sabato 20 maggio 2017

DIETRO LE QUINTE DELLA COREA

 TRATTO DA "LA NUOVA EUROPA"
Un lungo e interessante articolo sulla realtà della Corea del Nord
venerdì 5 maggio 2017
Un regista russo a Pyongyang, per girare un documentario di «vita vissuta». Neppure il totalitarismo sovietico era riuscito a condizionare l’uomo a tal punto. In un’intervista a «The New Times» il racconto di un’esperienza ai limiti della realtà.

«Alla luce del sole» è il titolo di un documentario sulla vita di una scolara di Pyongyang, girato dal regista russo Vitalij Manskij per il governo nordcoreano. Godendo della fiducia del regime, il regista ha colto l’occasione per filmare ciò che nessuno straniero può vedere.

Il suo film in «versione integrale» si è già aggiudicato numerosi premi e recensioni in Occidente, ma gli è anche valso una nota di protesta del Ministero della Cultura coreano al Ministero degli Esteri russo, e l’ingiunzione da parte nordcoreana di vietarne la proiezione. 
Ma cosa ha visto Manskij a Pyongyang? Come è riuscito a fare delle riprese in questa città, e cosa invece non è riuscito a riprendere? In un’intervista esclusiva rilasciata ad Evgenija Al'bac del «The New Times», di cui presentiamo ampi stralci, il regista racconta come è riuscito a eludere la sorveglianza e a scoprire il
 fake eretto a sistema.
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Qualcuno le ha proposto di girare un film sulla Corea del Nord o lo ha deciso lei?
Certo che l’ho deciso io… Mi ha sempre interessato la Corea del Nord, perché mi chiedevo come si fa a sopraffare una persona, a distruggerla nei suoi princìpi fondamentali? Perché una persona è disposta a sottomettersi? È chiaro che questo è un film non solo e non tanto sulla Corea del Nord.

Quando siete arrivati per la prima volta nel paese del Juche, l’ideologia ufficiale?
Nel 2013 ho fatto un primo viaggio di sopralluogo: mi hanno mostrato quanto era bello questo paese, e alla fine sono riuscito a scegliere la mia protagonista: mi hanno portato in una scuola-modello, hanno condotto nello studio del direttore cinque bambine, e mi hanno detto: «Ha cinque minuti per conoscerle e scegliere quella che preferisce».
La sceneggiatura del documentario era già stata scritta prima ancora che potessi scegliere la protagonista: il film doveva parlare di una bambina che fa il suo ingresso ufficiale nell’associazione analoga a quella dei nostri Pionieri comunisti, l’Unione dei bambini, e alla quale viene affidato il compito importantissimo di partecipare alla più grande festa del mondo, a cui si sta preparano da tempo con i suoi compagni. Alla fine la bambina si trasforma in una delle migliaia di persone che compongono il più grande quadro vivente del mondo a tema «la felicità assoluta».
Ho scelto Zin Mi perché la bambina mi ha detto che suo padre faceva il giornalista, così ho pensato che tramite il suo lavoro sarei riuscito a scoprire qualcosa. Della mamma la bambina mi ha detto che lavorava nella mensa di una fabbrica. Così ho pensato: perfetto, una mensa, gente che mangia, forse anche qui potrò trovare qualche spunto interessante... Inoltre, Zin Mi viveva vicino alla stazione, in un monolocale, con la mamma, il papà e i nonni.

Ma nel film non c’è niente di tutto questo: il papà non è un giornalista, la mensa non c’è e tanto meno i nonni…
Naturalmente. Quando siamo arrivati sul posto per iniziare le riprese, il papà si è magicamente trasformato nell’ingegnere di un’azienda-modello di abbigliamento, e la mamma nell’operaia di una fabbrica-modello di latte di soia. Abitavano, come si è scoperto, nella casa più chic della capitale, dalla cui finestra si godeva uno splendido panorama. A dire il vero, il linoleum che imitava il parquet era stato semplicemente tagliato con le forbici e appoggiato sul pavimento di cemento, non era nemmeno stato infilato sotto il battiscopa; i mobili erano appena stati portati; i quadri appena appesi. Ho colto l’occasione per sbirciare in un armadio, ed era vuoto; il bagno non era mai stato usato e non c’era neanche l’acqua; la luce veniva accesa al momento delle riprese.
In generale ho avuto la sensazione che non si trattasse di una casa d’abitazione, e che l’ascensore fosse stato messo in funzione solo in vista del film.
Ma questa casa aveva almeno tre portoni d’accesso, mentre quella di fronte, di cui ho fatto il giro una volta che sono riuscito a liberarmi dei miei accompagnatori, di ingressi non ne aveva neanche uno. Oltretutto, alla sera quella casa aveva alcune finestre illuminate, ma guardando con attenzione ho notato che erano sempre gli stessi lampadari ad accendersi. Evidentemente era stato installato un sistema che ogni sera veniva attivato con un interruttore generale, e così dava la sensazione che la casa fosse abitata, sebbene fosse vuota e senza ingressi. Era tutta una farsa.

Ma la mamma e il papà di Zin Mi sono reali?
Sì, ho visto il loro album di famiglia. Solo che le foto sono state scattate su uno sfondo fasullo, come montate su fotografie prese da una rivista o sullo sfondo di un salone del mobile: riporto volutamente queste fotografie all’inizio del film… Avendoci vissuto per un po’ di tempo, ho capito che Pyongyang è decisamente un’Esposizione delle realizzazioni economiche di staliniana e brežneviana memoria, la Corea del Nord è brežneviana e tutti gli abitanti di Pyongyang sono decisamente dei pezzi da museo.
La città, per esempio, è piena di prati verdi ben curati, e su questi prati al mattino presto, alle sei, oppure la sera, dopo il lavoro, ci sono delle persone accovacciate che strappano le erbacce con delle pinzette.
A proposito, quando abbiamo girato alla fabbrica-modello, dove il papà della nostra protagonista avrebbe dovuto fare l’ingegnere, sono andato in bagno e ho sbagliato stanza. Ho aperto una porta e ho visto circa 150 donne nude che facevano la doccia. Sono riuscito a dare un’occhiata dalla finestra e mi sono reso conto che sul territorio della fabbrica c’erano delle baracche destinate ad abitazione, e che la scena in cui gli operai si recano al lavoro era tutta una montatura, perché questi operai vivevano presso la fabbrica.

Ma che senso ha fingere così? A Pyongyang quasi non ci sono stranieri e quelli che ci sono, come raccontano, seguono un itinerario rigorosamente prestabilito.
Non saprei. Dalla fine di ottobre all’inizio di aprile il paese è praticamente chiuso ai visitatori stranieri: le case vengono riscaldate a carbone o a legna, e i tubi delle stufe a carbone che sporgono dalle finestre non offrono uno spettacolo molto attraente.
Oggi la Corea del Nord ha due principali partner mondiali: la Cina e, di recente, ancora la Russia, che ogni anno riceve 500 visti di ingresso nel paese. Per i tre viaggi del mio gruppo, composto da 4 persone, ci sono voluti 12 visti; ogni anno, quando arriva il coro delle nostre Forze Armate o il coro del Ministero degli Interni, di visti ne danno un centinaio: fate voi stessi il conto di quante persone arrivano dalla Russia. Dalla Cina, evidentemente, ne arrivano di più. Oltre a un numero molto ma molto limitato di altri stranieri.


Quante spedizioni avete fatto in Corea del Nord?
Due, anche se avrebbero dovuto essere tre, ma alla fine non ci hanno più lasciato entrare.

Perché? Si sono accorti che stavate girando di nascosto una sorta di film sul film, in cui si racconta come è stata realizzata tutta questa farsa sulla vita felice in Corea del Nord? In cui si spiega come si fa a registrare una seconda copia del girato, e in cui si mostra come siano stati gli stessi accompagnatori a spiegare ai protagonisti cosa dovevano dire e come dirlo?
Tutto questo non l’hanno capito e non l’hanno visto. Ma a loro, ad esempio, non piaceva che io riprendessi da dietro le tende dell’albergo… Una volta mi sono svegliato per il rumore, mi sono avvicinato alla finestra e ho visto una scena pazzesca: erano le sei di mattina, tutta la piazza e tutti i marciapiedi erano pieni di gente. Alcuni stavano accovacciati, altri erano seduti per terra, qualcuno mangiava, qualcun altro dormiva, qualcuno era disteso: erano stati tutti convocati per fare le prove dell’ennesima adunata. Io ovviamente ho preso la telecamera e ho iniziato a filmare dalla finestra. Saranno passati tre o quattro minuti, poi qualcuno ha bussato alla porta: i miei accompagnatori, che occupavano le camere a destra e a sinistra della mia, mi hanno detto di allontanarmi dalla finestra: «Vuole forse che non la lasciamo mai più entrare nel paese?». Tutto ciò che è stato ripreso senza permesso ufficiale – le persone che stanno spingendo un autobus, i bambini accanto ai cassonetti, le code per acquistare le merci con la tessera – tutto questo è stato ripreso da uno spiraglio dietro la tenda.

Potevate passeggiare per strada?
No, ci hanno ritirato subito il passaporto, e senza non è permesso uscire. Un paio di volte però siamo riusciti a ingannare i nostri accompagnatori e a uscire dall’albergo, abbiamo fatto in tempo ad arrivare da qualche parte, finché non sono riusciti a intercettarci e a riacciuffarci.

Siete riusciti a passare da qualche negozio?
Un paio di volte sono stato in un supermercato, dove mi sono capitati alcuni fatti divertenti. La prima volta mi ci hanno portato i mei accompagnatori. Ho girato un po’, mi sono guardato intorno e mi sono stupito di come tutto fosse a buon mercato. Era la mia prima visita e non capivo di cosa si trattasse; inoltre, uno straniero non ha il diritto di possedere soldi nordcoreani, perciò non ho potuto comperare niente. Ma poi sono riuscito a procurarmi un po’ dei loro soldi, e sono andato con gli accompagnatori ad acquistare qualche souvenir.
Arrivo al centro commerciale dove c’erano montagne di buffi quadernetti, così ho chiesto: mi dà tre quaderni? Risposta: non li può comprare. Poi ho capito: i commessi, i visitatori, la merce: non era un vero negozio ma una specie di salone espositivo. Un’altra volta, naturalmente con gli accompagnatori, siamo passati da un negozio di alimentari. C’erano 15-20 persone e tutti gli scaffali erano pieni da cima a fondo di confezioni di succo di pomodoro. Ho chiesto quanto costasse il succo di pomodoro e il mio accompagnatore, come al solito, mi ha risposto che ne avremmo parlato dopo. Ma io ho insistito: no, traduca adesso. La commessa ha parlato per un po’ e il mio accompagnatore mi ha tradotto: «Non hanno ancora portato i cartellini con i prezzi», o qualcosa del genere. «Bene – ho risposto, – e quanto costava il succo di pomodoro la settimana scorsa?». Lui tradotto: «Il succo di pomodoro non è in vendita».

Ma dove mangiavate con la vostra troupe? E che cosa?
Facevamo la colazione e il pranzo in albergo e tendenzialmente la sera ognuno cenava nella sua stanza, a volte abbiamo comprato qualcosa da mangiare, dei salsicciotti in scatola nel negozio della nostra ambasciata. A volte ci hanno portato in alcuni ristoranti dove si pagava in valuta straniera: dieci euro a pasto – non è caro, almeno per noi non lo è. Sapete qual è lo stipendio del capo sceneggiatore dello Studio di Cinema documentario a Pyongyang? Circa 75 centesimi al mese.



Nel film ci sono delle scene in cui la famiglia, mamma, papà e figlia, si riunisce intorno ad un piccolo tavolo tutto imbandito di piatti con cibo. Ma se in questo paese gli alimentari vengono distribuiti con le tessere e i negozi non sono che mostre… da dove arrivava quel cibo?
Era cibo che in nostra presenza è stato portato confezionato nel cellofan, è stato scartato, disposto e sistemato sul tavolo, e loro avevano realmente paura di toccarlo. Gli accompagnatori hanno detto loro: «Su, mangiate! Mangiate!». Loro li hanno guardati: «Davvero, si può?».

Ma che senso hanno dei negozi in cui l’unica merce è del succo di pomodoro che non è in vendita?
Non capisco. Dopo essere stato nella Corea del Nord ho più domande di prima. Ero partito con un’idea molto chiara. Pensavo soprattutto che fosse un sistema di terrore e di oppressione, che le persone dentro si sé capissero tutto. Ma dopo essermici immerso, mi sono reso conto che la gente in linea di massima non solo non capisce, ma non ci pensa proprio…
Una volta ho avuto occasione di parlare con un domatore di tigri: la tigre che nasce in cattività cresce, le spuntano gli artigli, i denti, i baffi, ruggisce, salta, solo che non sa di essere una tigre…
Un esempio? Abbiamo fatto delle riprese nel metro. A Pyongyang gli stranieri non hanno il permesso di andare in metro senza accompagnatori e comunque possono fare al massimo due fermate. Cioè, possono vedere tre stazioni. C’è un itinerario apposta per gli stranieri, che devono entrare a una stazione ben precisa e uscire a una stazione ben precisa. Non avevamo fatto in tempo a concludere le riprese in due fermate, così abbiamo chiesto se fosse stato possibile restare sul vagone ancora per qualche stazione. Ci è stato risposto categoricamente di no. Ci hanno proposto di rifare il percorso indietro per finire di filmare. Io ho tentato di spiegare che, se fossimo tornati indietro, sul vagone ci sarebbero state delle persone diverse. I miei accompagnatori mi hanno risposto che questo non era un problema e hanno ordinato ai passeggeri del vagone di alzarsi e di attraversare la stazione. Tutto il vagone si è alzato e si è riseduto in un vagone del treno che andava nella direzione opposta. E tutto in silenzio, senza discutere.

Ma le persone che c’erano su quel vagone erano reali?
Come faccio a saperlo?

Intende dire che nella Corea del Nord non c’è il doppio pensiero che esisteva perfino nell’URSS di Stalin?
No, assolutamente. Là le persone nascono in una data situazione, la stessa nella quale sono vissuti i loro genitori e nonni, non hanno alcuna informazione sul fatto che la vita può essere diversa, non hanno mai viaggiato, non hanno internet. Mi sembra che non abbiano neanche più paura: la cosa orribile è che si trovano in una condizione che viene dopo la paura. Sa, il modo più efficace per spiegare e per mettere a nudo un paese è la televisione… Naturalmente in Corea del Nord è vietato registrare le trasmissioni televisive, ma noi ci siamo attrezzati per poterlo fare: abbiamo registrato 24 ore al giorno il segnale televisivo su un hard disk, per ogni evenienza. Ci sono solo due canali, ovviamente senza pubblicità, al posto della quale vengono trasmessi dei videoclip sui grandi duci. I programmi sono: o trasmissioni che celebrano i duci, o letture dei testi dell’ideologia ufficiale. Non ci sono nemmeno i telegiornali come li intendiamo noi.

Non ci sono film d’amore?
Nessuno si è mai baciato in tutta la storia del cinema nordcoreano.

I suoi personaggi, la mamma e il papà, non hanno mai manifestato segni di affetto l’uno per l’altro?
No, mai. Stavano compiendo un importante affare di Stato: erano i protagonisti di un film.

D’accordo, ma questi protagonisti non possono non chiedersi come mai, nel film, sulla loro tavola c’è del cibo che non hanno mai mangiato né visto in vita loro…
Loro credono di vivere male solo perché gli Stati Uniti sono contro di loro… Quando abbiamo girato la scena in cui i ragazzini vengono accolti nei Pionieri, i nostri accompagnatori ci hanno indicato dei bambini che avevano tra i sette e gli otto anni, in uniforme militare, e hanno detto: «I loro genitori sono morti in guerra, questi sono i figli della guerra». Quale guerra? L’ultima guerra a cui la Corea del Nord ha partecipato risale a sessant’anni fa! Ma loro erano assolutamente convinti che da qualche parte fosse in corso una guerra e che la Corea del Nord avesse inviato delle truppe, che ci fosse un fronte, che i soldati morissero e che il duce si prendesse cura dei loro figli… Pensano di essere in guerra, sono effettivamente in guerra.

Come sono i loro giornali?
La Corea del Nord ha tre giornali. I giornali, appunto, non si possono portare fuori dal paese ed è vietato usarli come fogli di carta. Ora, tutti e tre i giornali sono pubblicati secondo lo stesso modello. Sulla prima pagina c’è il volto del duce e un breve testo; sulla seconda ben quattro foto del suddetto duce intento a qualche occupazione e le relative brevi didascalie; sulla terza, altri otto ritratti del duce e di solito altre fotografie di carattere generale; sulla quarta ci sono alcune fotografie delle realizzazioni del paese e, nell’ultimo angolino, le notizie dal resto del mondo: brevi testi, con fotografie in bianco e nero ancora più piccole, che raccontano di scioperi, disastri e aerei che precipitano. Ogni giorno la gente fa la fila all’edicola per comprare questi giornali.

Ha detto che tutti i giorni dovevate consegnare il materiale girato. Ma come avete fatto a portare fuori le scene girate di nascosto?
Ogni giorno un operatore fingeva di avere mal di stomaco, scappava in bagno per circa 20 minuti e copiava il materiale girato su un’altra carta di memoria. Sinceramente, questo è stato forse il film più complicato della mia carriera, anche se di film difficili ne ho girati parecchi. Ma psicologicamente stavolta è stata molto dura. Eravamo sorvegliati giorno e notte, ci parlavamo a gesti o uscivamo in corridoio, perché bisognava confrontarsi sulle riprese del giorno dopo. Ogni notte ci barricavamo in stanza perché nessuno entrasse, in modo che dall’esterno la stanza non si potesse aprire…

Per quanti giorni avete girato a Pyongyang?
45. Anche se da contratto con la parte nordcoreana avrebbero dovuto essere 75.

E poi cosa è successo?
Poi non ci hanno più rinnovato il visto d’ingresso, prima ancora di scoprire che il film sarebbe stato presentato al festival del cinema di Tallinn; non sapevano che il film ormai veniva proiettato praticamente in tutto il mondo. A quel punto ci hanno invitati a tornare e a terminare il lavoro. Ma che senso avrebbe avuto? Poi il nostro Ministero della cultura, dopo aver ricevuto la nota di protesta dai nordcoreani, ha chiesto di essere tolto dai titoli di coda del film. Richiesta strana e stupida, perché ormai il film era stato prenotato da almeno 30 fra i più importanti festival mondiali, alcuni paesi avevano già acquistato il film per trasmetterlo alla televisione e in alcuni stati europei stava già uscendo nei cinema. Ora i miei partner stanno lavorando al contratto in base al quale il film potrà uscire nei cinema degli Stati Uniti.

Nella scena finale la bambina scoppia a piangere e si sente la sua voce fuoricampo. Per tutta risposta Zin Mi inizia a recitare il giuramento di fedeltà al duce. Cosa era successo?
Credo che si sia messa a piangere perché sentiva su di sé una grandissima responsabilità e ha pensato di non farcela. Era stata scelta. L’avevamo scelta perché mostrasse la grandezza, la potenza del paese e la devozione ad esso. E quando le è stata posta una domanda a cui ha pensato di non aver risposto adeguatamente, è scoppiata a piangere per lo smarrimento. Ha detto: «Non riesco a capire se ho fatto tutto quel che dovevo per essere riconoscente al grande duce». Proprio perché aveva la sensazione di non aver fatto tutto ciò che doveva, ha cominciato a singhiozzare…

(fonte: The New Times )


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