sabato 1 dicembre 2018

RADIOGRAFIA DELLA "NEW CLASS" DOMINANTE


Questo intervento, tratto da www.list, è chiarificatore per comprendere cosa sta avvenendo oggi.  L'articolo è lungo ma l'invito a leggerlo è pressante.
Marco Gervasoni
È ricominciata la lotta di classe, ma le parti non sono più quelle di un tempo. 
Marco Gervasoni esplora la "nuova classe" del 10 per cento.
Ricca, cosmopolita, sempre in jet, si contrappone alla "classe nazionale" o "periferica".
La collisione tra la "gauche kérosène" e i gilet gialli in diesel. Storia, libri, immaginario e conflitto.
WEBLIST - 28 NOVEMBRe

La lotta di classe è ricominciata e non so come abbigliarmi. Anche perché le parti in commedia non sono le più le stesse di un tempo. A rappresentare gli operai è infatti ormai più la destra nazional-populista che la sinistra, il cui cuore batte ora per i «padroni», soprattutto finanzieri e grandi banchieri. Però non è così semplice. Padroni, operai e via dicendo non rimandano più da tempo a quello che tali parole significavano nel Novecento.
 Il declino o (per i più pessimisti) il crollo delle classe media, cominciato dopo il 1989 e acceleratosi dopo il 2008, ha infatti lasciato sul terreno due campi. 
Il primo è quello che chiameremo, con Angelo Codevilla (The ruling class, Beaufort Books, 2010) la country class (classe nazionale) o, con Christophe Guilluy (La France périphérique, Flammarion, 2014) la classe periferica, cioè operai, impiegati, precari, piccoli imprenditori: periferica rispetto ai circuiti della globalizzazione, di cui subisce solo gli svantaggi, ai centri decisionali urbani e alla ideologia mainstream. 

L’altro campo è quello della classe dominante nel senso di ruling class, mentre Guilluy la definisce d’en haute.  (Cfr. il suo Le crépuscule de la France d’en haute, Flammarion, 2016). Quantitativamente è costituita da un 10 per cento della popolazione ma la sua collocazione centrale, nel mondo della globalizzazione, della finanza, dell’industria hi tech, della grande impresa, della comunicazione, dei media ne fa un blocco molto solido, assai più omogeneo in termini ideologici rispetto alla classe periferica. 
Nelle ultime settimane entrambe sono scese in piazza. Una, per la precisione, in strada, in Francia: i gilet jaunes non sono infatti che il movimento di avanguardia della classe periferica o country class. Mentre qualche giorno prima a Torino abbiamo visto sfilare, per la Tav (progetto peraltro da sostenere) l’avanguardia della classe d’en haute. Niente di più limitato che vedervi una nuova marcia dei 40 mila. E niente di più sbagliato che interpretarla come una riscossa della borghesia.
  
Ma di quale borghesia si va parlando? La borghesia è finita dopo la Prima guerra mondiale a Davos, non nel centro congressi dei festival della globalizzazione ma nel sanatorio Berghof: dove si svolge la storia della Montagna incantata di Thomas Mann. E a teorizzarne la scomparsa nel romanzo è il gesuita Naphta, che nella vita reale altri non era che il filosofo marxista Gyorgy Lukacs, negli scritti di critica letteraria tutto impegnato a descrivere ascesa e declino della borghesia. Dopo la borghesia e dopo la Seconda guerra mondiale nacque quindi la classe media che progressivamente ma con successo attirò una parte sempre più larga della società. Ma anch’essa, c’est fini. 

Dallo spappolamento della classe media ne sono uscite la classe periferica e quella d’en haute. Di quest'ultima parleremo ora: e la chiameremo  «nuova classe».


Per cercare le origini della nuova classe dobbiamo partire dalla diagnosi, fatta in piena Seconda guerra mondiale, di James Burnham, saggista statunitense allora in uscita dal trotzkismo americano, che descrive la nascita di una nuova società, post capitalistica, in cui l’espansione dello Stato e della burocrazia farà crescere una nuova classe sociale, i manager - che nella traduzione italiana del suo libro, The managerial revolution, sarebbero diventati i tecnici: la rivoluzione dei tecnici. 
Spostiamoci di pochi anni, nel 1957, e nella Jugoslavia titina: qui il dirigente della Lega dei comunisti, Milovan Gilas, vice di Tito recentemente caduto in disgrazia, nel suo libro Nova Klasa, subito tradotto in italiano con il titolo La nuova classe, offre una spietata analisi del modello comunista, alla base della nascita di una nuova classe, la burocrazia del partito, che si arricchirebbe sfruttando, in senso propriamente marxista, i produttori sottomessi. 

Sembrano esempi lontani, ma non lo sono più di tanto. Burnham e Gilas influenzano profondamente quegli studiosi americani che, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, cominciano a descrivere l’emersione di una new class. La nuova classe, affermatasi con la globalizzazione, è cresciuta infatti grazie a un rapporto molto stretto con le burocrazie e gli apparati: si muove come un pesce nell’acqua della regolamentazione. Spesso si tratta della burocrazia dello Stato (la globalizzazione ha infatti sempre bisogno della forza e del potere dello Stato) ma altrettanto spesso di quella propria di strutture sovranazionali (Ue, Ocse, Fmi).  La conferma l’abbiamo con la Cina: la classe imprenditoriale li è spuntata, come Minerva dalla testa di Giove, dalla burocrazia del Partito comunista cinese, da cui è ancora oggi inseparabile. 

Altro che i Robber barons della gilded age di fine Ottocento, o l’imprenditore schumpeteriano o quello esaltato dai libertariancome Rothbard, in lotta contro lo Stato: la nuova classe, come scrive Codevilla in The ruling class, in modo diretto o indiretto, dipende quasi sempre dal governo federale. Da lì la sua propensione, negli Usa a votare i Democratici, in Europa a appoggiare i partiti progressisti o almeno quelli più legati all'espansione del federalismo europeo, cioè di un super stato ultraregolato. Ma non è solo questo elemento che rende la new class sostenitrice della gauche kerosène, per dirla con Jean-Claude Michéa. Lo vedremo. 

La migliore lista degli appartenenti a questa new class l’ha stesa, nel 1995, Christopher Lasch nel suo La ribellione delle élite: «Brokers, banchieri, promotori immobiliari, ingegneri, consulenti, sistemisti, analisti, scienziati, dottori, pubblicitari, editori, giornalisti, creatori di eventi, registi, intrattenitori, attori, cantanti, produttori televisivi, scrittori, professori universitari». Il numero potrebbe ridursi o estendersi a  seconda della latitudine: in Europa per esempio nel catalogo andrebbero inseriti anche i numerosi funzionari medio alti dello Stato e delle varie agenzie internazionali. In ogni modo, non sembra di scorgervi le madamine di Torino, o i frequentatori  della Leopolde renziane (almeno le prime) e le, peraltro rare, manifestazioni di En Marche

Lasch non amava la definizione new class. Forse perché il sommo Christopher era rimasto legato alla sua nozione marxista e vedeva questo gruppo troppo eterogeneo per definirlo in tal modo, preferendogli infatti il termine di nuova élite. Vero però è che occorre distinguere in questo vastissimo blocco. Ci aiuta, almeno sul versante statunitense, il sociologo urbano Joel Kotkin (The New class conflict, Telos press, 2014). Più che nuova classe, lo studioso preferisce definirla «nuova oligarchia» , la cui forza dipende essenzialmente  dall’industria del consumo, «media pubblicità e intrattenimento», dalla comunicazione e della tecnologia: tutti eredi della società post materialista descritta negli anni Settanta da Roland Inglehart, negli Usa  concentrati in California (e soprattutto nella Silicon Valley) e a New York.

I nuovi oligarchi post materialisti hanno bisogno però di altri gruppi sociali, cooptati nei loro entourage, ma non fino al punto di renderli uguali a loro. Sono gli appartenenti al Clerisy, i sacerdoti laici che officiano il nuovo culto della società mondialista: universitari, operatori dei media, giornalisti e attori del campo no profit. Questo clero (clercs, nel senso di Julian Benda) ha il compito di costruire e trasmettere una visione del mondo che giustifichi, confermi e rafforzi il potere della oligarchia, attraverso l’ideologia della società aperta, fondata su parole chiave: progresso, apertura, individualismo. 

Un «gentry liberalism» (liberalismo per agiati) lo definisce Kotkin,  un «progressismo» lo aveva chiamato, ben prima dell’arrivo di Macron, Michéa (Le Complexe d'Orphée: la gauche, les gens ordinaires et la religion du progrès, Climats, 2011). Una progressive class, scrive Codevilla, legata al culto della competenza e della scienza, che essa utilizza per distinguersi dal resto della società, mentre non ama particolarmente la religione, da cui si sente distante, e anche la famiglia tradizionale, considerate entrambe, fede e tradizione, come macigni rispetto al libero emanciparsi dell’individuo. 

Che meraviglia, si dirà. Rispetto alla classe dominante un tempo, conservatrice, retriva, codina, legata ai valori tradizionali, all'autorità persino all’autoritarismo, abbiamo invece ora una nuova classe amante del coolbobodecontracté, aperta, senza cravatta e persino senza camicia, i cui leader sono vestiti come teen ager (secondo il perfido ritratto di Zuckerberg dipinto dal Premio Pulitzer del Wall Street Journal, Peggy Noonan).
Una new class dedita alla libertà e alla uguaglianza, che infatti vota i Democratici in Usa, Macron in Francia, il Pd in Italia, la Spd (sempre meno) e i Verdi in Germania, era entusiasta della terza via nel Regno Unito ma voterebbe persino Corbyn, anche se con forti mal di pancia. Una new class intenta ad aprire la società sempre di più, alla libertà e alla uguaglianza, intesa però, si badi bene, in senso meritocratico. Uguaglianza ai punti di partenza! Ma chi non ce la dovesse fare, avrebbe comunque «giustizia» sociale: nessuno sarà lasciato indietro.

Se ritenete questa immagine realistica e plausibile, significa che i clercs di cui parla Kotkin hanno lavorato bene (sono pagati per questo). In realtà, da quando questa new class è diventata dominante, le società occidentali si sono fatte più diseguali al loro interno e, dal nostro punto di vista, persino meno libere.  
Questa nuova oligarchia ha espulso dalle città e dai centri urbani quelle che un tempo erano le classi medie e popolari: e quando non le ha escluse, ha creato a propria protezione delle cittadelle chiuse, modificando profondamente senso e ruolo millenario della città, come ci raccontano Kotkin e Guilluy.
 Quanto alla meritocrazia tanto sbandierata, ci spiega Richard Reeves (Dream Hoarders: How the American Upper Middle Class Is Leaving Everyone Else in the Dust, Brooking Istintute, 2017) che la new class ha contributo a trasformare quella americana in una società di classe nel senso europeo: soprattutto dopo essersi impadronita del sistema educativo. Con le sue condotte individualistiche, sradicata com’è da un territorio e da un luogo, perché lavora e opera su un piano globale e mondiale, la nuova classe ha indebolito lo spirito di comunità e i corpi intermedi, creando quello che in giapponese si chiama keiretsu, una combinazione di gerarchie intrecciate tra loro.  

Più che alla borghesia, la new class assomiglia molto di più a una oligarchia controrivoluzionaria che, ritiene Guilluy, disprezza profondamente il popolo, cioè chi è estraneo ai suoi circoli ristretti. In luogo di  disprezzo, si tratta secondo noi di indifferenza: indebolita la comunità nazionale, non rimpiazzata da alcun altro tipo di comunità solidale, la new class non vede proprio i suoi compatrioti (il sentimento di patria gli è assente), che percepisce assai più lontani, ad esempio, degli immigrati. I suoi concittadini sfortunati se la sarebbero cercata, perché non si sarebbero impegnati nella vita, nel lavoro e negli studi: gli immigrati sarebbero invece gli ultimi, gli sfruttati, gli umiliati e offesi, da aiutare a ogni costo.

E qui la cosa si complica. Per questo intreccio di buon cuore e egoismo, di convinzione di muoversi dalla parte giusta della storia nel mentre tiene condotte che vanno nella direzione opposta, per la new class, oltre ad un moralista che punti il dito sulla sua ipocrisia, ci vorrebbe un buon psichiatra. E infatti le inchieste dei sociologi americani su alcuni elementi di questa new class rivelano una grande confusione mentale.
Per Anand Giridharadas (Winners take all. The élite charada of changing the World,  Knopf, 2018) i «vincitori che prendono tutto» possiedono una concezione della società ultra individualistica che, al confronto, i romanzi di Ayn Rand sembrano un elogio del collettivismo. La new class vorrebbe infatti ridurre a zero tutte le funzioni dello Stato, e soprattuto i suoi servizi, da trasformare in attività di mercato, in business. E fin qui nulla di inedito. Nuovo è che la new class vorrebbe che la società si trasformasse in una Market Society totale perché solo questa via potrebbe veramente fare fronte alle diseguaglianze. I vincitori infatti si devono far carico di chi è rimasto indietro: secondo alcuni, come Mattew Bishop e Michael Green, autori del best seller Philantrocapitalist: how the rich can save the world, attraverso la nuova filantropia, nuova perché non concepita alla stregua di attività gratuita, come quella delle dame patronesse della borghesia d’antan, ma perché legata a reti imprenditoriali: faccio del bene e ci guadagno pure. Secondo altri, invece, un buon reddito di cittadinanza, cioè il basic income, risolverà la questione: finanziandolo, beninteso, grazie al taglio di ogni forma di welfare. Per la new class il liberismo è di sinistra, senza dubbio. 
Un quadro delle ansie e persino della schizofrenia di questi nuovi oligarchi lo fornisce in modo ancora più puntuale Rachel Sherman (Uneasy Streets: the Anxieties of Affluence, Princeton University press, 2017). Gli esponenti della new classsono «impegnati in una lotta competitiva per il proprio status e per la loro distinzione», assai più delle classi affluenti americane precedenti, un combattimento per lo status di ceto, quasi in senso feudale; essi sono felici e orgogliosi dei loro «privilegi» ma al tempo stesso, sentono di dover agire da  «attori morali». Dove la moralità starebbe nel rifuggere il consumo vistoso e ostentato, e nel votare prevalentemente a sinistra, persino a sinistra della sinistra (Sanders), pur restando «economicamente conservatori». Dove non c’è più traccia della vecchia etica calvinista, la nuova classe è assai poco religiosa, e considera i valori della famiglia tradizionale un orpello del passato. 

Gli oligarchi della società aperta, come scrive il giurista Frank Herbert Buckley (The Republican Workers Party, Encounter Books, 2018), sono: «Borboni che credono di essere giacobini. Vivono immersi in un sinistrismo radicale, mentre pensano e agiscono come una classe patrizia a cui la sinistra del passato si sarebbe strenuamente opposta: ci spiegano che l’aristocrazia del merito sarebbe cosa naturale e che essi faranno di tutto per restare in cima al totem».

    Cinque brevi considerazioni politiche:
1)  La società europea è destinata ad assomigliare sempre più a quella americana: da noi le classi dominanti saranno sempre più new class; è già ad esempio così in Francia, Regno Unito, Germania. 
2) Problema per i partiti popolari e conservatori mainstream: o smettono di essere moderati e conservatori, perché la nuova classe detesta i valori conservatori, o cercano di ritrovare la radice popolare (e populista) presente nella tradizione conservatrice, e si alleano con i nazionalisti. Terza via: spariscono.
3) Problema per i partiti socialisti: in questa fase di transizione, la new class vota ancora in parte per loro. Ma il contrasto tra  gli interessi dell’oligarchia del 10 per cento e la sua visione del mondo le fa già preferire altre formazioni, meno dipendenti dal rapporto con le classi periferiche, la country class o il peuple central, che i socialisti si ostinano a pensare di poter rappresentare. Molto meglio per la new class i verdi, i partiti liberali (quelli però «progressisti») e i macronisti.
4) I sovranisti o nazional populisti hanno potenzialmente davanti a loro la rappresentanza della maggioranza del paese: la country class. Hanno però contro i clercs (media, giornali, mondo dello spettacolo e della comunicazione),  quello che Michéa chiama il Partito dei Media e del Denaro, e le varie tecno-burocrazie, che in Europa pesano assai più che in Usa. Lagauche kerosène adorata dalla new class è infatti profondamente minoritaria, ma possiede un forte egemonia nella diffusione dei simboli, dei miti, delle credenze. Ed è alleata oggettiva con il blocco di potere della tecno-burocrazia europea e delle sue organizzazioni. Non sono avversari da poco. Ciò richiede ai nazional-populisti saggezza, sagacia e prudenza. Richiede loro di provare a penetrare nelle cittadelle della costruzione della egemonia e di affrontare la tecno-burocrazia europeistica con una strategia intelligente, con la teoria del partigiano di Carl Schmitt, invece che con il napoleonico cozzo frontale. Perché la tecno-burocrazia possiede meno uomini, ma armi più potenti e sofisticate.
5) Quello che a cui assistiamo è un conflitto tra oligarchia e oclocrazia, il comando dei privilegiati  contro quello della moltitudine. È arché contro crazia: il potere della prima, secondo il filosofo gesuita polacco Eric Przywara, appare come sensato, razionale e logico, con le sue leggi intangibili, mentre quello della seconda è una forzatura, uno strappo, una follia - una «presa di possesso» in senso schmittiano. Vincerà chi saprà ripristinare il solo governo naturale e giusto delle comunità politiche, quello misto di Aristotele e di Tommaso d'Aquino: l’incontro virtuoso tra monarchia, aristocrazia e democrazia, tra il potere di un capo, quello di una élite e quello della maggioranza del popolo. 

Foto ANSA


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