domenica 28 gennaio 2018

LEONARDO LUGARESI ESISTE ANCORA UN POPOLO? TESTO DEL SECONDO INCONTRO DEL "PERCORSO" 29/11/2017

ESISTE ANCORA UN POPOLO?


«Il popolo, che si riconosce in un ethos e in una cultura propria, si attende dalla buona politica l difesa e lo sviluppo armonico di questo patrimonio e delle sue migliori potenzialità» (papa Francesco).          –   Cesena, 29 novembre 2017.

Il tema che mi è stato affidato è molto difficile e complesso. Provo a impostarlo, se non a svolgerlo, chiarendo innanzitutto il significato delle parole che trovate nel sottotitolo: popolo, ethos e cultura. Chiarire e approfondire il significato delle parole è fondamentale. Buona parte degli errori che facciamo nel pensare e nel comunicare dipendono proprio dalla confusione e dagli equivoci sul senso delle parole. E oggi la confusione è al massimo.

1. Popolo come unità di tutti (unitotalità).

Partiamo dall'etimologia della parola popolo. Deriva ovviamente dal latino populus che a sua volta potrebbe secondo alcuni (G.Devoto) risalire a una parola etrusca, *Poplu, col significato di “schiera armata”, mentre secondo altri deriverebbe da una radice indoeuropea *pal «che esprime il concetto di riunire, mettere insieme», In greco abbiamo ad esempio πλῆθος = folla. In latino il collegamento può essere con plenus. In tedesco abbiamo, con l'aspirazione della consonante labiale p in f, la parola voll  = pieno (inglese full) ma abbiamo anche Volk = popolo. Non sono in grado di pronunciarmi sull'attendibilità di questa etimologia, ma essa è molto suggestiva perché ci consente di cogliere un primo aspetto fondamentale dell'idea di popolo: quella di un insieme che comprende tutti, una totalità che non esclude niente e nessuno. Rousseau: «ciò che non è popolo è una entità così modesta che non val la pena di tenerne conto». Bismarck: «al popolo apparteniamo tutti; anch'io ho i diritti del popolo, del popolo fa parte anche sua maestà l'imperatore, noi tutti siamo il popolo (wir sind alle Volk, und die Regierungen mit)».
            Perché è così importante questa sottolineatura? Perché l'aspirazione alla totalità, cioè ad una unità che comprenda tutti (tutti gli uomini, ma in un senso più ampio, tutte le cose, tutti i “pezzi” della realtà) è un bisogno fondamentale del cuore umano. Questo ci fa capire come il concetto di popolo sia imprescindibile non solo sul piano sociale, ma per la persona stessa. Persona e popolo sono infatti due termini correlati: il popolo è fatto di persone, ma la persona non può esistere senza il popolo, perché non può senza un popolo realizzarsi nella propria esigenza di totalità.
            Noi credenti però sappiamo che l'unitotalità è una proprietà divina. L'impronta teologica dell'idea di popolo, anche se resta sullo sfondo, del tutto implicita, e addirittura apparentemente negata, è qualcosa di cui dobbiamo tenere conto. Essa, tra l'altro, ci aiuta a capire perché quella di popolo può, più facilmente di altre nozioni, caricarsi di un valore quasi religioso e diventare un idolo. Conosciamo nella storia diversi esempi di idolatria del popolo.
            Affinché non si pensi che tutto questo è astratto, vediamone un risvolto giuridico. Quando il giudice emette una sentenza, esordisce con la formula «Nel nome del popolo italiano». Perché? Perché l'art. 1 comma 2 Cost. recita che «La sovranità appartiene al popolo».  Ma questo che vuol dire? Vuol dire che quell'atto, che se ci pensiamo bene dovrebbe sembrarci “scandaloso” (un uomo decide della vita di un altro uomo), è invece un atto di giustizia perché si compie “nel nome del popolo”, cioè nel nome di tutti, nessuno escluso, compreso anche l'imputato. Se non fosse così quell'atto sarebbe di una parte contro un altra: apparterrebbe cioè all'ordine della politica e della guerra (vendetta), non all'ordine della giustizia.


2. La molteplicità dei popoli.
Se però proseguiamo l'analisi della parola popolo ci imbattiamo subito in una complicazione, se non proprio in una contraddizione: essa, infatti si declina anche al plurale: popoli. Anzi, ci sono dei casi in cui è obbligatorio usarla al plurale: per esempio, se ci riferiamo alla totalità degli uomini, non diciamo “il popolo della terra”, ma “i popoli della terra”. Nella realtà storica del mondo non esiste (e non ci risulta che sia mai esistito) un solo popolo ma ci sono tanti popoli. Quando vogliamo parlare dell'intero, diciamo popolazione oppure parliamo di umanità. Ora, questo sembra contraddire l'aspirazione alla unitotalità di cui parlavamo prima. La nozione di popolo implica dunque anche una pluralità, che si riverbera su di essa anche quando la usiamo al singolare: quando diciamo il popolo, è sempre di un popolo che stiamo parlando (quindi quell'aspirazione alla totalità viene in qualche modo smentita).
            Come dobbiamo pensare il rapporto tra l'aspirazione alla unitotalità e la molteplicità dei popoli? Cè un testo capitale su questo, che ha avuto un'enorme importanza in tutta la storia del pensiero occidentale e su cui l'esegesi patristica avrebbe molto da dire: è il racconto della costruzione della torre di Babele, in Genesi 11,1-9.

Tutta la terra aveva un'unica lingua e uniche parole. 2Emigrando dall'oriente, gli uomini capitarono in una pianura nella regione di Sinar e vi si stabilirono. 3Si dissero l'un l'altro: "Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco". Il mattone servì loro da pietra e il bitume da malta. 4Poi dissero: "Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo, e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra". 5Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che i figli degli uomini stavano costruendo. 6Il Signore disse: "Ecco, essi sono un unico popolo e hanno tutti un'unica lingua; questo è l'inizio della loro opera, e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. 7Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l'uno la lingua dell'altro". 8Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. 9Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra.

Che cosa ci dice questo racconto? Innanzitutto che “all'inizio non fu così”: in origine c'è un solo popolo, che parla un'unica lingua (quella di Adamo, che è anche la lingua di Dio, quella con cui Adamo parla con Dio). Questa unità è causa, condizione e al tempo stesso fine del progetto di costruzione di «una torre la cui cima tocchi il cielo», che però fallisce per volere di Dio. Perché quel progetto religioso è sbagliato? Il testo non dice in alcun modo che esso sia intenzionalmente ostile verso Dio. Dice anzi che gli uomini vogliono raggiungere il cielo e unirsi sulla terra. Perché dunque dovrebbe essere un male? La risposta è: perché l'iniziativa della relazione tra Dio e l'uomo non spetta all'uomo ma solo a Dio. È Dio che inizia, non l'uomo. Qualunque progetto umano di unitotalità che non prenda le mosse da un'iniziativa di Dio è radicalmente sbagliato. Noi oggi potremmo dire, in un certo senso, che Babele è un progetto di unità del popolo, di fraternità di tipo massonico. Il suo fallimento è sì una punizione di Dio, ma non una vendetta. L'ira di Dio, e le sue punizioni, infatti sono sempre medicinali, mai solo afflittive.
            Guardate che qui noi avremmo un potentissimo criterio di giudizio culturale, che è naturalmente da articolare ed elaborare, ma ha una formidabile pertinenza rispetto alla situazione attuale. Perché qui la parola di Dio ci fa capire che la pluralità dei popoli è un bene. Non un bene in senso assoluto, ma un bene relativo alla condizione dell'umanità dopo il peccato originale. I cristiani dovrebbero essere perciò estremamente critici nei confronti di ogni progetto di unione dell'umanità basato su un ideale e su uno sforzo umano. Invece mi pare che ci sia una penosa mancanza di lucidità nei confronti del globalismo, del mondialismo, di tutte le varie manifestazioni ideologiche “sovranazionali”. Basti pensare come, nonostante tutto, si continui a dare un credito morale alle organizzazioni internazionali. Ad esempio, si accetta supinamente che “sotto l'egida dell'ONU” possa essere il criterio discriminante per giudicare un'azione di politica estera. Non sviluppo questo argomento, ma lo lascio alla vostra riflessione. NB: naturalmente la mia non è un'apologia della guerra!

3. Popolo come parte (maggioritaria).

C'è un altro aspetto di ambiguità nel significato della parola popolo, anche al singolare, che rende questa parola ancora più problematica nella pretesa di unitotalità che abbiamo visto costituire il suo valore supremo. Popolo, infatti, si usa sì nel senso di “tutti-nessuno-escluso”, come abbiamo mostrato, ma si usa anche nel senso di “molti ma non tutti”, cioè di una parte. Questa ambivalenza c'era già nel termine latino: ricordate che il nome ufficiale dello stato romano era SPQR: Senatus PopulusQue Romanus il senato e il popolo romano. Dunque qui populus non significa il tutto, ma una parte. Dalla stessa radice etimologica pare che derivi anche un'altra parola latina, che noi tradurremmo con popolo, e cioè plebs. Qui popolo non significa tutti nessuno escluso, ma una parte maggioritaria, in contrapposizione ad un'altra minoritaria (i patres). Affine è il campo semantico di altre parole, greche questa volta, da cui derivano vocaboli importanti del nostro lessico: demos, da cui “democrazia”, e laos, da cui “laico”.
            Qui è necessario notare subito una cosa: nel momento in cui popolo designa una parte (o perché si parla di un popolo fra i tanti o perché si riferisce al demos) viene in primo piano la questione del criterio con cui si determina la sua identità e la si distingue dalle altre. E, nello stesso tempo, entra in gioco un giudizio di valore. Quando si distingue, infatti, si dà sempre un giudizio. Così, ad esempio, nel pensiero filosofico antico, del popolo-demos e della democrazia di solito non si pensa molto bene: è famoso l'aneddoto che riguarda uno dei sette sapienti, Biante di Priene, il quale, richiesto di una frase saggia da scrivere sul frontone del tempio di Delfi, vi fece incidere: hoi pleistoi kakoi, «la maggioranza è cattiva». Di qui, tutta una tradizione lunghissima che arriva fino a noi e si riflette nella semantica di parole come plebe, volgo, o di esmpressioni come “la gente” (Orazio: «odi vulgus profanum et arceo»). In età moderna e contemporanea, d'altro canto, siamo forse più abituati ad un'accezione positiva di popolo, visto come la parte sana della popolazione, in contrapposizione a qualcun altro, qualificato negativamente in vario modo (i padroni, la borghesia, i parassiti, l'élite, il governo, i poteri forti ecc.) ma in ultima analisi sempre con lo stigma di “nemico del popolo”. La tradizione marxista – che originariamente prende le distanze dal concetto, idealistico e romantico, di popolo adottando un'altra categoria, quella di classe – quando poi se ne appropria per ragioni di comunicazione politica (pensate da noi al “Fronte popolare”, o alle parole di “Bandiera Rossa”), lo usa appunto con questa connotazione “giudicante” e negativa nei confronti di chi non è popolo.  
            Un riflesso molto interessante di questo dato culturale lo ritroviamo nell'art.1 Cost. dove sottilmente questa ambiguità si ritrova: «L'Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo eccetera». La strana formulazione del primo comma deriva da un giudizioso compromesso rispetto all'istanza marxista di proclamare l'Italia una “repubblica dei lavoratori”, dalla quale, come nelle “democrazie popolari” che si stavano costruendo al di là della cortina di ferro, i “parassiti” sono esclusi come nemici del popolo. Fu importante allora il ruolo della componente cattolica (La Pira) che portò alla formulazione che venne poi approvata. Si veda anche come questo influì sul comma due dell'art.4 sul dovere di lavorare, inteso come obbligo di contribuire al progresso non solo materiale ma anche spirituale della nazione (La Pira richiamò il caso delle monache di clausura!). Anche qui ci sarebbero molte riflessioni da fare sull'attualità politica, che qui non c'è modo di fare. Raccomando solo l'attenzione al rischio, sempre possibile, del riemergere di una concezione esclusiva di popolo (il popolo degli onesti, degli intelligenti, dei moderni, ecc. ecc.), con la conseguente identificazione di un “nemico del popolo” da odiare.
     
4. Criteri per una definizione di popolo.

Una volta acquisita la complessità della nozione di popolo, dobbiamo porre la questione del criterio con cui esso si può definire, distinguendosi dagli altri popoli e/o da ciò che non è popolo (élite, oligarchia, governo eccetera). È chiaro, infatti, che non ogni aggregazione più o meno casuale di individui si può considerare popolo. Lo aveva già detto Cicerone:

Popolo non è ogni unione di uomini aggregati casualmente, ma l’unione d’una moltitudine legata in società d’accordo intorno alle stesse leggi e alla necessità di un bene comune. La prima causa di questa unione è non tanto la debolezza, quanto una forma di aggregazione direi naturale tra gli uomini, perché essi non sono adatti a vivere né a spostarsi in solitudine.
«Populus autem non omnis hominum coetus quoquo modo congregatus, sed coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus. Eius autem prima causa coeundi est non tam inbecillitas quam naturalis quaedam hominum quasi congregatio: non est enim singulare nec solivagum genus hoc» (Cicerone, De republica, 1, 25, 39)
«Populus est humanae multitudinis, iuris consensu et concordi communione sociatus. Populus autem eo distat a plebibus, quod populus universi cives sunt, connumeratis senioribus civitatis. (Plebs autem reliquum vulgus sine senioribus civitatis). Populus ergo tota civitas est; vulgus vero plebs est» (Isidoro di Siviglia).

Schematizzando e semplificando, possiamo dire che sono tre i fattori a cui ci si è agganciati, storicamente, per costituire e definire l'identità di un popolo.
            Uno è di tipo, per così dire naturale, e fa riferimento ad elementi come la razza, l'etnia, la stirpe, la consanguineità o, più genericamente, un'origine comune. Da questo lato, la nozione di popolo è contigua, o addirittura si sovrappone a quella, appunto di razza. Si veda il caso estremo dell'ideologia del nazionalsocialismo hitleriano.
            Un altro è di tipo culturale e lega l'identità del popolo a fatti quali la lingua, le tradizioni, la religione, le memorie storiche condivise, in cui manifesta lo “spirito del popolo”. Per questo aspetto, il concetto di popolo tende ad avvicinarsi e addirittura a sovrapporsi al concetto di nazione.
            Un terzo fattore, infine, può essere quello politico, per il quale la condensazione di un'identità di popolo avviene come risultato dell'azione di un sistema di istituzioni politico-territoriali comuni e/o di una comune volontà politica. Sotto questo profilo, l'idea di popolo viene ad essere quasi assorbita in quella di stato.
            Questi tre fattori possono naturalmente mescolarsi, come in quei versi di Manzoni che tutti ricordiamo: «una d'arme, di lingua, d'altare / di memorie, di sangue e di cor». Diciamo subito, comunque, che dei tre fattori, quello più plausibile è il secondo, ma dovremo chiarire bene che cosa si intende per cultura, e lo faremo tra un attimo.
            C'è un ulteriore nota bene da tenere presente: il riferimento a ciascuno di questi tre elementi può essere reale o puramente ideale, al limite immaginario. La “razza” o la consanguineità possono essere fittizie (anzi, sappiamo che normalmente lo sono); i dati storico-culturali pure (gli storici parlano di «invenzione della tradizione»), e anche l'unità politica può funzionare come catalizzatore di un popolo anche se è solo vagheggiata. Popolo quindi può essere un concetto ideale che si cerca di tradurre politicamente in realtà fattuale: vedi un esempio di questo fenomeno nel nostro Risorgimento: «fatta l'Italia, bisogna fare gli italiani». Da questo punto di vista, si potrebbe arrivare a dire che in ultima analisi a fondare l'identità di un popolo è la volontà di esserlo. Popolo è chi tale vuole essere. A questo proposito c'è una frase famosa di Ernest Renan, che dice che la nazione altro non è che  «un plebiscito di tutti i giorni».

5. La situazione attuale: distruzione del popolo e dei popoli.

La frase di Renan ci dà lo spunto per fare un accenno alla situazione attuale, partendo da un'evidenza clamorosa: la fine della democrazia, come sistema in cui questa volontà di essere popolo si manifesta attraverso il voto. Il plebiscito di cui parlava Renan, non solo non avviene più tutti i giorni, ma vien disertato anche quando ci sono le elezioni perché il popolo ormai è latitante. Si rifletta sul fatto, enorme e sorprendentemente poco considerato, che nei paesi occidentali ormai praticamente nessun governo, è l'espressione di una maggioranza dei cittadini, spesso neanche della maggioranza di quelli che hanno votato (che sono sempre di meno). Un dato: dal 1976 al 2013, la percentuale dei votanti alle elezioni politiche in Italia è passata dal 93,39 % al 72,25 % e si prevede che alle prossime elezioni sia ancora più bassa, ma nelle elezioni amministrative siamo ormai abituati a percentuali al di sotto del 50 %. L'altro giorno a Ostia, al ballottaggio ha votato il 33 %: vuol dire che il cosiddetto successo grillino (60% dei voti espressi) corrisponde al consenso (di cui una parte faute de mieux) del 20% della popolazione.  
            Non si tratta solo della crisi di un sistema politico, ma di un sintomo di una vera e propria disgregazione del popolo, che non è accidentale, ma è il frutto di un'azione portata avanti ormai da decenni da un potere mondiale. «Perché il potere, oggi (posso anche sbagliare...) ha come scopo, di fatto, la eliminazione del popolo, in quanto unità di uomini che ha uno scopo e che identifica i mezzi per raggiungere questo scopo» (L.Giussani, Affezione e dimora, p.256). Di fronte al potere, infatti, l'individuo è comunque perduto.
            Al di là della palese frammentazione politica, si deve riconoscere che quello che manca ormai sono una cultura e un ethos condivisi dalla maggioranza della popolazione. Occorre a questo punto che spieghiamo brevemente gli altri due termini del nostro titolo: per cultura non si intende qui, la conoscenza, l'istruzione, e nemmeno la “concezione del mondo” in senso puramente teorico, ma piuttosto un sistema complesso che comprende tutte le attività umane, quindi non solo quelle volte alla conoscenza, ma più ampiamente tutte quelle con cui l'uomo si relaziona con il mondo. Gli antropologi ci insegnano che l'uomo è un animale culturale perché tutti i suoi dispositivi di apprendimento e di adattamento all'ambiente, cioè tutti i modi con cui egli entra in rapporto con la realtà esterna, non li desume da se stesso, dalla sua struttura biologica (istinto), ma li trova all'esterno di sé, nella comunità in cui vive, cioè, in definitiva nel popolo.
            A questo concetto di cultura, si aggancia strettamente anche la parola ethos, che è una parola greca e significa propriamente: “abitudine, tradizione, usanza, costume”, e ne sottolinea la valenza pratica e l'aspetto durativo: ethos di un popolo è l'insieme dei convincimenti morali, dei comportamenti ritenuti corretti, dei “modi di fare” accettati, degli habitus in cui gli appartenenti al popolo si riconoscono. Il discorso sarebbe complesso, ma proviamo a semplificarlo così: se consideriamo l'insieme delle azioni che ciascuno di noi può compiere, dalle più semplici alle più complesse, vediamo che esse si possono distinguere in tre categorie: quelle puramente soggettive, dipendenti dalla decisione arbitraria e imprevedibile del singolo individuo; quelle “obbligate” cioè imposte da regole esterne e “oggettive”; infine i comportamenti “abituali”. Non sono le prime, e in fondo neppure le seconde, che fanno la cultura di un popolo, ma le terze sì. Faccio un esempio banale: voi siete qui questa sera ad ascoltare questa lezione. Avete deciso di venire in base ad una vostra libera decisione, potevate benissimo stare a casa: questa è un'azione del primo tipo, che dipende esclusivamente da una vostra scelta del tutto soggettiva. Venendo qui, se avete usato la macchia, aveto compiuto tutta una serie di azioni che invece erano del tutto determinate da una regola esterna (codice della strada), in cui non c'è niente di soggettivo. Ora però siete qui e tutti vi comportate all'incirca allo stesso modo. Perché? Non perché c'è una norma esterna, cogente, giuridica che vi obbliga a farlo, né perché facciate una scelta personale: aderite ad un comportamento che è il “come si fa” in una data circostanza: non vi mettete a camminare per la sala (anche se magari avete voglia di sgranchirvi le gambe), non mi interrompete, non parlate ad alta voce col vicino eccetera eccetera. Seguite un habitus, che è al tempo stesso oggettivo e soggettivo. L'esempio, ripeto, è banale, ma se voi pensate a tutto l'insieme dei “comportamenti accettati”, dei “come si fa” che sono in essere in una determinato contesto sociale avete un'idea di quale sia la sua “cultura”. Si potrebbe fare un esempio molto meno banale se riflettessimo su “come si fa” ad essere una famiglia, tanto per dire.
            Allora potremmo chiederci: considerando la cultura e l'ethos, c'è  (ancora) una condivisione sufficientemente ampia da poterci far dire che sì, nonostante tutto, noi italiani siamo (ancora) un popolo? Per me questa domanda resta aperta, ma il fatto stesso che siamo costretti a porcela e facciamo una gran fatica a darvi una risposta la dice lunga. C'e però un'altra domanda ancora più importante, che invece una risposta ce l'ha. Purtroppo per ragioni di tempo devo solo accennarla.

6. Il popolo cristiano, un'«etnia sui generis».         

Rispetto a tutto quanto abbiamo detto, qual è la nostra posizione come cristiani?
            Innanzitutto noi siamo un popolo. Quindi la risposta alla domanda del titolo, che è dubbia se riferita all'Italia (e negativa se riferita all'Europa), è sicuramente positiva se riferita alla chiesa. A prescindere dal numero: anche se siamo pochi, anche se fossimo pochissimi (i primi cristiani furono pochissimi per secoli). Ma perché lo siamo? Per rispondere dobbiamo tornare a Babele.
            Sgominato il progetto di unire tutti gli uomini in un solo popolo e dare la scalata al cielo, è Dio che prende l'iniziativa di costituire un popolo. Lo fa scegliendo Abramo. Si noti bene: la scelta di Abramo non è la scelta di un individuo, ma di un capostipite, e infatti la prima promessa di Dio è: «farò di te un grande popolo» (Gen 12,2). Israele è il popolo, diverso da tutti gli altri perché il suo fattore costitutivo non è naturale, culturale o politico, ma è l'elezione divina. Gli altri sono “popoli” al plurale (goym), e qui c'è una differenza qualitativa tra il singolare, che è qualificante e il plurale, che invece è generico. Però Israele è un popolo anche in senso culturale e, per un certo periodo della sua storia, anche politico. Ha una sua lingua, usanze proprie, un suo territorio, ha o aspira ad avere autonomia politica, eccetera.
            Nel caso del popolo cristiano le cose stanno diversamente. Anche qui è decisivo, come fattore costitutivo del popolo, non uno dei tre che abbiamo visto sopra, bensì il fatto storico della libera iniziativa di Dio, con l'incarnazione-morte-risurrezione del Figlio e soprattutto con la discesa dello Spirito Santo sui discepoli di Gesù e su Maria. L'origine del popolo cristiano è nell'avvenimento della Pentecoste, raccontato in Atti 2,1-11 in un modo che non a caso ci richiama, per opposizione, l'episodio della torre di Babele:

1 Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. 2Venne all'improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. 3Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, 4e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi.
5Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. 6A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. 7Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: "Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? 8E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? 9Siamo Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell'Asia, 10della Frìgia e della Panfìlia, dell'Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, 11Giudei e prosèliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio".

Questo popolo, dunque, per quanto piccolo e apparentemente marginale (Galilei!), è universale. È l'idea di cattolicità. Abbraccia tutti, comprende tutti, nessuno escluso. Qui l'unitotalità è realizzata veramente. Si noti: le parole degli apostoli raggiungono tutti, ma non annullano le differenze nazionali.
            Diversamente dal popolo ebreo, infatti, questo nuovo popolo di Dio non ha alcun limite politico e culturale. Si potrebbe dire, come fanno i Padri, che è un popolo non-popolo, diverso da tutti gli altri. Così si esprime Origene:

Noi infatti siamo una “non nazione” (Nos enim sumus non gens), noialtri che in pochi da codesta città, in pochi da un’altra, in pochi da un’altra ancora, abbiamo creduto; e dall’inizio della diffusione del messaggio fino ad ora in nessun posto una nazione è giunta intera alla fede. La stirpe cristiana non è una nazione unica e omogenea come era la nazione giudaica o quella egiziana, ma si raduna provenendo in modo sparso dalle singole nazioni. [Origene, hom. in Ps. 36, I,1]

Ci sono dunque due modi di concepirsi come popolo: uno ancorato all’idea di possedere un’identità già data, definita irrevocabilmente, dipendente da una tradizione sedimentata nel passato (guardate che una certa maniera di parlare delle “radici cristiane” corre il rischio di essere questo); l’altro che concepisce l'essere popolo come un processo, una dinamica o, se così possiamo dire prendendo a prestito una formula sociologica molto nota, uno “stato nascente” in cui il non-popolo è sempre nella condizione di essere convocato (perciò si definisce come ἐκκλησία, da ἐκκαλέω); o «radunato» (congregantur / συνάγονται) come dice Origene nel passo sopra citato; o «generato» come ancor più fortemente si esprime in un passo delle Omelie su Geremia.[1] Questa aggregazione è sempre “iniziale”, proprio per il suo essere frutto dell’azione che Dio compie “oggi” e per la sua essenziale libertà da un retaggio identitario che la ancora al passato, e ciò pone il popolo di Dio in una situazione di permanente alterità, se non di contrasto, con tutti i “popoli” in mezzo ai quali vive e dai quali si distingue. È un paradosso: i cristiani sono in mezzo agli altri, non hanno marcatori di identità nazionale evidenti che li distinguano dagli altri (non sono un popolo in quel senso), eppure sono irriducibilmente diversi dagli altri. È questo il senso di un altro brano patristico notissimo, dall'Ad Diognetum:

I cristiani né per paese, né per lingua, né per abbigliamento si distinguono dagli altri uomini. Non abitano città loro proprie, né parlano una lingua diversa da quella degli altri, né conducono una vita che sia fuori delle norma. [...] Ma, pur abitando città greche o barbare, così come a ciascuno è toccato in sorte, pur uniformandosi ai costumi del luogo nell'abito, nel mangiare e nella maniera di vivere, danno prova di un modo sorprendente e, come tutti convengono, paradossale di essere cittadini [politeia: vivere insieme agli altri]. Abitano ciascuno la propria città, ma come stranieri; partecipano a tutto come cittadini ma si adattano a tutto come stranieri. Ogni terra straniera è per loro patria; ogni patria è per loro terra straniera. Come tutti, si sposano e generano figli; ma non gettano via i loro bambini. Hanno una mensa in comune, ma non il letto. Vivono nella carne, ma non secondo la carne. Dimorano sulla terra, ma la loro città è in cielo. [...] Per dirla in breve: ciò che nel corpo è l'anima, i cristiani lo sono per il mondo. [V,1-2.4-9.VI,1]

La forma di questo rapporto del popolo cristiano con tutti gli altri popoli è quella del giudizio, della krisis, o se si vuole del discernimento (purché sia chiaro che il discernimento è giudizio e non fuffa). Non si tratta di sparare sentenze su questo e su quello, ma di porre, nello spazio politico, il fatto della propria diversità.
            Nella condizione politica attuale, di un'Europa ormai fatta di minoranze, visti dall'esterno noi siamo una minoranza tra le altre. Che cosa dobbiamo fare? Essere una minoranza consapevole e una minoranza attiva capace di interagire con le altre nello spazio politico. Con quale modalità? Non appena quella della coesistenza/tolleranza, che è riduttiva; non quella della competizione per l'egemonia, che non ci interessa; ma in quella della krisis intesa come capacità di attivare di una riflessività relazionale, in cui ciascuno impara a concepire se stesso in relazione con l'altro, mettendosi in crisi. Esempio della famiglia: occorre che la famiglia cristiana sia una contestazione permanente dell'abominio che viene perpetrato. Che ogni matrimonio cristiano che viene celebrato sia un atto di guerra culturale. Esempio dei rosari di popolo ai confini: in Polonia, in Irlanda ...
Nel nostro piccolo: il rosario del 20 di ogni mese per i cristiani perseguitati. La consacrazione a Maria dell'8 dicembre. Sono gesti politici.
            Cosa chiedere alla politica? Innanzitutto di lasciarci liberi. Creare le condizioni perché il rapporto tra le minoranze sia libero, rispettoso e fecondo. Se fa questo, è già tanto.




[1] In hom. in Ier. 9,3 (SCh 232, p.384) dove cita ancora Deut. 32,21 in un contesto in cui dice che non ogni popolo (λαός) che si dice popolo di Dio lo è veramente. Il popolo ebraico, infatti, avendo tradito Dio con un non-dio, è stato punito perché Dio lo ha reso geloso di un non-popolo (cioè dei pagani chiamati alla salvezza). «Noi dunque» prosegue Origene, «siamo divenuti per Dio un popolo (λαόν) … venuto dalle nazioni (ἀπὸ τῶν ἐθνῶν). Questo popolo, infatti, viene generato (τίκτεται) tutto insieme (ἀθρόως) …».

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