giovedì 8 marzo 2018

QUAL E' STATO IL CRITERIO DI VOTO DI UN CATTOLICO IL 4 MARZO?



“Chi di voi, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolarne la spesa, se ha i mezzi per portarla a compimento? Per evitare che, se getta le fondamenta e non può finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro. Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda un’ambasceria per la pace. Così chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”.
Lc 14, 28

Ho premesso questa lunga citazione evangelica perché mi sembra insegni una lezione che oggi, evidentemente, molti cattolici hanno dimenticato. Il realismo.

In un articolo di oggi sull’Occidentale, Assuntina Morresi con altri commentatori asserisce che l’irrilevanza cattolica nelle ultime votazioni deriva dal criterio di giudizio di chi vota, indistinguibile dal resto del mondo. Insomma l’essere cattolici non conterebbe per la scelta del partito da votare.
Sono d’accordo solo in parte.
Certo, quello descritto è un fenomeno presente. Ma ho verificato anche altre due tendenze che sono all’opposto di quelle descritte.

La prima è rappresentata da tutti quei veri credenti che sono andati a votare per il centrosinistra o il radicalismo convinti che fosse il meglio per la Chiesa stessa. In altre parole, non hanno votato malgrado l’essere cattolici, ma proprio in quanto cattolici. Non credo di sbagliarmi se dico che anche parecchi sacerdoti e prelati di alto rango abbiano fatto così. Il punto autentico qui è ancora più profondo: quale sia il criterio di voto di un cattolico. Abbiamo visto nella legislatura passata le forze più laiciste varare provvedimenti fortemente anticristiani nel silenzio quasi completo delle gerarchie, e le stesse stigmatizzare violentemente alcuni punti di vista dell’opposizione. Se il criterio di giudizio non sono più i “principi non negoziabili” ma “l’accoglienza”, se la demolizione della dottrina sociale della Chiesa è un particolare e l’indice è invece puntato su una concezione della vita diciamo “borghese”, allora uno può in coscienza votare anche chi la Chiesa non ha mai fatto mistero di volerla distruggere, salvo usarla quando ne ha bisogno.
Si dimentichino allora leggi e provvedimenti o, peggio ancora, li si consideri il prezzo da pagare ad un certo “progresso” che si vuole inarrestabile, scordando del tutto la speranza cristiana. Si può pure dire che i momenti politici più significativi degli ultimi anni siano i discorsi di un paio di Presidenti al Meeting, ma occorre avere una memoria davvero selettiva.

A mio parere, avere fatto questa scelta consciamente rappresenta un atto di cecità totale, se veramente si tiene alla Chiesa. E’ un mio giudizio che si basa sull’analisi realistica dei fatti e delle circostanze, di cui sono ragionevolmente certo. Ma, appunto, è un giudizio mio: e io non ho la verità in tasca. Così non posso incolpare chi si è limitato a seguire pastori e persone autorevoli con un pensiero opposto a quello che ho.
La seconda tendenza è quella di cui ho già parlato: marciare sotto la bandiera dei duri e puri verso la sconfitta. Rileggiamoci pure l’incipit di questo post: se la torre fosse quella della chiesa, se il re fosse ipercattolicissimo e i nemici biechi infedeli, il costruire e il marciare rimarrebbero comunque un’idiozia. Se il nome del gioco è “portiamo qualcuno in Parlamento”, non essere riusciti a farlo vuol dire irrilevanza. Mi fa piacere che ci si sia trovati, si sia lavorato, che si sia fatta una bella esperienza: si è comunque perso rovinosamente, e non serve accusare altri, perché il nome del gioco è quello. Se non sai giocare meglio degli altri, perdi.
E’ come se una squadra fosse sconfitta 20 a 0 e si consolasse dicendo “però a centrocampo abbiamo fatto dei bei passaggi, e avevamo l’arbitro contro”. Non è una partita che mi piacerebbe guardare. E neanche rigiocare, dato che se prima ci si poteva illudere ora sappiamo i valori in campo. Sì, lo so che occorre essere liberi dall’esito. Ma non si deve essere liberi dal fine.
Realismo vuol dire che non è il martirio ricercato che fa santi, e neanche dà testimonianza. Il cristiano costruisce, non è un talebano suicida.
Va bene, commentatori ne hanno lodato la novità: sarò sincero, se un certo partito avesse contribuito a fare eleggere una mezza dozzina di parlamentari sarebbe qualcosa di cui persino le opposizioni dovrebbero tenere conto per tenerlo buono. Specie se questi eletti fossero di segno diametralmente opposto a quelli che quel partito candidava.
Tiro le conclusioni, sperando di non avere offeso nessuno mentre cercavo di sviluppare il ragionamento.
Realismo vuol dire guardare in faccia ai fatti. Quello che è successo nella scorsa legislatura. Quello che è successo alle elezioni. La legge elettorale. Le ragioni di tutti. La vita.
Il pezzo del Vangelo che ho messo all’inizio termina con “chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”. Averi può essere inteso non solo in senso materiale, ma anche tutte le convinzioni, i pre-concetti che si possiedono. Realismo, appunto.
Naturalmente, mi ci metto anch’io. Se ho sbagliato nel mio giudizio, saranno il tempo e i fatti a smentirmi.
Nel frattempo, pensiamo a cosa fare per uscire da questo pantano, tenendo conto che la politica è un mezzo, non il fine. Terminare davvero il lavoro che ci è stato dato. Senza sogni, senza illusioni. Realisticamente.
Antonio\Berlicche

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