sabato 1 dicembre 2018

BERTOLUCCI, L’AEDO DEL NULLA COSMICO



Morto il regista, parte l’encomio: un genio, un maestro, l’ultimo imperatore del cinema. Stiamo parlando dello stesso signore, affetto da sessantottismo permanente? Quello di “Novecento”, in cui anche i cavalli cacavano bombe di sterco per bombardare i crumiri?

Morto Bernardo Bertolucci sono partiti gli encomi quasi fossero lampadine del presepe: un genio, un maestro, l’ultimo imperatore del cinema. Non concordo. Non ho visto molti film di Bertolucci. Ultimo Tango a Parigi non l’ho mai visto. L’ultimo imperatore l’ho visto alla tivù ma non mi ricordo gran che. Ho visto invece Novecento, al cinema, con un amico, attirato da un successo di pubblico travolgente. Era il 1976 e all’uscita litigai subito con quell’amico che ne tesseva le lodi. Contrariamente a L’ultimo imperatore di quel film mi ricordo parecchie cose.

LA CONTADINA #METOO E IL CAPITALISTA SFIGATO
Ricordo che il vecchio padrone sapeva ancora parlare e capire i contadini ma era ormai impotente, figura di un capitalismo destinato a morire, ricordo che il giovane capitalista, suo figlio, non sapeva più parlare ai contadini ma aveva introdotto le macchine. Ricordo che le macchine (la proprietà dei mezzi di produzione) avevano aperto la strada alla coscienza di classe dei contadini con la conseguente inevitabile lotta. Le contadine erano, agli inizi del 900, come le donne di #MeToo avrebbero desiderato di essere solo un secolo dopo: intrepide, pronte a opporsi, unite e a testa alta contro l’avanzare della violenza fascista (e inevitabilmente maschilista). Anita (Stefania Sandrelli) contadina dei primi anni del Novecento e amante di Olmo (Gérard Depardieu) era come ogni femminista degli anni 80 avrebbe voluto essere: l’eroina di se stessa. Giovane, carina, cosciente di sé e della storia, ogni sua inquadratura era circondata da aureole di luce. Della sua cosa faceva quel che voleva in barba alle convenzioni sociali e religiose (l’utero è mio e lo gestisco io). Il nipote del vecchio padrone capitalista (Robert De Niro) era ricco ed era un po’ amico e un po’ molto invidioso del nipote (Gérard Depardieu) del vecchio capofamiglia contadino (Sterling Hayden). Gérard Depardieu (Olmo) era povero ma intrepido, sfrontato e coraggioso. I giochi li conduceva lui. Diventerà un capo partigiano. Robert De Niro diventerà uno sfigato.

LA MESSA CANTATA FACENDO ALL’AMORE
Tutti sanno che la chiesa, almeno fin dopo la metà del Novecento, era l’intellettuale organico del popolo. Lo sapeva, per dire, Ludovico Geymonat, marxista filosofo della scienza che a un suo esame mi contestò aspramente la capillarità e capacità della chiesa di entrare in ogni piega della mente della gente, avvolgendola e piegandola al proprio dominio: prediche in ogni quartiere di ogni paese ogni domenica, orizzonte visivo con cappellette votive in ogni dove, simboli religiosi al nascere e al morire, giorni e periodi dell’anno scanditi in rifermento ai santi, festività religiose, pratiche pie, novene, precetti e comandamenti a reggere il vivere quotidiano.
Non lo sapeva Bertolucci: non ricordo di aver visto mai in 
Novecento un simbolo religioso: non un’immagine di santi in un qualche angolo di casa di contadini, non una madonna, non un crocifisso, mai una preghiera prima di sedersi a tavola o di incominciare o di finire una giornata. Figurarsi l’andare a messa. Ci fu, se ricordo bene, un richiamo al Natale, ma solo per dire che Olmo (Gérard Depardieu) e Anita (Stefania Sandrelli) lo festeggiavano da giovani focosi facendo all’amore: quella era la loro messa cantata. Ma già, marxianamente parlando, era o non era il corpo l’unica e ultima proprietà lasciata ai proletari? Poi, sempre se ricordo bene, ci fu anche un rimando a una figura di prete, ma solo per dire che andava a pranzo e a cena in casa del padrone. Da mantenuto.



IL FASCIO STUPRATORE E SFRACELLABAMBINI
Ricordo che c’era un fascista (Donald Sutherland) e come fascista non poteva che essere abbietto violento e schifoso. Pareva che il male dell’intero universo l’avesse preso di mira e gli fosse entrato in corpo: stupratore di bambini (con l’inquadratura, se ricordo bene, dei pesanti lividi sul piccolo culetto del bambinello di turno) si divertiva a concludere l’opera facendoli roteare per i piedi fin a sfracellargli la testa contro le pareti della stanza dove aveva da poco finito di divertirsi. Anche la relazione con la sua donna e complice, Regina (Laura Betti), aveva un che di viscido e strisciante. E anche con il nome non gli era andata bene: faceva Attila.
Ricordo che mio papà Antonio era per il duce. Quando provai a chiedergli il perché, rispose: «Allora erano tutti per il duce». Ricordo che la cosa più crudele che gli vidi fare fu di tagliare la coda a un barboncino che mi aveva regalato. Quando gli chiesi il perché, rispose: «Lo fanno tutti».
Ricordo che anche mia madre Carla era per il duce. Andava alle adunate della Gioventù del Littorio. Le piaceva sentirsi bella con la sua camicetta tutta bianca e pulita e la divisa. Marciare sotto gli occhi di tutti. Persone normali, di cui non ho mai dovuto vergognarmi.

DECENNI DI DORMIVEGLIA
Ricordo che in Novecento la storia avanzava travolgente verso il socialismo in un tripudio di bandiere rosse, e che anche la natura che alleava alla storia, con i cavalli che cacavano nelle mani dei contadini le palle di sterco con le quali i contadini avrebbero poi bombardato i crumiri.
E chissà se ci sia mai stata una qualche contraddizione nell’andare a prendersi i divi internazionali più strapagati di quegli anni 70 e nel farsi finanziare dalla Paramount per stare dalla parte degli oppressi (la Paramount salutò 
Novecento come «un ideale ponte tra Hollywood e il comunismo»).
Non molto tempo fa, in un’intervista è stato chiesto a Bertolucci: «È vero che per lei il ’68 è stato un sogno? Il suo sogno?». Bertolucci: «Sì, ma non bisogna parlare al passato. Ancora adesso è il mio sogno. Anzi direi meglio che sogno. Il ’68 fino ad adesso per me è quello stato che sta tra il sonno e la veglia. In francese si direbbe: réveiller». In altre parole Bernardo Bertolucci il genio, il maestro, l’ultimo imperatore del cinema, è rimasto per tutti questi decenni in quello stato in cui non si capisce un cazzo. Appunto.

Foto Ansa
Emiliano Ronzoni  Tempi 28 novembre 2018 

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