lunedì 17 ottobre 2016

LO SMEMORATO DELLA REPUBBLICA


Vittorio Feltri per Libero Quotidiano

Premettiamo che non siamo animati da rancore, un sentimento faticoso da coltivarsi. Chi ha da fare non ha tempo per odiare alcuno, al massimo dice una battuta scherzosa sulle persone che non stima. È esattamente il nostro intento mentre scriviamo queste note. Dario Fo è morto a novanta anni e oltre. Succede a tutti di concludere la propria vita, succede a pochi di arrivare a una età così avanzata. È un privilegio raro tirare le cuoia quando si è ancora lucidi.
Il Nobel l' ha avuto. Beato lui.


Ieri i giornali gli hanno tributato ogni onore possibile e immaginabile. Si sono lasciati andare a elogi esagerati e si sono ben guardati dal muovere critiche al guitto, la cui esistenza è stata ricca di incidenti.

Non importa che abbiano minimizzato la sua giovanile adesione alla Repubblica sociale di Salò. In fondo anche i nostri padri, almeno il mio, sono stati fascisti fino alla morte del Duce e anche dopo. Giorgio Albertazzi, come Fo, indossò orgogliosamente la camicia nera. Ma non ne fece mai mistero, ne parlava con sereno distacco senza rinnegare il suo tumultuoso passato. Dario invece sorvolava. Guai a ricordargli ciò che era stato. Forse se ne vergognava. Gli uomini non sono tutti uguali.
 E anche Mario Calabresi non è molto uguale, sia pure per ragioni diverse.

Il direttore di Repubblica ha lasciato che il quotidiano da lui diretto sbrodolasse sulla presunta grandezza del Nobel, al quale ha infatti dedicato pagine e pagine non di inchiostro ma di saliva, trasformandolo in una sorta di eroe della patria culturale.

Non ci sarebbe problema, se non fosse che Calabresi non è un orfano qualunque, ma figlio del commissario Luigi Calabresi assassinato da Lotta Continua molti anni orsono, dopo che Dario Fo ne aveva sollecitato l' eliminazione in un comunicato storico sottoscritto da una folla di intellettuali, veri o presunti, ovviamente tutti filo-comunisti.

Ora si sa che il tempo è medico e che la memoria è corta, per cui capisco che Calabresi abbia glissato sui misfatti di Fo e gli abbia riservato comunque smisurati peana sul proprio foglio. Ma c' è un limite oltre il quale non doveva andare.

Almeno due righe per ricordare il papà ammazzato su istigazione anche del Nobel egli avrebbe avuto l' obbligo morale di scriverle. Invece non lo ha fatto. D' accordo che la carriera è fondamentale, ma lo è anche la dignità. Quella dignità che Adriano Sofri, condannato per il delitto del commissario, ha dimostrato di possedere dimettendosi da Repubblica il giorno stesso in cui l' orfano ne assunse la guida. Grande Sofri, piccolo Calabresi.


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