venerdì 14 settembre 2018

LA GENTE SI CHIEDEVA: MA CHI SONO?


LA NUOVA EUROPA

25 agosto 1968, piazza Rossa, otto protestano contro i carri armati a Praga. L’invasione ha spezzato le speranze di cambiamento e la voglia di lottare. Ma davanti all’apatia generale, il loro gesto affermava che è la persona a rendere lecita la speranza.

«Adesso abbiamo per lo meno sette* motivi
per non nutrire odio verso i russi»
(giornale ceco Literární Listy, 1968)

25 agosto 1968, Mosca, piazza Rossa, mezzogiorno.
Konstantin Babickij, Tat’jana Baeva, Larisa Bogoraz, Natal’ja Gorbanevskaja, Vadim Delone, Vladimir Dremljuga, Pavel Litvinov, Viktor Fajnberg alle 12 precise hanno spiegato dei cartelli con delle scritte: «Perdiamo gli amici migliori», «Viva la Cecoslovacchia libera e indipendente!», «Occupanti, vergogna!», «Giù le mani dalla Repubblica cecoslovacca!», «Per la vostra e la nostra libertà!», «Dubček libero!».


Tat’jana Baeva ricorda: «Le 12. Mezzogiorno. Ci siamo seduti… All’inizio, per 3-5 minuti solo i passanti ci stanno attorno, sconcertati. Nataša col braccio disteso sventola una bandierina cecoslovacca. Parla di libertà, della Cecoslovacchia. La folla è muta. D’un tratto un fischio e dalla parte del Mausoleo accorrono sei o sette uomini in borghese; mi sembrano tutti alti, fra i 26 e i 30 anni. Ci aggrediscono gridando: “Si sono venduti per i dollari!”. Strappano i cartelli, e dopo un minuto di imbarazzo, anche la bandierina. Uno di loro grida: “Dagli all’ebreo!” e si mette a picchiare Fajnberg sul volto, con i piedi. Konstantin cerca di proteggerlo col proprio corpo. Si vede del sangue. Io sobbalzo per lo spavento. Un altro colpisce Pavel con la borsa. La gente guarda con approvazione, solo una donna esclama: “Ma perché picchiarli?!”».

Le ultime parole di Larisa Bogoraz al processo, 11 ottobre 1968
«Nella mia ultima parola non ho la possibilità, qui ed ora, né l’intenzione di argomentare la mia posizione sulla questione cecoslovacca. Vorrei parlare solo delle motivazioni personali del mio gesto. Perché io “non essendo d’accordo con la decisione del Partito e del governo sovietico di mandare le truppe nella Repubblica cecoslovacca”, non mi sono limitata a consegnare una dichiarazione scritta al mio Istituto, ma sono andata sulla piazza Rossa?

(…) Il mio non è stato un gesto impulsivo. Ho agito consapevolmente, rendendomi perfettamente conto delle conseguenze. Io amo la vita e apprezzo la libertà, e capivo bene di rischiare la libertà, e non avrei voluto perderla. Non penso di essere un’attivista civile; la vita pubblica non è assolutamente l’aspetto più importante e più interessante della mia vita. Tanto meno la politica. Per decidere di partecipare alla dimostrazione ho dovuto superare la mia inerzia, la mia avversione per le azioni pubbliche.

Avrei preferito fare in altro modo. Avrei preferito sostenere persone famose per la loro professione o la loro posizione pubblica, che la pensassero come me. Avrei preferito unire la mia voce ignota alla loro protesta. Ma nel nostro paese non si sono trovate figure del genere. E ciò nonostante, le mie opinioni non sono cambiate per questo.

Così mi sono trovata davanti a una scelta: protestare o tacere. 
Per me tacere significava associarmi a chi approva azioni che disapprovo. Tacere significava mentire. Non penso che il mio modo d’agire sia l’unico giusto, ma per me era l’unica decisione possibile. Non mi bastava sapere che non avevo votato “a favore”, per me era importante il fatto che sarebbe mancata la mia voce “contro”. Sono stati proprio i meeting, la radio e la stampa che esprimevano il sostegno generale a farmi dire: no, io sono contro; non sono d’accordo. Se non avessi fatto quello che ho fatto, mi sarei sentita responsabile delle azioni del governo, proprio allo stesso modo in cui tutti i cittadini adulti del nostro paese portano la responsabilità degli atti del nostro governo; allo stesso modo in cui tutto il nostro popolo porta la responsabilità dei lager di Stalin e Berija, delle condanne a morte [viene interrotta ndt].

E poi facevo un’altra considerazione contro il fatto di andare alla dimostrazione, ed era il pensiero che l’azione non avrebbe avuto alcuna utilità pratica. Ma alla fine ho deciso che non era questione di utilità, il punto era la mia responsabilità personale. 



(…) Il procuratore ha terminato il suo discorso esprimendo la previsione che la condanna da lui proposta sarà approvata dall’opinione pubblica.
Il tribunale non dipende dall’opinione pubblica ma deve applicare la legge. Per altro sono d’accordo col procuratore: non ho dubbi che l’opinione pubblica approverà la sentenza, così come ha approvato sentenze analoghe in precedenza, come approverebbe qualsiasi sentenza in generale. L’opinione pubblica approverà i 3 anni di lager al giovane poeta, i 3 anni di confino al valente scienziato. L’opinione pubblica approverà le condanne innanzitutto perché le saremo presentati come parassiti, rinnegati e quinta colonna di ideologie ostili. E secondariamente perché qualsiasi persona che avesse un’opinione diversa dall’opinione generale e osasse esprimerla, finirebbe ben presto su questa sedia d’imputato. L’opinione pubblica approverà che si castighi una dimostrazione pacifica fatta da un pugno di persone.

Ieri, nella mia autodifesa, a tutela dei miei interessi, ho chiesto alla corte un verdetto di assoluzione. Anche ora non ho dubbi che l’unico verdetto equo e legale sarebbe quello assolutorio. Conosco la legge. Ma conosco anche la prassi giudiziaria, per questo oggi, nella mia ultima parola, non chiedo nulla alla corte».

NOTE
*: In un primo momento si era detto che erano in sette

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