sabato 29 aprile 2017

DISPOSIZIONI ANTICIPATE DI TRATTAMENTO


Come  CROCEVIA abbiamo sperato invano che la legge che regola le Disposizioni Anticipate di Trattamento(DAT) non venisse approvato dalla Camera dei Deputati nella formulazione con cui è stata inviata al Senato, perché a nostro avviso
Congdon: La roccia splendente

 *si tratta non solo di un ampio varco per attuare l'eutanasia ma pone le premesse perchè l'eutanasia sia attivamente promossa e si arrivi presto al suicidio assistito e all'omicidio del consenziente;

*stravolge il ruolo del medico e il rapporto di fiducia tra medico e paziente trasformando un professionista in un passivo esecutore testamentario;

*introduce la figura dell'amministratore di sostegno, dai cui possibili abusi non c'è difesa per il soggetto più debole che è l'ammalato.


Abbiamo redatto una nostra dichiarazione anticipata di trattamento coerente con i principi cristiani e l’appartenenza alla Chiesa Cattolica, e la proponiamo a tutti.


Dichiarazione Anticipata di Trattamento

Ai miei parenti, ai signori medici e a coloro che mi assisteranno nel periodo finale della mia vita:
1. Se mi trovo in pericolo di vita, per incidente o per malattia, chiedo di chiamare al più presto un sacerdote cattolico che mi possa dare i sacramenti (Unzione degli infermi, e se è possibile Confessione e Comunione)
2. Non voglio nessun accanimento terapeutico, ma solo la normale assistenza, compresa l’alimentazione e l’idratazione, perché anche Gesù ha voluto un sorso d’acqua prima di morire.
3. In caso di forti sofferenze chiedo che mi siano somministrate tutte le cure palliative e sedative, ma non la “sedazione profonda”, perché questa viene data sapendo e volendo che il paziente non si risvegli più.
4. Nel momento dell’agonia, chiedo che siano accanto a me le persone che ho amato, i miei figli e i nipoti anche se bambini, e se non fosse possibile persone credenti, che mi aiutino a sopportare la sofferenza col loro affetto, mi accompagnino con il mormorio dolce della loro preghiera, e mi raccomandino a San Giuseppe.
5. Chiedo fin d’ora a Dio la grazia di una santa morte, e che Dio stesso venga glorificato nella mia morte.
Queste sono le mie volontà, quelle di un povero cristiano del terzo millennio.
Amen. 


martedì 25 aprile 2017

UNA VOCE NEL DESERTO

Il 19 aprile a Varsavia, presso la sede della Conferenza episcopale polacca, in occasione dei 90 anni del Papa emerito, si è tenuto un simposio dal titolo: “Il concetto di Stato nella prospettiva dell’insegnamento del Cardinal Joseph Ratzinger-Benedetto XVI”.

Ecco il messaggio inviato da Benedetto XVI per l’occasione.

Il tema scelto porta Autorità statali ed ecclesiali a dialogare insieme su una questione essenziale per il futuro del nostro Continente. 

Il confronto fra concezioni radicalmente atee dello Stato e il sorgere di uno Stato radicalmente religioso nei movimenti islamistici conduce il nostro tempo in una situazione esplosiva, le cui conseguenze sperimentiamo ogni giorno.

Questi radicalismi esigono urgentemente che noi sviluppiamo una concezione convincente dello Stato, che sostenga il confronto con queste sfide e possa superarle.  
Nel travaglio dell’ultimo mezzo secolo, con il Vescovo-Testimone Cardinale  Wyszyński e con il Santo Papa Giovanni Paolo II, la Polonia ha donato all’umanità due grandi figure, che non solo hanno riflettuto su tale questione, ma ne hanno  portato su di sé la sofferenza e l’esperienza viva, e perciò continuano ad indicare la  via verso il futuro.

Con la mia cordiale gratitudine per il lavoro che le Loro Signorie si propongono in questa circostanza, imparto a tutte Loro la mia paterna Benedizione.

Ancora una volta la sua è una voce profetica

L'ANTIFASCISMO DI COMODO


Intervento di Augusto Del Noce nella polemica su fascismo e antifascismo dicembre 1987


La tesi di De Felice secondo cui è privo di senso pensare la situazione di oggi in termini di antagonismo tra antifascismo e fascismo ha suscitato reazioni che mi riesce difficile spiegare.
Quel che emerge è il contrasto tra due interpretazioni del fascismo; una sorta nel periodo della lotta e ben comprensibile in relazione a quel clima, ma che oggi dovrebbe essere diventata oggetto di storia, mentre invece ancora tiene il campo nella cultura ancor più che nella politica, non tanto intermini di affermazione diretta quanto nelle valutazioni che ne dipendono; l'altra per cui si tratta di render conto di un passato.

Secondo la prima ci sarebbe identità di natura tra tutti i fenomeni autoritari di destra; il carattere che li unirebbe sarebbe un particolare tipo di violenza, quella repressiva, che sarebbe da distinguere dalla violenza rivoluzionaria, invece giustificabile come necessità, anche se può trascorrere in eccessi e colpire innocenti. Tale violenza repressiva porterebbe a identificare il fascismo con la forma che assume la reazione nel nostro secolo; i ceti che si trovano oltrepassati dal processo di modernizzazione sempre più accelerato della storia di questo secolo si raccoglierebbero in «fasci» e affiderebbero la loro guida ad avventurieri capaci di sollecitare le tendenze più basse delle masse.
Alla violenza repressiva questi movimenti sarebbero condannati dalla loro assenza di cultura («dove c'è fascismo non c'è cultura, dove c'è cultura non c'è fascismo», si è detto), dalla incapacità dunque di discussione e di dialogo. Manca loro anche quel tanto di positività culturale che sussisteva nei reazionari dell'epoca della restaurazione. Sarebbe dunque una violenza che nasce dalla barbarie intellettuale; in ragione di questa barbarie troverebbe giustificazione, almeno in linea di principio, la norma costituzionale del partito fascista. Questi movimenti si diversificherebbero in relazione alle tradizioni dei vari Paesi; ma il loro logico esito finale sarebbe il nazismo e i suoi campi di sterminio.

Ora la ricerca storica, non solo quella di De Felice, che è il maggiore storico del fascismo, ma quella di molti autorevoli studiosi del ventennio tra le due guerre), ricerca per nulla influenzata da pregiudizi favorevoli del fascismo, o anzi orientata a raggiungere una sua condanna razionale e non emotiva, ha portato a risultati che divergono da questo modo di vedere. Così, rispetto alla natura comune di fascismi, e limitiamoci al rapporto tra fascismo e nazismo, considerati oggi dalla maggior parte degli studiosi fenomeni affatto eterogenei, e questo per la diversa posizione che essi assumono rispetto al comunismo.
Secondo la giusta frase di Ernst Jünger il nazismo è «una rivoluzione contro la rivoluzione», espressione che si può intendere come designante una rivoluzione totalmente subalterna, nell'opposizione, al suo avversario comunista; una sorta di decalco naturalistico per cui alla classe sostituisce la razza. Si sarebbe portati a dire che il nazismo incarna quella «rivoluzione in senso contrario» che De Maistre additava ai controrivoluzionari della sua epoca come l'esempio che doveva essere assolutamente evitato. Invece il fascismo voleva presentarsi come la vera rivoluzione del nostro secolo, ulteriore alla marx-leninista, perché adeguata a Paesi per cultura e per civiltà più maturi della Russia.

La sua storia è certo storia di un fallimento, ma ciò non toglie che in esso non siano implicati i più alti vertici della cultura dei due decenni del nostro secolo. «Errore della cultura», come diceva Giacomo Noventa, non «errore contro la cultura».

Che qualche espressione di De Felice (p. es.: «grottesche norme») sia stata forse troppo a punta, non ho difficoltà ad ammetterlo. Ma mi chiedo quale controproposta i suoi critici possano avanzare. Forse stabilire come assioma fondamentale, principio della Costituzione, quella tale interpretazione del fascismo come pura barbarie? Ho troppo rispetto per pensarlo ma non mi riesce di vederne altra. Pericoli per la libertà, e ancor più direi per la «vita buona» (uso questo termine nel senso in cui ne parlava quel finissimo spirito che fu Felice Balbo, differenziandola dal «benessere»), ce ne sono in questo scorcio di secolo ed estremamente gravi; ma non hanno origine nel fascismo, non fosse altro perché gli strumenti di oppressione di cui esso si serviva erano, rispetto a quelli che la tecnica di oggi può offrire, infantili. O che vogliano vedere in esso, e di più nel fascismo italiano, quel «male assoluto», che purtroppo nella storia non si dà; dico purtroppo, perché in tale caso sarebbe relativamente agevole decapitarlo, e farla finita con lui per sempre.


tratto da: Corriere della Sera, 31.12.1987 (poi in Litterae Communionis, febbraio 1988, p. 51).

sabato 22 aprile 2017

ELEZIONI IN FRANCIA, LA TERZA SORPRESA?

ANCHE IN FRANCIA COME IN AMERICA SI ALLARGA LA FRATTURA FRA LE ELITE METROPOLITANE MULTICULTURALISTE MONDIALIZZATRICI E LAICISTE, E L’UNIVERSO POPOLARE CHE HA SPERIMENTATO GLI EFFETTI DELLA CRISI E LA MANCANZA DI SICUREZZA
Quarant'anni fa il leader del Front National, Jean-Marie Le Pen, era una figura politica di colore. Dileggiato dai media e dalla satira televisiva, il robusto leader conservatore occupava saldamente la leadership di una destra tradizionalista radicale, ribelle e refrattaria. Dinanzi a questi e in funzione di sbarramento si ergeva un centro-destra di governo, profondamente inserito nelle istituzioni e stabilmente insediato nelle amministrazioni locali. 

In quella Francia in crescita, ogni leadership di governo coabitava con l'opposizione moderata, ed ogni presidente della repubblica amava lasciare dietro sé un'opera faraonica a futura memoria. Così se Georges Pompidou consegnava ai posteri il suo Centre Beaubourg a poche centinaia di metri dalla tour Saint-Jacques, François Mitterrand dava il suo nome ad una monumentale biblioteca nazionale che ancora si fregia del titolo, non molto modesto in verità, di "mémoire du monde". Lo scarso spazio per delle opposizioni radicali, a destra come a sinistra, era la conseguenza dell'insediamento di un tale centro moderato sul trono di una Francia in costante crescita ed era alla base di un consenso stabile attraverso il quale si consolidava la "democrazia dell'alternanza".
Questo mondo è scomparso da tempo e al posto dell'anziano Jean-Marie Le Pen la figlia Marine non suscita più battute di spirito ma preoccupazioni esplicite. Non mancano le dichiarazioni di chi vi vede una seria minaccia per quella stessa democrazia dell'alternanza. L'ingresso di un soggetto politico inedito che già da tempo preme alle porte della Camera dei Deputati vi imprimerebbe una svolta certamente consistente.
Dietro la straordinaria progressione del Front National preme una Francia profondamente trasformata, che condivide poco o nulla di quella che abitualmente presenzia ancora lo scenario mediatico. La crisi economica che si sta infatti affermando è componente essenziale di una frattura che è geografica e culturale al tempo stesso. Nella Francia della provincia si è insediato l'universo operaio che ha abbandonato le grandi metropoli e, con queste, un intero progetto di mobilità sociale. Al posto di un tale universo, nelle grandi aree metropolitane del Paese, si è andato progressivamente concentrando sia il terziario avanzato, sia la popolazione immigrata. Questa ha trovato nell'ambito della mano d'opera meno qualificata e nei servizi domestici alle famiglie uno sbocco lavorativo precario ma sufficiente alla sopravvivenza, sostenuta peraltro da un ancora efficace sistema di assistenza. 
Tuttavia questi due insiemi sociali che convivono dentro le stesse aree metropolitane non condividono affatto lo stesso progetto sociale. Nella misura in cui i compiti marginali e inevitabilmente precari assolti dalle nuove ondate immigratorie sono insufficienti a produrre quell'inclusione sociale oggi più necessaria che mai e i processi di inserimento sostanziale richiedono il possesso di competenze sempre più qualificate, la frattura interna ai grandi perimetri urbani è votata ad aggravarsi.
Ma anche l'insistenza con la quale l'élite politico-culturale, nella larga maggioranza dei suoi rappresentanti più eminenti e attraverso il proprio potere sui media, insiste nel lodare i benefici della mondializzazione e del multiculturalismo, finisce con il produrre, accanto al suo isolamento geografico nelle metropoli urbane, anche un isolamento culturale dal resto della nazione. 
È proprio l'universo operaio e quello del piccolo terziario che, registrando le conseguenze più gravi della globalizzazione, non solo si sono allontanati dalle grandi aree metropolitane ma si sono anche separati dal discorso culturale che l'élite politica metropolitana insiste nel proporre. Nulla appare più lontano dall'esperienza di un universo operaio che ha sperimentato gli effetti della crisi, dell'immagine di un futuro felice che i difensori del nuovo quadro economico costantemente ripresentano.  
In questa Francia a tre poli, divisa tra una élite terziaria insediata nei centri delle metropoli, un universo operaio e artigiano relegato nelle diverse province ed una realtà di immigrazione insediata nelle banlieues metropolitane, la leadership socialista ha creduto di poter bilanciare l'inevitabile sconfitta sul piano dei progetti di inclusione sociale, investendo sul recupero dell'identità culturale. Da qui il ricorso alla carta della laicità repubblicana, non più intesa come cornice istituzionale nella quale assicurare le diverse culture e le diverse sensibilità religiose, ma come orizzonte normativo sul quale orientare le politiche educative e le nuove geometrie familiari. In pratica ha cercato di recuperare, sul piano delle norme e dei valori, quella credibilità che ha perso sul piano dei progetti di inclusione sociale. 
Il successo di Marine Le Pen ha origine proprio da una tale frattura. L'allontanamento geografico e quello culturale dell'universo popolare, sommati alla crisi ed al senso di insicurezza crescente, alimentano una ricerca di rappresentanze autorevoli, ma anche sufficientemente lontane da quella stessa coincidenza istituzionale che ha costituito per decenni l'essenza del centro-destra. Paradossalmente è proprio l'esclusione di Marine Le Pen da qualsiasi presenza dentro l'establishment politico-culturale a costituire la sua vera chance di successo. 
Dopo lo choc della Brexit e quello, ancora più eclatante, di Donald Trump, sarà la Francia a dare la terza sorpresa sancendo, anche in Europa, il declino definitivo di un'epoca? Ovviamente non è possibile dirlo in quanto, come avviene in tutte le competizioni democratiche, l'opinione pubblica è fortemente esposta alle strategie mediatiche che i diversi attori sceglieranno di giocare nei prossimi giorni e quelle politiche che prenderanno forma nella settimana del ballottaggio. Tuttavia, qualunque sia il risultato che uscirà dalle urne, esso dovrà comunque fare i conti con un paese da recuperare intorno ad un progetto di crescita nel quale dovrà riunirsi e crederci.
22 APRILE 2017 SALVATORE ABBRUZZESE
DA SUSSIDIARIONET


giovedì 20 aprile 2017

DISCERNIMENTO, GIUDIZIO E KRISIS. (PER UNA CHIESA CRITICA)


LEONARDO LUGARESI

Discernimento, più ancora che misericordia, è probabilmente la parola-chiave del pontificato di Francesco. Su questo concetto, e sul modo in cui viene impiegato sempre più diffusamente nella chiesa oggi, ha fatto delle considerazioni pertinenti e assai utili il padre Scalese nel suo blog, qualche giorno fa qui: http://querculanus.blogspot.it/2017/04/dottrina-vs-discernimento.html, e precedentemente qui: http://querculanus.blogspot.it/2016/07/a-proposito-di-discernimento.html.

Michelangelo, Il Giudizio universale, particolare
Le condivido. Vorrei solo aggiungere che, mentre la parola “discernimento” è oggi di gran moda – benché (o forse proprio perché) non sia affatto chiaro che cosa si intende con essa –, la parola “giudizio” non gode di alcun favore tra i cristiani, anzi viene da molti esplicitamente rifiutata.

La frase-emblema di questo pontificato, nella memoria dei più, temo che resterà quel «Chi sono io, per giudicare?», forse sfuggito di bocca al papa durante un colloquio coi giornalisti in aereo e che nella sua mente aveva presumibilmente il senso perfettamente cristiano che “solo Dio è giudice e nessun uomo può usurparne il ruolo”, ma che è stato infelicemente interpretato da quasi tutti nel senso che il giudizio è una cosa sbagliata, cattiva, non cristiana.

Invece giudizio è una parola profondamente cristiana (oltre ad essere la parola più religiosa che ci sia). È una parola bellissima, liberante, gloriosa: vivaddio, tutto è giudicato! Che cosa orrenda, ingiusta, informe, spugnosa sarebbe la vita dell'uomo e del mondo, se non ci fosse la certezza che il giudizio c'è. E c'è il giudizio perché c'è un Giudice (e non a Berlino, che staremmo freschi!).
Tuttavia, prendiamo atto che gli uomini del nostro tempo molto spesso questa parola cristiana, come tante altre, non la capiscono più. Intendono giudizio nel senso di regola astratta, rigida, disumana, che cala dall'alto sulla vita per condannarla ... Non sanno cos'è il giudizio, come non sanno cos'è la dottrina. Bisogna tenerne conto.

In attesa che coloro che fanno da maestri nella chiesa si decidano a tornare ad insegnarle queste parole, adoperiamo pure discernimento.

Purché sappiamo, almeno noi cristiani, che il discernimento altro non è che “il giudizio praticato”, il giudizio messo alla prova della vita quotidiana. «Impariamo a giudicare, è l'inizio della liberazione», ho sentito dire una volta da don Giussani, e mi pare un programma perfetto ancora oggi. Se non è esercizio del giudizio – che ovviamente implica l'uso di un criterio di verità, e la Verità è Cristo – il discernimento degenera fatalmente ad “arte del possibile”, prudenza mondana (poco importa se gesuiticamente rinominata), “discrezione” nel senso di Guicciardini. Tutte cose che poco o nulla hanno a che fare con il cristianesimo.

Il giudizio praticato, però, si potrebbe chiamare ancor meglio crisi o, se si preferisce, krisis, (alla greca, che fa sempre il suo effetto, e per evitare fraintendimenti). 

Krisis è il porsi di un giudizio che nasce dall'esperienza della Verità e si impatta con le altre posizioni umane, si gioca nel confronto e si lascia sfidare da esse e le “mette in crisi”. Cioè ha la capacità di innescare in esse un processo di revisione che, col tempo, le cambia. Perché distingue, separa, spacca i sistemi consolidati di pensiero, li disarticola, li rovescia. Fa un'altra cultura.


Esattamente quello che hanno fatto i cristiani dei primi secoli nei confronti del mondo greco-romano (sin da quando erano l'un per mille, o l'un per cento della popolazione!). e quello che facciamo tanta fatica a fare noi oggi.

L’ AVVENIRE RADIOSO DI GRILLO


di Riccardo Cascioli 20-04-2017


Una lunga intervista – versione tappetino - a Beppe Grillo sulla prima pagina di Avvenire e, contemporaneamente, il direttore di Avvenire Marco Tarquinio che dalle colonne del Corriere della Sera spiega che su tre quarti dei grandi temi, grillini e cattolici sono in piena sintonia.

Una svolta epocale e anche sconcertante quella del quotidiano dei vescovi italiani, che ha provocato numerose reazioni, anche sdegnate. Tanto che Tarquinio ieri sera ha dovuto precisare al Sir che i giudizi espressi nell’intervista al Corriere «sono opinioni personali e non impegnano l’editore». Un tentativo patetico di parare i colpi che sicuramente devono essere arrivati tra la sede milanese del giornale e la segreteria della Conferenza Episcopale a Roma. Ma chi conosce anche superficialmente la realtà dei media Cei sa benissimo che un’operazione di questo genere sarebbe impensabile come iniziativa personale del direttore, tanto più oggi che a guidare il vapore è l'accentratore segretario della Cei monsignor Nunzio Galantino. Fosse vera l’ipotesi di una opinione personale, Tarquinio sarebbe già stato accompagnato all’uscita.

Cerchiamo di capire dunque il senso di questa svolta. Essa si compone di due fattori: uno più propriamente politico, l’altro religioso.
Sul versante politico l’operazione è a doppio senso: da una parte c’è Grillo che sente vicina l’opportunità di andare al governo del Paese e scopre che almeno una parte di voto cattolico potrebbe diventare decisivo per le sue fortune. Così, lui che ha sempre schifato giornali e tv, di punto in bianco decide di concedersi al giornale dei vescovi, dimenticando anche il suo anticlericalismo e le sue performance blasfeme (di cui ovviamente i giornalisti di Avvenire non chiedono affatto conto). Del resto, già nelle elezioni del 2013, secondo un’indagine Ipsos, ha votato 5 Stelle il 20% dei cattolici che dicono di andare a messa tutte le domeniche.
Un calcolo speculare evidentemente si sta facendo anche nei palazzi Cei: visto che un Grillo al governo diventa una possibilità concreta, meglio provare a mettersi subito d’accordo, un po’ come fece l’amministratore disonesto della parabola.

La chiave di lettura sta nell’ultima domanda del Corriere a Tarquinio, quando gli viene chiesto della pretesa della giunta romana di far pagare l’Imu agli edifici ecclesiastici. Il punto è proprio questo: già a Torino e Roma le giunte grilline hanno messo nel mirino i beni della Chiesa, e altre amministrazioni locali importanti saranno cambiate nei prossimi mesi; a livello nazionale poi i 5 stelle hanno già dimostrato di voler dare l’assalto all’8xMille. Il calcolo dunque è presto fatto: in cambio di una bella apertura di credito, si conta di ammorbidire le posizioni grilline sui soldi alla Chiesa e salvare così il malloppo. Del resto, la tanto sbandierata autodeterminazione del popolo e le decisioni prese direttamente dai “cittadini” hanno già ampiamente dimostrato di essere sciocchezze clamorose, buone solo per ingannare gli allocchi: a decidere sono Grillo e Casaleggio, e se Grillo si accorda con Galantino i “cittadini” si possono anche mettere l’anima in pace. Insomma, il denaro sarà pure lo sterco del diavolo, però fa così comodo…

Dietro questi accordi politici di bassa lega c’è però una sempre più evidente debolezza culturale e religiosa. Dice Tarquinio che ci sono molte sensibilità comuni con i 5 Stelle, soprattutto su lotta alle povertà e partecipazione. Espressioni vaghe, su cui peraltro potrebbero concordare praticamente tutti i partiti (c’è forse qualche forza politica che proclama di volere più povertà o che vuole segregare alcuni settori della popolazione?), ma dietro le quali si celano proposte che vanno nel senso dello statalismo più radicale e delle misure economiche alla Chavez (guardiamo il Venezuela come è ridotto), l’esatto opposto della Dottrina sociale della Chiesa. 

Ma facciamo pure finta che ci siano davvero tanti punti di contatto tra grillini e cattolici. Ciò che sconcerta del ragionamento di Tarquinio è il fatto che tutti i temi sono sullo stesso piano: eutanasia, aborto, unioni civili, fecondazione artificiale, libertà religiosa, libertà di educazione – tutti temi su cui la distanza con i grillini è abissale – valgono quanto la comune contrarietà al lavoro domenicale, che per Tarquinio sembra diventata una vera e propria emergenza sociale. 

In pratica, nella visione galantiniana, non esistono più dei princìpi fondanti una comunità civile, non ci sono fondamenta che tengono in piedi tutto l’edificio. Ci sono tanti valori, che si moltiplicano in una società multiculturale, e tutti sono sullo stesso livello. Così si può arrivare a sostenere un partito come i 5 Stelle, pur se questi sono portatori di una concezione dell’uomo antitetica a quella cattolica, anche se lavorano per distruggere la famiglia, per eliminare gli anziani, e così via.


È la negazione della Dottrina sociale della Chiesa – oltre che del buon senso -, è il rovesciamento del Magistero di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, che pure sul comportamento dei cattolici in politica hanno prodotto delle indicazioni molto chiare. Del resto, dopo che hanno abbracciato l’ideologia Lgbt ci si può davvero stupire se Galantino, Tarquinio e compagnia si buttano sui grillini?

mercoledì 19 aprile 2017

ISLAM RELIGIONE DELLA SPADA.

L'allarme di un gesuita egiziano
tratto da Settimo Cielo di Sandro Magister

Tra dieci giorni, venerdì 28 aprile, papa Francesco atterrerà in un Egitto ancora scosso dai massacri della domenica delle Palme, compiuti da musulmani in due chiese cristiane gremite di fedeli.
Ma il mantra delle autorità vaticane, a cominciare dal papa, continua ad essere che "l'islam è religione di pace". Vietatissimo parlare di "guerra di religione" o di "terrorismo islamico".
Alla vigilia del viaggio di Francesco al Cairo, ecco però che essa è ricomparsa di nuovo, ben argomentata, questa volta su "L'Osservatore Romano"  ad opera di un gesuita.
Padre Henri Boulad
Il nome di costui è Henri Boulad. Ha 86 anni ed è nato ad Alessandria d'Egitto da una famiglia siriana di rito melchita scampata ai massacri anticristiani del 1860. Vive al Cairo e quella che segue è parte dell'intervista che ha dato al quotidiano della Santa Sede datato 13 aprile, Giovedì Santo.
*
D. – Padre Boulad, lei è stato rettore del Collegio dei gesuiti al Cairo dove hanno studiato tanti musulmani e cristiani, un esempio concreto di convivenza. Eppure oggi il mondo sembra essere sotto attacco dallo stesso islam.
R. – Ma di quale islam parliamo? È questo il punto. Nel Corano ci sono i versetti meccani e quelli di Medina. In quelli scritti alla Mecca, Maometto fa un discorso molto aperto che parla di amore, i giudei e cristiani sono nostri amici, non c’è obbligo nella religione e Dio è più vicino a noi. La prima parte della vita di Maometto trasmette dunque un messaggio spirituale, di riconciliazione e di apertura.
Ma quando Maometto lascia La Mecca per fondare Medina, c’è un cambiamento. Da capo spirituale diventa un capo di Stato, militare e politico. Oggi i tre quarti del Corano sono versetti di Medina e sono un appello alla guerra, alla violenza e alla lotta contro i cristiani.
I musulmani nei secoli IX e X hanno preso atto di questa contraddizione e si sono messi insieme per tentare di risolverla, il risultato è stato che hanno preso una decisione ormai famosa di "abrogante" e "abrogato": i versetti di Medina abrogano quelli della Mecca. Non solo. Il sufismo viene rifiutato e intere biblioteche vennero bruciate in Egitto e in Africa del Nord.
Bisognerebbe allora riprendere i versetti originali che sono la fonte e che sono appunto i versetti della Mecca, ma questi sono stati abrogati e ciò rende la religione musulmana una religione della spada.
D. – Molti osservatori e analisti parlano però di un islam moderato.
R. – L’islam moderato è un’eresia, ma dobbiamo distinguere tra la gente e l’ideologia, la maggior parte dei musulmani sono molto aperti, gentili e moderati. Ma l’ideologia presentata nei manuali scolastici è radicale. Ogni venerdì i bambini sentono la predica della moschea che è una continua incitazione: chi lascia la religione musulmana deve essere punito con la morte, non bisogna salutare una donna o un infedele, e per fortuna questo non è praticato, ma i fratelli musulmani e i salafiti vogliono invece questa dottrina, i musulmani moderati non hanno voce e il potere è nelle mani di chi pretende di interpretare l’ortodossia e la verità.
Ad avere oggi il potere non sono i musulmani che hanno preso dall’islam quello che è compatibile con la modernità e con la vita comune con altra gente, ma i musulmani radicali, quelli che applicano un’interpretazione letterale, e a volte anche strumentale, del Corano e che rifiutano qualsiasi dialogo.
D. – Ma in questo modo negano l’opera di tutti i grandi pensatori musulmani come Avicenna o Al-Ghazali.
R. – Sì, e questo è il punto sensibile. La riforma che c’è stata nella storia dell’islam è stata rifiutata. Per esempio il califfo abbaside El Maamoun nato a Bagdad nel 786 e morto a Tarso nel 833, seguace dei mutaziliti, i razionalisti dell’islam, ha tentato una riforma, ma chi si ricorda oggi di lui? È prevalso l’islam chiuso e rigoroso di Muhammad ibn Abd al-Wahhab. L’ultima riforma è stata quella tentata dallo sheikh Mahmoud Taha in Sudan, che però a Khartum è stato impiccato nella piazza della città perché aveva detto che i versetti della Mecca dovevano abrogare quelli di Medina.
È un problema interno all’islam, che non offre risposte alle domande della vita moderna e si trova di fronte alla necessità di riformare se stesso. L’islam avrebbe bisogno di un Vaticano II.
D. – Oggi quali sono le sfide che l’Egitto ha di fronte?
R. – Un fenomeno di cui si parla poco è l’ateismo. In Egitto ci sono oltre due milioni di atei. Lo sono diventati perché non sopportano più la religione come incitazione alla violenza o alle esecuzioni capitali. In questo non c’è nulla di divino. Non vogliono più il fanatismo, la liturgia come ripetizione meccanica di gesti e preghiere. E lasciare la religione è qualcosa del tutto nuovo in Egitto e nel mondo arabo
 leggi tutta l'intervista

lunedì 17 aprile 2017

IL DONO DI BENEDETTO XVI


Che insegnamenti ci arrivano dai 90 anni di J. Ratzinger.

di Angelo Scola tratto da Il Foglio
16 Aprile 2017 

“Essendo un uomo di formazione teorica e non pratica, sapevo anche che non basta amare la teologia per essere un buon sacerdote, ma vi è la necessità di essere disponibile sempre verso i giovani, gli anziani, gli ammalati, i poveri; la necessità di essere semplice con i semplici. La teologia è bella, ma anche la semplicità della parola e della vita cristiana è necessaria. E così mi domandavo: sarò in grado di vivere tutto questo e di non essere unilaterale, solo un teologo ecc.? Ma il Signore mi ha aiutato e, soprattutto, la compagnia degli amici, di buoni sacerdoti e di maestri, mi ha aiutato”.
Donatello, San Marco; Firenze Orsanmichele
Con questa disarmante semplicità, Benedetto XVI fece sua la perplessità che, in modo più o meno esplicito circolava tra molti dopo la sua elezione a successore di Pietro. Furono parole pronunciate durante un dialogo a cuore aperto con i giovani di Roma, la sua diocesi, in occasione della XXI Giornata mondiale della gioventù, il 6 aprile 2006. Benedetto XVI volle condividere con loro il suo personale percorso di fede. Un percorso di feconda umiltà, frutto di grazia e libertà, di certezza e timore realistico, di slancio e di fiducioso abbandono. Un percorso che il giorno della sua rinuncia al ministero petrino è stato evidente al mondo in tutta la sua grandezza.

Lungo gli anni del suo pontificato ne abbiamo potuto riconoscere le pietre miliari.
Anzitutto la grazia che è lo stesso Signore Gesù. Il primato di Cristo, cioè, dell’Amore incarnato di Dio nella vita del cristiano, ci è stato richiamato con grande forza dall’enciclica Deus caritas est. Cardine del suo insegnamento è il formidabile passaggio dell’incipit: “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva”.

Da qui venne poi, con grande naturalezza, lo sviluppo proposto nel famoso intervento al Convegno della Chiesa italiana a Verona (2006): “Io, ma non più io: è questa la formula dell’esistenza cristiana fondata nel Battesimo, la formula della risurrezione dentro al tempo, la formula della ‘novità’ cristiana chiamata a trasformare il mondo”. Una novità, frutto del dono dello Spirito, del tutto gratuita, per nulla da noi prodotta o meritata.
Un dato – in senso forte – cui far spazio e da accogliere.
La Vergine Maria rappresenta la figura compiuta della personalità e della esistenza di Benedetto XVI, che da giovane, con occhi spalancati e cuore lieto, saliva all’amato santuario di Altötting. Nell’Annunciazione, l’Immacolata pronuncia quel fiat che dispiegherà con forza nello stabat del Calvario e che nel mistero dell’Assunzione troverà pieno compimento. Nella esperienza umana di Maria brilla il significato compiuto della formula cooperare assentendo contenuta nel Canone quarto del Decreto sulla giustificazione del Concilio di Trento. E’ questo l’orizzonte proprio del popolo cattolico, genuinamente espresso nell’esperienza ecclesiale del popolo bavarese. Nell’appartenenza pienamente consapevole a questa porzione significativa del popolo di Dio, si è formata la vocazione e la missione del futuro Papa Benedetto.

Ma il percorso compiuto da Benedetto XVI ci offre una seconda indicazione, particolarmente preziosa perché illumina la modalità attraverso cui la grazia sacramentale diventa incontro persuasivo e affascinante per l’umana libertà. “Soprattutto, la compagnia degli amici, di buoni sacerdoti e di maestri, mi ha aiutato”. La vita della comunità cristiana, infatti, è garanzia del cammino.
Una compagnia che esprime il volto della Chiesa e riempie i “grandi ambiti nei quali si articola l’esperienza umana” (Discorso di Verona), come documenta l’enciclica Caritas in veritate.
“La redenzione ci è offerta nel senso che ci è stata donata la speranza, una speranza affidabile, in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente” (Spe salvi 1). Queste parole illuminano la risposta che la vita di Papa Benedetto continua a offrire a una domanda oggi più urgente che mai.
Hans Urs von Balthasar, suo grande amico, la formulava così: chi è la Chiesa? Il percorso cristiano e pastorale di Benedetto XVI, infatti, ripropone limpidamente l’esperienza della prima comunità apostolica. Pietro, Giovanni, Matteo, Paolo, Stefano, le donne… sono i primi anelli di una catena ininterrotta di testimoni, storicamente ben documentata, che arriva fino a noi. In essa si esprime la natura sacramentale della Traditio della Chiesa.
La grazia che è Gesù Cristo, vissuta nella compagnia della Chiesa: mi sembra questo il dono che la vita di Benedetto XVI continua a testimoniare alla nostra libertà.


sabato 15 aprile 2017

APOFTEGMA

αποφθεγμα 
Annibale Carracci, Cristo Morto

Dopo la luce rossa delle torce su volti sudati
Dopo il silenzio gelido nei giardini
Dopo l'angoscia in luoghi petrosi
Le grida e i pianti
La prigione e il palazzo e il suono riecheggiato
Del tuono a primavera su monti lontani
Colui che era vivo ora è morto
Noi che eravamo vivi ora stiamo morendo.


T. S. Eliot, La Terra desolata

mercoledì 12 aprile 2017

IL MONDO E’ BELLO PERCHE’ C’E’ CRISTO

LEONARDO LUGARESI
GIOTTO, il bacio di Giuda
«Credo che la Chiesa sia l'unica cosa che renderà sopportabile il mondo terribile verso il quale ci stiamo avviando; l'unica cosa che rende sopportabile la Chiesa è che in qualche modo è il corpo di Cristo e di questo siamo nutriti. Sembra un dato di fatto che si deve soffrire tanto dalla Chiesa quanto per la Chiesa, ma se si crede nella divinità di Cristo si deve aver caro il mondo nel momento stesso in cui si lotta per sopportarlo (I think that the Church is the only thing that is going to make the terrible world we are coming to endurableThe only thing that makes the Church endurable is that it is somehow the body of Christ and that on this we are fed. It seems to be a fact that you have to suffer as much from the Church as for it but if you believe in the divinity of Christ, you have to cherish the world at the same time that you struggle to endure it)».

Parole scritte nel 1955 da Flannery O' Connor, presumibilmente la più grande scrittrice americana del XX secolo. Perfette per oggi.

venerdì 7 aprile 2017

PER RITROVARE LA VERA LITURGIA

CARD. SARAH: la crisi nella Chiesa che oggi stiamo vivendo è in gran parte dovuta alla disintegrazione della liturgia.

 DAL BLOG DI
Occorre un equilibro tra la fedeltà alla tradizione e un legittimo sviluppo, senza mai dimenticare la sacralità e la bellezza della liturgia. Non si ripeterà mai a sufficienza che la liturgia, in quanto culmine e fonte della Chiesa, ha il suo fondamento non nella creatività umana, ma in Cristo stesso.
Sono questi i concetti che il cardinale Robert Sarah, prefetto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, sviluppa nel messaggio inviato al colloquio «Quelle der Zukunft» («La fonte del futuro») svoltosi dal 29 marzo all’1 aprile a  Herzogenrath, in Germania, nel decimo anniversario di «Summorum pontificum»,  la lettera apostolica di Benedetto XVI (7 luglio 2007) che contiene le indicazioni giuridiche e liturgiche per la celebrazione della cosiddetta messa tridentina.

Il contributo del cardinale, autore di recenti libri di successo come «Dieu ou rien» e «La force du silence», contiene numerosi spunti di riflessione.
Che cosa volle insegnare, si chiede Sarah, il documento di Benedetto XVI pubblicato in forma di «motu proprio»?
Fu lo stesso Benedetto XVI, con una lettera ai vescovi, a spiegare il senso della sua iniziativa precisando che la decisione di far coesistere due messali (quello per la forma «ordinaria», sulla base della revisione operata secondo le linee guida del Concilio Vaticano II, e quello per la forma «straordinaria», corrispondente alla liturgia in uso prima dell’aggiornamento) non nasce solo dall’esigenza di soddisfare i desideri di alcuni gruppi di fedeli affezionati alle forme liturgiche precedenti al Concilio Vaticano II. C’è anche l’obiettivo di consentire un arricchimento reciproco. E in effetti, scrive Sarah, là dove l’attuazione di «Summorum pontificum» è stata possibile si registra un maggior fervore sia nei fedeli sia nei sacerdoti, con positive ripercussioni sulla forma ordinaria, in particolare sotto il profilo della riscoperta di atteggiamenti (specialmente lo stare in ginocchio e il raccoglimento nel silenzio) che consentono a sacerdoti e fedeli di interiorizzare il mistero della fede che si celebra.
La liturgia, sostiene il cardinale Sarah, ha bisogno di essere sempre riformata per renderla sempre più fedele alla sua essenza mistica. Purtroppo però, a suo giudizio, dopo il Concilio Vaticano II più che una riforma c’è stata una svendita, dettata dal desiderio di sopprimere a tutti i costi un patrimonio percepito come negativo e superato.
Eppure, dice il cardinale, è sufficiente prendere la «Sacrosanctum Concilium» (la costituzione conciliare sulla sacra liturgia, 4 dicembre 1963) e leggerla con onestà, per vedere che il vero scopo del Concilio non è stato quello di determinare una cesura con la tradizione, ma, al contrario, di riscoprire la tradizione nel suo significato più profondo.
Ecco perché oggi non si dovrebbe parlare di «riforma della riforma», ma di arricchimento reciproco dei riti, sulla base di un’esigenza prima di tutto spirituale.
Nessuna ermeneutica della discontinuità o della rottura è quindi possibile.
Già molto prima di diventare papa, il cardinale Joseph Ratzinger fece notare che la crisi che ha scosso la Chiesa per mezzo secolo, soprattutto a partire dal Concilio Vaticano II, è connessa con la crisi della liturgia, quindi con la mancanza di rispetto per il sacro, con la desacralizzazione del culto e il livellamento degli elementi che lo compongono.  Come si legge nelle memorie di Ratzinger («Milestones. Memories 1927 – 1977»),  la crisi nella Chiesa che oggi stiamo vivendo è in gran parte dovuta alla disintegrazione della liturgia.

lunedì 3 aprile 2017

DEBOLEZZA E FORZA


 Appaiono forti come non mai, in questo momento storico, tutte le ideologie che vogliono depotenziare l’uomo.

Alla legge naturale e al senso di colpa derivante dal peccato si sovrappone il nuovo codice etico: ambientalismo (rinuncia al dominio del creato), sesso libero e omosessualismo ( rinuncia al dominio di sé), multiculturalismo globale (rinuncia alla propria identità culturale), politically correct (rinuncia alla realtà e alla onestà intellettuale).
Con buona pace della volontà di potenza. Contro tutti queste rinunce ormai appare schierata quasi solo la Chiesa, alla faccia di Nietzsche, e neanche tutta.

Guttuso, fuga dall'Etna
Sono proprio i poteri forti che vogliono questa debolezza: perché chi è forte vuole essere ancora più forte, e una strada per ottenerlo è che i deboli siano ancora più deboli. Non c’è vincitore più completo di chi vince perché il suo avversario decide di perdere.
Il cristianesimo fa della debolezza e dell’umiltà la sua forza.
Ma la debolezza del cristianesimo non è una rinuncia fine a se stessa: è la rinuncia alla menzogna, non alla realtà.
E’ la rinuncia alla forza, non ad essere forti; la rinuncia a imporre il proprio volere, non al volere; la rinuncia al peccato, non alla virtù.

Diffidate di chi predica questo nuovo spiritualismo imbelle, questo catarismo degenere che si lascia usare dal mondo perché ogni cosa diventa lecita, tranne essere veri

Pubblicato da Berlicche