mercoledì 21 agosto 2019

IL PAPA IN CAMPO


In una intervista alla stampa una sintesi delle tesi politiche del Papa
L’intervista concessa alla “Stampa” il 9 agosto è il più esplicito e organico pronunciamento politico in tutto il pontificato di papa Francesco.Questo intervento ha ovviamente sollevato  le opinioni più controverse.  Luca Ricolfi,sociologo, rispondendo ad una domanda sui pronunciamenti del Papa in tema di Europa e Sovranismi ha risposto: “La sua testa politica funziona come quella di un terzomondista degli anni sessanta, che una macchina del tempo ha trasportato ai giorni nostri”. E Marcello Veneziani ha affermato che c’è un “propagandista di sinistra finito in Vaticano con un incarico ancora non ben definito, oltre quello di commissario liquidatore della cristianità.” Sulla stampa laicista e progressista di sinistra l’intervista è stata accolta con soddisfazione come un atto atteso e dovuto in un momento in cui i sovranisti vogliono la guerra e il ritorno del nazismo (“il Papa non si critica”).
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RIPORTIAMO QUI UNA LETTURA POLITICA DI  EUGENIO CAPOZZI APPARSA SUL SITO ON LINE DE L’OCCIDENTALE
IN FONDO AL POST L’INTERVISTA ALLA STAMPA
 
L’intervista concessa alla “Stampa” il 9 agosto è il più esplicito e organico pronunciamento politico in tutto il pontificato di papa Francesco. Nella conversazione il papa riprende molti temi su cui già in precedenza molte volte si era soffermato. Ma mai fino ad ora egli aveva raccolto le sue tesi sui principali temi della politica europea e mondiale in una sintesi unitaria così completa: dallo stato dell’integrazione europea all’immigrazione, dalla dialettica globalismo/sovranismi alla salvaguardia dell’ambiente.
Non solo: negli ultimi decenni, almeno a partire dal pontificato di Pio XII, nessun papa era entrato così sistematicamente nel merito di tutte le principali questioni politiche dibattute in Occidente e in Europa, inclusi gli affari interni italiani. Nel suo programma di “Chiesa in uscita” e di nuova evangelizzazione in un Occidente sempre più secolarizzato ed anzi anticristiano, Jorge Bergoglio sta attuando uno sforzo senza precedenti per qualificare la Chiesa cattolica come attore protagonista dei grandi mutamenti globali, portatore diretto di risposte, speranza, fiducia per popoli angosciati in un’epoca di incertezza.
Si tratta di una scelta decisa che forza fino al limite il confine labile tra la predicazione del Regno di Dio e l’impegno per specifici obiettivi da misurarsi nella sfera secolare. Un confine molto spesso ambiguo, che ha dato luogo in passato ad equivoci pericolosi. Come nella fase tormentata del post-Concilio, in cui, in anni di grandi movimenti e sommovimenti,  la tentazione di abbracciare ideali di liberazione, progresso, uguaglianza, sviluppo tutti inscritti nel segno delle ideologie condusse la Chiesa e il mondo cattolico a gravi sbandamenti e lacerazioni, ai quali soltanto la sapienza e l’equilibrio di papa Paolo VI e la nascita di movimenti nel segno di un ritorno allo spirito originario della comunione ecclesiale posero un argine.
I rischi di una ripresa, sia pur in un contesto diverso, di una linea di impegno politico tutto “terreno” per la Chiesa sono dunque da non sottovalutare. Per evitarli, sarebbe necessaria all’interno di essa una riflessione meditata e approfondita sui temi in questione, al fine di elaborare risposte politicamente e socialmente incisive, ma anche coerenti con la sua storia, il suo magistero e la sua funzione.
Ebbene, l’impressione principale che si ricava dall’intervista di Francesco alla “Stampa” – in ciò confermando ed amplificando quella generata da innumerevoli precedenti pronunciamenti – è che proprio da questo punto di vista la “piattaforma ideologica” del suo pontificato sia decisamente inadeguata. Il papa, infatti, si esprime su argomenti politici molto complessi e divisivi con enunciati assiomatici, stringati, di una genericità sconcertante, talvolta anche infarciti di inesattezze dovute palesemente ad una insufficiente conoscenza della discussione in materia. Suscita, francamente, grande sorpresa che egli non abbia intorno a sé, o non se ne serva, studiosi in grado di fornirgli tutta l’indispensabile documentazione sui vari dossier, e di orientare la sua riflessione in merito.
Sul tema della contrapposizione tra globalismo ed europeismo da una parte, sovranismi e nazionalismi dall’altra, il pontefice partiva da una base interessante e potenzialmente feconda: quella della distinzione tra una globalizzazione come “sfera” (omologante e mortificante per le varie culture) e come “poliedro” (in grado di tenere conto delle loro specificità). Nell’intervista Bergoglio riprende questa teoria, opportunamente sottolineando come nel dialogo tra paesi e culture diversi occorra partire dalle rispettive identità per integrarle tra loro con il dialogo. Ma immediatamente poi egli riduce tale principio alla rivendicazione di un generico europeismo, inteso come il “sogno dei padri fondatori”, e alla altrettanto generica condanna del sovranismo.
Sull’Unione europea il pontefice si limita a dichiarare che essa “si è indebolita con gli anni, anche a causa di alcuni problemi di amministrazione, di dissidi interni. Ma bisogna salvarla”, aggiungendo una approvazione incondizionata per la presidenza della Commissione ad Ursula von der Leyen, motivata dalla considerazione che “una donna può essere adatta a ravvivare la forza dei Padri Fondatori”, perché “le donne hanno la capacità di accomunare,di unire”.
Possibile che il capo della Chiesa cattolica non abbia nulla di più specifico da dire sulla tormentata storia del passaggio dalla Comunità all’Unione europea, sul complesso rapporto in quest’ultima tra accentramento burocratico e democrazia, sulla diseguaglianza in essa tra Stati economicamente più forti e più debol? Che sia sufficiente alla von der Leyen essere una donna per riscuotere il suo consenso, ma che egli niente abbia da dire sulla deriva accentuatamente secolarizzata del popolarismo tedesco, di cui la attuale presidente della Commissione è stata preminente espressione, con tanto di adeguamento supino alle posizioni laiciste sui “principi non negoziabili”?
Fare confronti con il precedente pontificato può sembrare gettare sale sulle ferite, ma c’è davvero un abisso tra la radicata ed articolata riflessione di Benedetto XVI sulla crisi dell’Europa e queste schematiche considerazioni.
Sul tema del sovranismo, e su quello del populismo ad esso connesso, il pontefice raggiunge nell’intervista ulteriori punte di approssimazione. Il fenomeno sovranista – incomprensibile senza il riferimento alla ribellione contro i disagi della globalizzazione e la deriva elitista dell’Ue – viene sbrigativamente liquidato non solo come mera espressione di egoismo nazionalistico (“prima noi. Noi … noi … “), ma addirittura come la possibile reincarnazione del fascismo e del nazismo (“si sentono discorsi che assomigliano a quelli di Hitler nel 1934”). Un’enormità dal punto di vista storico e politologico, oltre che una dichiarazione fortemente divisiva verso parti considerevoli di tutte le società civili europee, in cui i partiti sovranisti riscuotono considerevoli consensi elettorali, e anche per i tanti cattolici che li votano. E – aspetto non certo irrilevante – una presa di posizione esplicita rispetto al contesto politico italiano, decisamente ostile nei confronti di Salvini e della destra. Con il risultato di presentare la Chiesa – con toni drastici che non si ricordavano, appunto, dall’epoca in cui i comunisti venivano scomunicati – come un attore politico nettamente schierato da una parte.
Una visione ancora meno a fuoco del fenomeno, fondata su una conoscenza decisamente sommaria e poco meditata di esso, emerge quando il papa dice che “il sovranismo è un’esagerazione che finisce male sempre; porta alle guerre”. Come è noto, infatti, movimenti e partiti sovranisti sono comparsi nella storia europea solo negli ultimi decenni, e nazionalismo e sovranismo sono fenomeni diversi, non sovrapponibili. Per non parlare di quando egli si avventura in una spericolata distinzione tra popolarismo e populismo, per sostenere il primo contro il secondo, concludendo che “i populismi ci portano a sovranismi: quel suffisso, ‘ismi’, non fa mai bene”. Laddove è evidente che anche il popolarismo è un “ismo”, dunque non si capisce in base a cosa dovrebbe essere preferito. Sono anche scherzi della lingua italiana parlata da uno straniero, certo. Ma questo è un ulteriore problema che in un contesto di comunicazione così cruciale non dovrebbe essere trascurato.
Sui fenomeni migratori il pontefice riprende e radicalizza ulteriormente posizioni già ripetutamente esposte in materia. La sua nota formula secondo cui la politica degli Stati sul tema si riassume nelle quattro parole “ricevere, accompagnare, promuovere, integrare”, interpretate alla luce della “prudenza” da parte dei governi sulle concrete possibilità di accoglienza, qui viene spiegata semplicemente sostenendo che gli Stati dell’Unione europea dovrebbero accordarsi per distribuire gli immigrati tra loro a seconda della densità di popolazione. E, addirittura, auspicando che gli immigrati vengano utilizzati per ripopolare città e zone demograficamente depresse: dichiarazione che alimenta l’impressione di  un’adesione all’impopolarissima idea della “sostituzione etnica”.
Possibile – ci si chiede – che il papa nemmeno si ponga il problema dell’impatto di una immigrazione extraeuropea sempre più massiccia sulla tenuta delle società del Vecchio Continente? Che non gli venga nemmeno un dubbio sul fatto che numeri sempre più alti di immigrati sempre meno regolarizzati provenienti da paesi molto lontani dagli standard europei di convivenza possano creare – o stiano già creando – problemi molto gravi di ordine pubblico, di compatibilità culturale, di convivenza e tolleranza religiosa?
Infine, il tema dell’ambiente. Anche su questo punto le posizioni di Bergoglio – ancor più che nell’enciclica Laudato sì ad esso completamente dedicata – appaiono lapidarie, acritiche, del tutto prive di sfumature. Il pontefice sposa infatti con totale convinzione le tesi catastrofiste sull’esaurimento delle risorse del pianeta e soprattutto sul riscaldamento globale antropico, e fornisce un convinto endorsement al movimento fondato dalla giovane Greta Thunberg, della quale cita con compiacimento uno slogan piuttosto anonimo come “Il futuro siamo noi”. Ed anche in questo caso viene da chiedersi perché un’autorità spirituale mondiale di tale livello metta in gioco senza riserve la credibilità dell’istituzione da lui guidata per sostenere opinioni fortemente discusse, su cui vi è tutt’altro che consenso unanime, sia tra gli studiosi che a livello di dibattito politico internazionale.
In conclusione, mai come oggi, con questa intervista di Francesco, la Chiesa cattolica si è proposta non come “cattolica”, cioè appunto universale, ma al contrario come un vero e proprio “partito”. Dettato dalla nobile intenzione di evangelizzare i popoli proponendosi come istituzione vicina ai problemi più angoscianti e urgenti del nostro tempo, questo atteggiamento produce però spesso un effetto opposto: taglia fuori, o fa percepire se stessi come tagliati fuori, tutti quei fedeli che non concordano con la “linea” ideologica dettata dal Vaticano, oltre ad un’amplissima parte delle società occidentali che potrebbe invece essere coinvolta da un’opera di ravvivamento della dimensione comunitaria, dalla ricerca di un senso più alto della vita oltre la dimensione dei beni materiali, del potere, del consumismo.
Paradossalmente, insomma, proprio il papa che all’inizio del suo pontificato ha messo in guardia la Chiesa dal ridursi ad una “o.n.g.”,  nell’intento di portare la sua predicazione sempre più dentro il “fuoco della controversia” del mondo contemporaneo rischia concretamente di favorire un esito ancora peggiore di quello che paventava. Ponendo l’istituzione al servizio di un “programma” tutto mondano, che lascia sullo sfondo – togliendo ad esso efficacia e forza di convinzione – la sua ragion d’essere primaria: il kérygma, che nessun dibattito politico potrà mai esaurire e nemmeno avvicinare nella sua relazione totale con ogni aspetto dell’esperienza umana.
Pubblicato 13 Agosto 2019 




Papa Francesco: “Il sovranismo mi spaventa, porta alle guerre”


Il Pontefice: «L’Europa non deve sciogliersi, bisogna salvarla, ha radici umane e cristiane. Una donna come Ursula von der Leyen può ravvivare la forza dei Padri Fondatori»

CITTÀ DEL VATICANO. Il Papa apre la porta puntuale alle 10,30, con il suo sorriso gentile. Entra in una delle stanze che usa per ricevere la gente, arredata con l’essenziale, senza distrazioni o lussi, solo un crocifisso appeso alla parete. Siamo arrivati dall’ingresso del Perugino, il più vicino a Casa Santa Marta. Scenario abituale: qualche tonaca, gendarmi e guardie svizzere. Sullo sfondo, il Cupolone di San Pietro. In Vaticano il solito tran tran è rallentato dall’afa e dal clima vacanziero. Per Papa Francesco non è un giorno qualunque: è il 6 agosto, 41° anniversario della morte di san Paolo VI, pontefice a cui è particolarmente affezionato: «In questa giornata cerco sempre un momento per scendere nelle Grotte sotto la Basilica – rivelerà – e sostare, da solo, in preghiera e silenzio davanti alla sua tomba. Mi fa bene al cuore». I convenevoli durano poco, in un attimo siamo nel pieno della conversazione.
Francesco è allegro e rilassato. E concentrato. Impressiona la sua capacità di ascolto. Guarda sempre negli occhi. Mai l’orologio. Si prende le pause necessarie prima di esprimere un pensiero delicato. Parla di Europa, Amazzonia e ambiente. Il colloquio è intenso e senza interruzioni. Il Papa non beve neanche un sorso d’acqua. Glielo facciamo notare, lui scuote le spalle e risponde, sorridendo: «Non sono l’unico che non ha bevuto».
Santità, Lei ha auspicato che «l’Europa torni a essere il sogno dei Padri Fondatori». Che cosa si aspetta?
«L’Europa non può e non deve sciogliersi. È un’unità storica e culturale oltre che geografica. Il sogno dei Padri Fondatori ha avuto consistenza perché è stata un’attuazione di questa unità. Ora non si deve perdere questo patrimonio».
Come la vede oggi?
«Si è indebolita con gli anni, anche a causa di alcuni problemi di amministrazione, di dissidi interni. Ma bisogna salvarla. Dopo le elezioni, spero che inizi un processo di rilancio e che vada avanti senza interruzioni».
È contento della designazione di una donna alla carica di presidente della Commissione europea?
«Sì. Anche perché una donna può essere adatta a ravvivare la forza dei Padri Fondatori. Le donne hanno la capacità di accomunare, di unire».
Quali sono le sfide principali?
«Una su tutte: il dialogo. Fra le parti, fra gli uomini. Il meccanismo mentale deve essere “prima l’Europa, poi ciascuno di noi”. Il “ciascuno di noi” non è secondario, è importante, ma conta più l’Europa. Nell’Unione europea ci si deve parlare, confrontare, conoscere. Invece a volte si vedono solo monologhi di compromesso. No: occorre anche l’ascolto».
Che cosa serve per il dialogo?
«Bisogna partire dalla propria identità».
Ecco, le identità: quanto contano? Se si esagera con la difesa delle identità non si rischia l’isolamento? Come si risponde alle identità che generano estremismi?
«Le faccio l’esempio del dialogo ecumenico: io non posso fare ecumenismo se non partendo dal mio essere cattolico, e l’altro che fa ecumenismo con me deve farlo da protestante, ortodosso… La propria identità non si negozia, si integra. Il problema delle esagerazioni è che si chiude la propria identità, non ci si apre. L’identità è una ricchezza - culturale, nazionale, storica, artistica – e ogni paese ha la propria, ma va integrata col dialogo. Questo è decisivo: dalla propria identità occorre aprirsi al dialogo per ricevere dalle identità degli altri qualcosa di più grande. Mai dimenticare che il tutto è superiore alla parte. La globalizzazione, l’unità non va concepita come una sfera, ma come un poliedro: ogni popolo conserva la propria identità nell’unità con gli altri».
Quali i pericoli dai sovranismi?
«Il sovranismo è un atteggiamento di isolamento. Sono preoccupato perché si sentono discorsi che assomigliano a quelli di Hitler nel 1934. “Prima noi. Noi… noi…”: sono pensieri che fanno paura. Il sovranismo è chiusura. Un paese deve essere sovrano, ma non chiuso. La sovranità va difesa, ma vanno protetti e promossi anche i rapporti con gli altri paesi, con la Comunità europea. Il sovranismo è un’esagerazione che finisce male sempre: porta alle guerre».
E i populismi?
«Stesso discorso. All’inizio faticavo a comprenderlo perché studiando Teologia ho approfondito il popolarismo, cioè la cultura del popolo: ma una cosa è che il popolo si esprima, un’altra è imporre al popolo l’atteggiamento populista. Il popolo è sovrano (ha un modo di pensare, di esprimersi e di sentire, di valutare), invece i populismi ci portano a sovranismi: quel suffisso, “ismi”, non fa mai bene».
Qual è la via da percorrere sul tema migranti?
«Innanzitutto, mai tralasciare il diritto più importante di tutti: quello alla vita. Gli immigrati arrivano soprattutto per fuggire dalla guerra o dalla fame, dal Medio Oriente e dall’Africa. Sulla guerra, dobbiamo impegnarci e lottare per la pace. La fame riguarda principalmente l’Africa. Il continente africano è vittima di una maledizione crudele: nell’immaginario collettivo sembra che vada sfruttato. Invece una parte della soluzione è investire lì per aiutare a risolvere i loro problemi e fermare così i flussi migratori».
Ma dal momento che arrivano da noi come bisogna comportarsi?
«Vanno seguiti dei criteri. Primo: ricevere, che è anche un compito cristiano, evangelico. Le porte vanno aperte, non chiuse. Secondo: accompagnare. Terzo: promuovere. Quarto integrare. Allo stesso tempo, i governi devono pensare e agire con prudenza, che è una virtù di governo. Chi amministra è chiamato a ragionare su quanti migranti si possono accogliere».
E se il numero è superiore alle possibilità di accoglienza?
«La situazione può essere risolta attraverso il dialogo con gli altri Paesi. Ci sono Stati che hanno bisogno di gente, penso all’agricoltura. Ho visto che recentemente di fronte a un’emergenza qualcosa del genere è successo: questo mi dà speranza. E poi, sa che cosa servirebbe anche?».
Che cosa?
«Creatività. Per esempio, mi hanno raccontato che in un paese europeo ci sono cittadine semivuote a causa del calo demografico: si potrebbero trasferire lì alcune comunità di migranti, che tra l’altro sarebbero in grado di ravvivare l’economia della zona».
Su quali valori comuni occorre basare il rilancio dell’Ue? L’Europa ha ancora bisogno del cristianesimo? E in questo contesto gli ortodossi che ruolo hanno?
«Il punto di partenza e di ripartenza sono i valori umani, della persona umana. Insieme ai valori cristiani: l’Europa ha radici umane e cristiane, è la storia che lo racconta. E quando dico questo, non separo cattolici, ortodossi e protestanti. Gli ortodossi hanno un ruolo preziosissimo per l’Europa. Abbiamo tutti gli stessi valori fondanti».
Attraversiamo idealmente l’Oceano e pensiamo al Sudamerica. Perché ha convocato in Vaticano, a ottobre, un Sinodo sull’Amazzonia?
«È “figlio” della “Laudato si’”. Chi non l’ha letta non capirà mai il Sinodo sull’Amazzonia. La Laudato si’ non è un’enciclica verde, è un’enciclica sociale, che si basa su una realtà “verde”, la custodia del Creato».
C’è qualche episodio per Lei significativo?
«Alcuni mesi fa sette pescatori mi hanno detto: “Negli ultimi mesi abbiamo raccolto 6 tonnellate di plastica”. L’altro giorno ho letto di un ghiacciaio enorme in Islanda che si è sciolto quasi del tutto: gli hanno costruito un monumento funebre. Con l’incendio della Siberia alcuni ghiacciai della Groenlandia si sono sciolti, a tonnellate. La gente di un paese del Pacifico si sta spostando perché fra vent’anni l’isola su cui vive non ci sarà più. Ma il dato che mi ha sconvolto di più è ancora un altro».
Quale?
«L’Overshoot Day: il 29 luglio abbiamo esaurito tutte le risorse rigenerabili del 2019. Dal 30 luglio abbiamo iniziato a consumare più risorse di quelle che il Pianeta riesce a rigenerare in un anno. È gravissimo. È una situazione di emergenza mondiale. E il nostro sarà un Sinodo di urgenza. Attenzione però: un Sinodo non è una riunione di scienziati o di politici. Non è un Parlamento: è un’altra cosa. Nasce dalla Chiesa e avrà missione e dimensione evangelizzatrici. Sarà un lavoro di comunione guidato dallo Spirito Santo».
Ma perché concentrarsi sull’Amazzonia?
«È un luogo rappresentativo e decisivo. Insieme agli oceani contribuisce in maniera determinante alla sopravvivenza del pianeta. Gran parte dell’ossigeno che respiriamo arriva da lì. Ecco perché la deforestazione significa uccidere l’umanità. E poi l’Amazzonia coinvolge nove Stati, dunque non riguarda una sola nazione. E penso alla ricchezza della biodiversità amazzonica, vegetale e animale: è meravigliosa».
Al Sinodo si discuterà anche la possibilità di ordinare dei «viri probati», uomini anziani e sposati che possano rimediare alla carenza di clero. Sarà uno dei temi principali?
«Assolutamente no: è semplicemente un numero dell’Instrumentum Laboris (il documento di lavoro, ndr). L’importante saranno i ministeri dell’evangelizzazione e i diversi modi di evangelizzare».
Quali sono gli ostacoli alla salvaguardia dell’Amazzonia?
«La minaccia della vita delle popolazioni e del territorio deriva da interessi economici e politici dei settori dominanti della società».
Dunque come deve comportarsi la politica?
«Eliminare le proprie connivenze e corruzioni. Deve assumersi responsabilità concrete, per esempio sul tema delle miniere a cielo aperto, che avvelenano l’acqua provocando tante malattie. Poi c’è la questione dei fertilizzanti».
Santità, che cosa teme più di tutto per il nostro Pianeta?
«La scomparsa delle biodiversità. Nuove malattie letali. Una deriva e una devastazione della natura che potranno portare alla morte dell’umanità».
Intravede una qualche presa di coscienza sul tema ambiente e cambiamento climatico?
«Sì, in particolare nei movimenti di giovani ecologisti, come quello guidato da Greta Thunberg, “Fridays for future”. Ho visto un loro cartello che mi ha colpito: “Il futuro siamo noi!”».
La nostra condotta quotidiana - raccolta differenziata, l’attenzione a non sprecare l’acqua in casa - può incidere o è insufficiente per contrastare il fenomeno?
«Incide eccome, perché si tratta di azioni concrete. E poi, soprattutto, crea e diffonde la cultura di non sporcare il creato».



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