentavano il liceo classico Berchet. Ogni numero era un’esplosione di vita, incontri, giudizi e non è un caso che senza finanziamenti sia uscito tutti i mesi dal 1957 al 1968 con una tiratura di 2 mila copie, all’inizio, fino a 10 mila. La storia di questo mensile ricalca e riproduce fedelmente quella di Gs, il movimento fondato da don Luigi Giussani che poi prenderà il nome di Comunione e Liberazione.

LA BALDANZA. La mostra ha fatto parte di quelle presentate al Meeting di Rimini, anche se rispetto alle altre era un po’ nascosta, arrangiata com’era dietro l’enorme schermo della Hall Sud della Fiera. L’apertura al mondo, la profondità, la capacità di ricercare la verità in tutto e di giudicare tutto di Milano Studenti, dal lavoro all’arte, dalle encicliche al marxismo, dall’islam alla pena di morte, rispecchiano perfettamente quella «baldanza» con cui don Giussani è entrato per la prima volta al Berchet nel 1954 e che ha cambiato la vita dei suoi alunni.

DIALOGO «DA INTEGRALISTI». Da quell’incontro è nato un giornale capace di dialogare con tutti, non per scambiare semplicemente opinioni ma per «proporre e ricercare la verità», atteggiamento allora (ma anche oggi) considerato «da integralisti», come spiega la guida della mostra. Un giornale che si occupava di tutto secondo la ragione, «perché la fede c’entra con tutto». Lo testimoniano gli articoli, incontri o interviste su Pavese, Pasternak, Camus, Congdon, Montale.

LA LETTERA DI CALVINO. Su quelle pagine apparve anche una lettera di Italo Calvino che ringraziava Milano Studenti perché il loro articolo dopo la pubblicazione di La giornata di uno scrutatore, libro molto disprezzato dalla critica al tempo per essere troppo impregnato di senso religioso, «è uno dei più seri che ho avuto e voglio ringraziarvi. Era proprio questo tipo di critica che volevo muovere, mentre invece la grande maggioranza della critica è stata d’una banalità e superficialità scoraggiante». Questo non impedirà a Calvino, anni dopo, di prendere una posizione nettamente diversa ad esempio sull’aborto e a loro, insieme a don Giussani, di opporsi nettamente.

MISSIONE IN BRASILE. Si documentano poi le battaglie per la libertà di educazione e la parità scolastica, l’apertura fino ai confini del mondo che ha portato i primi studenti diventati universitari a partire per il Brasile in missione, i grandi convegni su temi di attualità, l’invasione della Bassa milanese per le prime volte della caritativa con l’obiettivo di «condividere il senso della vita», le esperienze di «testimonianza comunitaria e non solo individuale».

«PER LA FELICITÀ». La mostra ha presentato i numeri che vanno dal 1958 al 1963 del mensile fondato da Claudio Risé e Amelia Bocchini. Milano Studenti interromperà le pubblicazioni nel 1968, ma rileggere quegli articoli è utile per capire le origini e l’anima del movimento fondato da don Giussani. La mostra si chiudeva proprio con le sue parole, pronunciate anni dopo, ricordando il suo primo giorno al Berchet: «Mi rivedo in quel momento, con il cuore tutto gonfio del pensiero che Cristo è tutto per la vita dell’uomo, è il cuore della vita dell’uomo: questo annuncio quei giovani dovevano iniziare a sentirsi dire e a imparare, per la loro felicità»

Da qui è nato anche il Meeting di Rimini.



Agosto 26, 2016 Leone Grotti

venerdì 26 agosto 2016

CHE COSA DONA ALLA NOSTRA VITA L’ASSUNZIONE DI MARIA?


 Pubblichiamo uno stralcio dell’omelia pronunciata il 15 agosto 2012 da Benedetto XVI in occasione della solennità dell’Assunzione di Maria.

           (...) Che cosa dona al nostro cammino, alla nostra vita, l’Assunzione di Maria? 


Tiziano Vecellio
Venezia, Chiesa di Santa Maria dei Frari
Ma c’è anche l’altro aspetto: non solo in Dio c’è spazio per l’uomo; nell’uomo c’è spazio per Dio. Anche questo vediamo in Maria, l’Arca Santa che porta la presenza di Dio. In noi c’è spazio per Dio e questa presenza di Dio in noi, così importante per illuminare il mondo nella sua tristezza, nei suoi problemi, questa presenza si realizza nella fede: nella fede apriamo le porte del nostro essere così che Dio entri in noi, così che Dio può essere la forza che dà vita e cammino al nostro essere. In noi c’è spazio, apriamoci come Maria si è aperta, dicendo: «Sia realizzata la Tua volontà, io sono serva del Signore». Aprendoci a Dio, non perdiamo niente. Al contrario: la nostra vita diventa ricca e grande.

E così, fede e speranza e amore si combinano. Ci sono oggi molte parole su un mondo migliore da aspettarsi: sarebbe la nostra speranza. Se e quando questo mondo migliore viene, non sappiamo, non so. Sicuro è che un mondo che si allontana da Dio non diventa migliore, ma peggiore. Solo la presenza di Dio può garantire anche un mondo buono. Ma lasciamo questo.

Una cosa, una speranza è sicura: Dio ci aspetta, ci attende, non andiamo nel vuoto, siamo aspettati. Dio ci aspetta e troviamo, andando all’altro mondo, la bontà della Madre, troviamo i nostri, troviamo l’Amore eterno. Dio ci aspetta: questa è la nostra grande gioia e la grande speranza che nasce proprio da questa festa. Maria ci visita, ed è la gioia della nostra vita e la gioia è speranza.

Cosa dire quindi? Cuore grande, presenza di Dio nel mondo, spazio di Dio in noi e spazio di Dio per noi, speranza, essere aspettati: questa è la sinfonia di questa festa, l’indicazione che la meditazione di questa Solennità ci dona. 
Maria è aurora e splendore della Chiesa trionfante; lei è la consolazione e la speranza per il popolo ancora in cammino, dice il Prefazio di oggi. Affidiamoci alla sua materna intercessione, affinché ci ottenga dal Signore di rafforzare la nostra fede nella vita eterna; ci aiuti a vivere bene il tempo che Dio ci offre con speranza. 

Una speranza cristiana, che non è soltanto nostalgia del Cielo, ma vivo e operoso desiderio di Dio qui nel mondo, desiderio di Dio che ci rende pellegrini infaticabili, alimentando in noi il coraggio e la forza della fede, che nello stesso tempo è coraggio e forza dell’amore. Amen.


SPADARO: FRANCESCO, LA POLITICA DELLA MISERICORDIA

INT.
Antonio Spadaro
giovedì 25 agosto 2016


"Francesco sa bene che la pace 'pura' non esiste, ma sa anche che la Misericordia cambia il mondo", dice padre Antonio Spadaro, direttore de La Civiltà Cattolica, a ilsussidiario.net, alla vigilia del suo incontro al Meeting di Rimini su "La diplomazia di Francesco". Ma per papa Bergoglio la misericordia non è solo "il nome di Dio", è anche — e forse proprio per questo — una categoria politica.

Un accostamento, quello di misericordia e politica, che certo non viene spontaneo.
Incontrando il Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, l'11 gennaio scorso Papa Francesco ha evocato la misericordia otto volte. Dio agisce nella vita delle persone, ma anche dentro i processi storici dei popoli e delle nazioni, pure i più complessi e intricati. Così la misericordia di Dio si inserisce all'interno delle vicende di questo mondo, anche delle società e dei gruppi umani. Francesco esprime uno spirito profetico che incide sulla politica alta.

Ma in che modo questo principio si traduce in politica?
Concretamente la misericordia come categoria politica in estrema sintesi significa: non considerare mai niente e nessuno come definitivamente "perduto" nei rapporti tra nazioni, popoli e Stati. Questo è il nucleo del suo significato politico.

Eppure, un magistero ispirato alla misericordia sembrerebbe andare in direzione contraria rispetto a relazioni basate su strategie e rapporti di forza. Perché non è così?
Perché la presenza misericordiosa di Dio può mutare un tempo di miseria geopolitica nella "pienezza del tempo" cristiana. Questa dunque è la potenza della misericordia: mutare il significato dei processi storici, sciogliendone le fangosità e travolgendone i detriti.

Un'utopia?
No. Francesco sa bene che la pace "pura" non esiste e che l'uomo deve sempre affrontare i conflitti; magari "accarezzandoli", come egli ha più volte affermato. Il conflitto è ineliminabile nella dinamica dei rapporti umani, e dunque anche in quelli internazionali. Ma sa anche che la Misericordia cambia il mondo.

Che cos'è la "paziente empatia" di cui si parla nella Evangelii Gaudium e qual è il suo ruolo nell'azione pubblica, e dunque anche politica, di papa Francesco?
La posizione voluta dal Papa consiste nel non dare torti e ragioni, perché alla radice comunque c'è una lotta di potere per la supremazia regionale, definita dal Papa "vana pretesa". Non c'è dunque da immaginare uno schieramento per ragioni morali, ma si impone la necessità di vedere il quadro da un'ottica differente.

Papa Francesco si è rivelato decisivo in varie questioni dello scenario internazionale. In che modo papa Bergoglio fa le sue scelte?
La misericordia si delinea politicamente in libertà fluida di movimento, in non accettazione di schieramenti rigidi. Tutto questo mette in moto logiche imprevedibili, proprie di una visione poliedrica. La logica qui è flessibile, elastica, in fondo espressione di un pragmatismo positivo. La sua è una geopolitica non deterministica, che scruta i segni oscuri dei tempi non per rassegnarvisi, ma per intenderli e, per quanto possibile, sovvertirli.

Per intenderli e sovvertirli. In che modo entra qui in gioco la scelta delle periferie? Essa dopotutto riguarda lui stesso, un papa venuto dalla "periferia sud del mondo"…
In una intervista a La Cárcova News, un giornalino di quartiere legato a una villa miseria, Francesco ha chiarito che cosa egli intenda per "periferia". Nella misura in cui usciamo dal centro e ci allontaniamo da esso scopriamo più cose, e quando guardiamo al centro da queste nuove cose che abbiamo scoperto, da nuovi posti, da queste periferie, vediamo che la realtà è diversa. E ha fatto un esempio: "l'Europa vista da Madrid nel XVI secolo era una cosa, però quando Magellano arriva alla fine del continente americano, guarda all'Europa dal nuovo punto raggiunto e capisce un'altra cosa". Lo sguardo di Bergoglio è, dunque, quello di Magellano e vuole continuare ad esserlo.

Che cos'è la pace per papa Francesco?
Costruire la pace, per Bergoglio, significa agire sui quadranti più delicati della politica internazionale in nome degli "scarti", dei più deboli. Le iniziative di pace, in un mondo che vive una drammatica "terza guerra mondiale a pezzi" — oltre 30 pezzi nel globo —, devono essere sempre collegate ai due grandi temi sociali che preoccupano maggiormente il Papa: la pace sociale e l'inclusione sociale dei poveri. Riprendendo la Populorum progressio del beato Paolo VI, egli esprime la convinzione che "una pace che non sorga come frutto dello sviluppo integrale di tutti, non avrà nemmeno futuro e sarà sempre seme di nuovi conflitti e di varie forme di violenza" (Evangelii Gaudium 219).

Papa Francesco è certamente molto preoccupato per il Medio oriente, come di altri fronti caldi. A chi si appoggia?
La Santa Sede ha stabilito o vuole stabilire rapporti diretti e fluidi con le superpotenze, senza voler entrare in reti precostituite di allean­ze e influenze. E questo in un quadro internazionale molto diverso da quello vissuto fino a pochi anni fa e che richiede — in particolare per il Medio Oriente — soluzioni ben diverse da quelle già sperimentate in passato. Francesco lo ha capito, tra l'altro, decidendo il viaggio a Sarajevo e verificando la precarietà degli accordi di Dayton.

Francesco e la Cina.
Con la Cina il ponte è aperto e il dialogo prosegue.

Francesco e l'Europa.

Se l'Europa considera se stessa solo come uno spazio, allora prima o poi verrà — ed è già venuto — il momento della paura, del timore che lo spazio sia invaso, perché lo spazio va innanzitutto difeso. Se invece l'Europa è da considerarsi come un processo in fieri allora si comprende come esso metta in movimento energie, accettando le sfide della storia.

Ancor prima di essere in guerra-a-pezzi, il mondo non comprende più se stesso:  sembra mancare una chiave di lettura unitaria di quanto sta accadendo. Cosa vede il papa?
Papa Francesco soprattutto è consapevole del fatto che la prima e la seconda guerra mondiale vertevano sulla redistribuzione della potenza fra i principali attori mondiali. La "terza guerra mondiale a pezzi" invece minaccia di scaturire dalla loro relativa impotenza, mentre osserviamo il diffondersi a macchia d'olio di territori non governati o a bassissima pressione istituzionale.

Cosa le suggerisce in proposito il titolo del Meeting, "Tu sei un bene per me"?
"Mai senza l'altro" era il titolo di un libro di Michel de Certeau. La mia vita non è mai concepibile senza l'altro, senza il tu. La vera tragedia non è il conflitto, ma la separazione. La tragedia accade soltanto quando si rinuncia all'altro e ci si separa. In questo senso, ad esempio, Francesco insiste sull'inserimento delle differenze (di epoche, di nazioni, di stili, di visioni…) nel processo di costruzione dell'Europa che, nata dall'incontro di civiltà e popoli, nasce per includere, non per contrapporre o escludere.

(Federico Ferraù)

IL CARDINALE JOSEPH RATZINGER SULLA PREGHIERA (NON SULLA MESSA) INTERRELIGIOSA.


Domenica 31 luglio scorso, all’indomani dell’uccisione di Padre Harmel mentre celebrava la Santa Messa in una Chiesa della Normandia, in tutta Italia circa 20 mila musulmani hanno partecipato alla Santa Messa nelle Chiese cattoliche.  
Sull’argomento della preghiera in comune tra religioni diverse – argomento diverso e meno impegnativo della Santa Messa in comune – pubblichiamo quanto sosteneva il cardinale Ratzinger dopo le perplessità che in molti aveva suscitato la preghiera interreligiosa per la pace di Assisi nel 1986 per volontà di Giovanni Paolo II.
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“Mentre nel caso della preghiera multireligiosa si prega nello stesso contesto, ma separatamente, la preghiera interreligiosa  significa un pregare insieme di persone e gruppi di diversa appartenenza religiosa. E’ possibile fare questo in tutta verità e onestà?: ne dubito. Comunque devono essere garantite tre condizioni elementari, senza le quali tale pregare diverrebbe la negazione della fede:

1-    Si può pregare insieme solo se sussiste unanimità su chi o cosa sia Dio e perciò se c’è unanimità di principio su che cosa sia il pregare: un processo dialogico in cui io parlo ad un Dio che è in grado di udire ed esaudire. In altre parole: la preghiera comune presuppone che il destinatario, e dunque anche l’atto interiore rivolto a Lui, vengano concepiti, in linea di principio, allo stesso modo. Come nel caso di Abramo e Melchisedek, di Giobbe e di Giona, deve essere chiaro che si parla col Dio unico che sta al di sopra degli dèi, col Creatore del cielo e della terra, col mio Creatore. Deve essere chiaro dunque che Dio è “persona”, vale a dire che può conoscere e amare; che può ascoltarmi e riprendermi; che Egli è buono ed è il criterio del bene, e che il male non fa parte di Lui. A partire da Melchisedek, possiamo dire, dev’essere chiaro che Egli è il dio della pace e della giustizia. Qualsiasi commistione tra la concezione personale e quella impersonale di Dio, tra Dio e gli dèi, dev’essere esclusa. Il primo comandamento vale anche nell’eventuale preghiera interreligiosa.

2-    Sulla base del concetto di Dio, deve sussistere pure una concezione fondamentalmente identica su ciò che è degno di preghiera e può diventare contenuto di preghiera. Io considero le richieste del Padre Nostro  il criterio di ciò che ci è consentito implorare da Dio, per pregare in modo degno di Lui. In esse si vede chi e come è Dio e chi siamo noi. Esse purificano la nostra volontà e fanno vedere con che tipo di volontà stiamo camminando verso Dio, e che genere di desideri ci allontana da Lui, ci metterebbe contro di Lui. Richieste che fossero in direzione opposte alle richieste del Padre nostro, per un cristiano non possono essere oggetto di preghiera interreligiosa, di nessun tipo di preghiera.

3-    L’avvenimento deve svolgersi nel suo complesso in modo tale che la falsa interpretazione relativistica di fede e preghiera non vi trovi alcun appiglio. Questo criterio non riguarda solo chi è cristiano, che non dovrebbe essere indotto in errore, ma, alla stessa stregua, anche chi non è cristiano, il quale non deve avere l’impressione dell’interscambiabilità delle “religioni” e che la professione fondamentale della fede cristiana sia di importanza secondaria e sia dunque surrogabile. Per evitare tale errore bisogna pure che la fede dei cristiani nell’unicità di Dio e in quella di Gesù Cristo, il Redentore di tutti gli uomini, non sia offuscata davanti a chi non è cristiano. Il documento di Bose citato, al riguardo, dice, a ragione, che la partecipazione alla preghiera interreligiosa non può mettere in discussione il nostro impegno per l’annuncio di Cristo a tutti gli uomini. Se chi non è cristiano potesse o dovesse trarre, dalla partecipazione di un cristiano, una relativizzazione della fede in Gesù Cristo, l’unico Redentore di tutti, allora tale partecipazione non dovrebbe vere luogo- Infatti essa, in qualche caso, indicherebbe la direzione errata, orienterebbe all’indietro invece che in avanti nella storia delle vie di Dio”.

Joseph card. Ratzinger

(da “Fede verità tolleranza. Il Cristianesimo e le religioni del mondo”, Cantagalli, Siena 2003, pp. 112-114).

INTERVISTA A CARRON: I SEGNALI DELLA SVOLTA

«A Cl non serve un nemico né vive per le briciole del potere»

Il successore di don Giussani: non c’è una centralità della questione islamica. Abbiamo riportato al primo posto la pertinenza della fede alle esigenze della vita
DI DARIO DE VICO
tratto dal corriere della sera

Don Julián Carrón (Agf)Don
Sono passati quattro anni dal primo articolo nel quale don Julián Carrón, il successore di don Giussani, invitava Comunione e liberazione a liberarsi del peso della ricerca dell’egemonia e a riscoprire l’autentico valore della testimonianza. Correva l’anno di grazia 2012 e il movimento viveva giorni assai difficili. L’impegno (e il successo) politico si stava rivelando una trappola e i media abbinavano a Cl termini come «lobby» e «corruzione». A molti osservatori quello scritto apparve persino ingenuo e pochi avrebbero scommesso sui risultati

A 50 mesi di distanza le posso chiedere un bilancio?
«Non ho condotto una campagna contro l’egemonia, mi sono limitato a riproporre la bellezza dell’esperienza del nostro fondatore, don Giussani, sostenendo che non ci fosse bisogno di validarla con nessun potere aggiuntivo. L’unica modalità di rapporto con la verità è la libertà e per questo la ricerca dell’egemonia è in contraddizione con la verità».

Però così è stata smantellata una straordinaria macchina politica qual era la Cl degli anni d’oro.
«Il nostro obiettivo è contribuire al bene comune; non voglio perdere il valore della passione politica, ma ho ricordato che avevamo come motivazione qualcosa di più affascinante del raccogliere le briciole del potere».

In questo modo però vi siete disarmati?
«Sì. Abbiamo riportato al primo posto la pertinenza della fede alle esigenze della vita. Preferisco la testimonianza alla militanza. E del resto Dio ha bussato sommessamente alla porta dei nostri cuori, non ha fatto uso della sua potenza esteriore, ma ha suscitato amore».

Non teme che in questa operazione Cl subisca una secca perdita di identità?
«Spogliarsi del potere non vuol dire perdere identità. Dio l’ha fatto ed è diventato carne, potevamo fare anche noi qualcosa di simile, benché infinitamente più piccolo».

Nel frattempo però la Storia non è rimasta ferma (anzi!) e si genera un paradosso. Avete militato contro la secolarizzazione e il Sessantotto e oggi di fronte alla minaccia dell’islamismo radicale vi professate disarmati.
«Le rispondo innanzitutto sugli anni ‘70. Don Giussani spiegò ex post che ci eravamo mossi animati da una “insicurezza esistenziale”, avevamo accettato lo stesso campo di gioco di coloro che criticavamo. Alla fine siamo stati una presenza reattiva quando avremmo dovuto essere una presenza originale. Cl per vivere non aveva e non ha bisogno di un nemico. E vale anche per l’Islam».

Sono pesi diversi. Lo scrittore francese Houellebecq parla dei rischi di sottomissione dell’Occidente alla cultura dell’Islam.
«Il rischio esiste perché tutto passa attraverso la libertà e niente è scontato. Goethe diceva: “Quello che tu erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo, per possederlo”. Ma le migrazioni e persino gli attentati possono rappresentare uno stimolo per riproporre la nostra originalità di cristiani. È una sfida a noi stessi, prima che agli altri. Domandiamoci cosa trovano i migranti che arrivano da noi».

Trovano l’Occidente con i suoi pregi e i suoi difetti. Ma questi ultimi non possono diventare l’alibi per chi vuole distruggerlo e per chi non vuole difenderlo.
«Io voglio difendere la possibilità di vivere il cristianesimo in uno spazio di libertà per tutti».

... e l’Occidente è l’ambiente migliore per farlo. Se anche i cristiani usano gli errori della nostra civiltà per delegittimarla e per equiparare il «turbo capitalismo» all’Isis siamo alla fine.
«Non voglio delegittimarla, si figuri se non difendo i valori della libertà, della persona, del lavoro e del progresso. Il problema sta nel come. Papa Benedetto XVI ricordava che l’illuminismo ha cercato di salvare i valori fondamentali dell’Occidente sottraendoli alla discussione religiosa, ma ha commesso un errore e non sa come uscirne».

Possiamo dire allora che la crisi dell’Occidente è una crisi di soluzioni e non di legittimità?
«Concordo. E come cristiani quando organizziamo un doposcuola o aiutiamo un migrante diamo un contributo alle soluzioni. I valori degli illuministi sono crollati quasi per inerzia. A questo punto, è urgente “porre coraggiosamente basi nuove, fortemente radicate”, come ha detto papa Francesco, e noi siamo su questa strada. Perciò quando incontriamo un bisogno non ci limitiamo al soccorso materiale, rispondiamo anche a una domanda di senso. Il nemico è il nulla. Quindi siamo tutt’altro che equidistanti. Diamo una chance alla speranza».

Ma lei non crede che ci sia in Europa una centralità della questione islamica?
«No. Penso che il centro della questione in Europa sia trasmettere alle persone una concezione e dei valori che li aiutino a vivere nella confusione di questa fase della modernità».

Con l’esecuzione di padre Hamel a Rouen si è riproposto addirittura il tema del martirio. Non le pare una prova sufficiente?
«Il martirio fa parte dei rischi della fede cristiana. Siamo perseguitati già dai tempi dell’Impero Romano, non ha iniziato l’Islam».


Anche i liberali, le cito l’Economist, sono arrivati alla critica della globalizzazione. E a chiedere un ripensamento. Qual è la sua opinione?
«Credo realisticamente che la globalizzazione non si possa fermare. È anche occasione di incontro perché i muri cadono e tocca alle persone di buona volontà farsi avanti per servire il bene dell’uomo. Se è stato possibile ricostruire dopo la Seconda Guerra Mondiale, perché non dovrebbe essere possibile anche oggi? Perché non è possibile replicare quello che fecero i De Gasperi, gli Adenauer e anche i Togliatti di allora e rifondare le istituzioni?».

domenica 7 agosto 2016

“L’OCCIDENTE CRISTIANO SOTTO ATTACCO”


Intervista a Rémi Brague

Dal massacro di Rouen alla guerra civile. 

di Giulio Meotti | 02 Agosto 2016  ILFOGLIO)

Roma. Rémi Brague non è rimasto abbagliato dal tripudio di ecumenismo non soltanto da parte della comunità islamica francese, l’abbraccio multiculturale nelle chiese, il rifiuto della sepoltura islamica al terrorista che ha sgozzato padre Hamel, il concordato stato-moschea voluto da Manuel Valls.
Brague non crede neppure alla ritrovata unità fra il cattolicesimo e la République. “La prima reazione, subito dopo Saint-Etienne-du-Rouvray, è stata ovviamente emotiva: il dolore, la compassione, la rabbia”, dice Brague al Foglio. Cattedra di Filosofia alla Sorbona, un’altra di Storia delle religioni alla Ludwig-Maximilian-Universität di Monaco, fra i massimi studiosi di Maimonide, autore di quella “Europe la voie romaine” tradotto in quattordici lingue, Brague ha ricevuto il premio Ratzinger dalle mani di Benedetto XVI.


Il suo ultimo saggio è “Le Règne de l’homme” (Gallimard). “Una volta che la polvere si è depositata, un fatto nuovo e molto interessante è venuto alla luce: questa è la prima volta in Europa, fatta eccezione per il fallito attentato a Villejuif, nel mese di aprile 2015, che il terrorismo islamico attacca frontalmente il cristianesimo. Questa non è la prima volta che chiese o cimiteri vengono profanati. Ma questa è la prima volta che un prete viene ucciso nella sua chiesa, alla fine della messa. Vedo un’ammissione di ciò che le nostre politiche vorrebbero nascondere, vale a dire l’identità cristiana profonda, consapevole o no, della nostra civiltà occidentale. Coloro che vogliono farla finita con essa avvertono che il cristianesimo è al centro del bersaglio”.

Secondo Brague, la classe dirigente francese ha capitolato quando nel mirino c’erano i cristiani orientali. “I cittadini francesi non sono rimasti a braccia conserte e hanno aiutato i loro fratelli d’oriente inviando denaro. Ma è un dato di fatto che le autorità dello stato francese hanno mostrato una certa strana riluttanza a chiamare le cose con il loro nome. Così, quando lo Stato Islamico ha rapito i lavoratori egiziani in Libia, separandoli dai mussulmani e macellando ventuno copti, il presidente Hollande ha parlato della strage di ‘cittadini egiziani’. I media ufficiali preferiscono utilizzare l’acronimo Daesh invece di parlare di ‘Stato islamico di Iraq e Siria’, anche se questo è il suo nome sedicente. Dobbiamo a tutti i costi evitare l’uso dell’aggettivo ‘islamico’ per suggerire che questi crimini non hanno alcuna relazione con l’islam”.

Un’arrendevolezza, secondo Brague, che cela un sentimento profondo. “Ci sono alcuni francesi, politici e mezzi di comunicazione, che hanno un desiderio più o meno consapevole e più o meno dichiarato di porre fine al cristianesimo. E’ una vecchia storia che risale al XVIII secolo, a prima della Rivoluzione, e che è stato in larga misura un tentativo di scristianizzazione. Oggi, i media conducono la lotta sul campo culturale, quello della vita di tutti i giorni. Un esempio: oggi dicono ‘questo è il santo X’ e ‘questo è il festival di X’. Il riferimento cristiano viene rimosso in anticipo, con il pretesto che ‘potrebbe offendere i musulmani’. Mascherano la loro inazione o semplicemente il loro silenzio con argomenti quali: ‘Dopo tutto, i crociati non erano molto gentili con i Saraceni; nessuna meraviglia, è il loro turno adesso…’. Si dimentica però una grande differenza tra i due: le crociate sono del passato, mentre è oggi che lo Stato islamico uccide e si potrebbe cercare di fermarlo”.

Che cosa temete di più per il futuro della Francia? “Sono in campagna e ho dimenticato a Parigi la mia sfera di cristallo”, conclude Brague l’intervista al Foglio. “Non so predire il futuro. Al massimo, posso dire quello di cui ho paura. Diversi scenari sono possibili, compreso il peggiore. Tra i peggiori, c’è una guerra civile di cui si comincia a parlare. Sarebbe esattamente quello che vuole lo Stato islamico. La loro strategia è la stessa dei gruppi di estrema sinistra degli anni Settanta, come da voi le Brigate Rosse: provocare l’autorità e scatenare una repressione cieca in modo che l’intera popolazione solidarizzi con la minoranza rivoluzionaria. Eppure, mi chiedo se non ci sia qualcosa di peggio. Mi permetta il paradosso: il peggio è che non succede nulla, che continui così. L’obiettivo è più importante dei mezzi. E lo Stato islamico ha lo stesso obiettivo dell’‘islam moderato’: il dominio del mondo sotto la sharia. I mezzi violenti non sono gli unici, e sono forse controproducenti nella misura in cui potrebbero risvegliare le nazioni che attaccano. I mezzi morbidi, discreti, pazienti come la pressione sociale, la propaganda, sono forse più pericolosi, perché più efficaci”.


LA FIRMA SEGRETA

FRANCO CASADEI: POESIE IN DIALOGO CON MARINA CORRADI

EPPURE PERSINO UN PEZZO DI GIORNALE
PUÒ DIVENTARE POESIA

Certo, si può fare poesia su qualsiasi cosa. La Szymborska, per esempio, ha fatto una poesia sulla cipolla, e ha preso il Nobel nel 1996.
E Francis Ponge (che il Nobel non l’ha preso, ma poteva meritarlo) nella raccolta Il partito preso delle cose, ha cantato la cassetta della frutta, un pezzo di carne, l’arancia.

Non avevo trovato, finora, un poeta che prendesse ispirazione dagli articoli di cronaca. Invece Franco Casadei, con La firma segreta( Itaca, pp. 80, euro 12), ha scritto «poesie in dialogo con Marina Corradi», cioè ha preso ispirazione, per i suoi versi, da scritti di Marina Corradi pubblicati su Avvenire o su Tempi.

Egli stesso spiega il raccordo con una citazione di Paul Valéry: «La poesia è una esitazione prolungata fra il senso e il suono». Ebbene, nella prosa di Marina Corradi, Casadei ha trovato una perfetta corrispondenza di senso e suono: senso perché la giornalista sa «scandagliare il mistero di ciò che accade »; suono perché «l’armonia fonica» di quella prosa tende a tradursi in prosa poetica, come ben sanno i lettori di questo giornale.

Naturalmente gli articoli che hanno dato spunto non sono citati, e dunque abbiamo in mano un libro di poesia, non di cronaca poesizzata, e come tale va letto. Comunque il riscontro c’è, e nella postfazione Corradi afferma che «l’anima delle mie cronache non è stata tradita», dunque si è sentita riconosciuta in quei versi. Una collazione fra articoli e versi sarebbe un bel lavoro per una tesi di laurea non banale.

Nelle poesie troviamo molti paesaggi: Milano, innanzitutto, ma anche l’Uganda e la Moldavia; molta natura: girasoli, il mare «nero e immenso », rose nel monastero. E soprattutto ci sono incontri, come con i clochard che «montano di guardia» nel cuore di Milano quando le vetrine del lusso si spengono; o come un toccante addio fra vecchi sposi, quando il marito non si rassegna che la moglie portata a casa dai barellieri ammutoliti sia veramente morta, e le parla ancora. 
C’è anche una poesia ispirata al quadro di Edward Hopper Nighthawks («Nottambuli»), con «gli ultimi tre avventori inchiodati/ al banco come insetti di una collezione» e «di lì a poco sul marciapiede/ lo schianto della saracinesca,/ i tre se ne andranno come ombre/ per opposte strade». Sarebbe interessante conoscere la mediazione di Marina Corradi in questa interpretazione che rende bene il segreto di Hopper, pittore che prediligo.

In una Lettera all’autore, Leonardo Lugaresi inquadra il tema della poesia come conoscenza sperimentale, e scrive: «Prima di tutto ci sono le cose. Le cose della vita, le cose degli uomini, con tutto il loro carico di bene e di male, la loro pesantezza (ma anche la loro grazia). Cose da cui dovremmo lasciarci toccare, cose da prendere sul serio, da non sprecare o trascurare, da non liquidare con formule che non vogliono dire nulla ». 
Ebbene, il nostro rapporto con le cose, con il mondo, avviene ormai tramite i media, e questo spiega perché la cronaca giornalistica di Marina Corradi può diventare poesia in Franco Casadei.
Una mediazione di secondo grado, a cui accenna la poesia che dà il titolo alla raccolta. La trascriviamo: 
«Chi cuce/ la trama del destino,/ segretamente imbastendone/ il disegno?// Il caso?// O una mano misteriosa/ che tesse,/ costantemente tesse/ il tuo cammino?// L’enigma irrisolto,/ la mancanza sento, una mancanza,/ la firma segreta/ che sta dentro le cose».

Attraverso la firma di Marina Corradi, Casadei ha intuito una firma segreta, e noi con lui.


di Cesare Cavalleri
tratto da Avvenire