venerdì 31 luglio 2020

“IL MALE SUPREMO DEI CRISTIANI È LA PERDITA DELL’IDENTITÀ”

A fine luglio, esattamente cinquanta anni fa, il vescovo Biancheri fece venire a Rimini don Luigi Giussani. Ecco un estratto di quello che disse il fondatore di GS-CL alla tre giorni del clero diocesano: parole di sorprendente attualità.
Nota di redazione
Nei giorni 29-31 luglio 1970 i sacerdoti della diocesi di Rimini si riunirono alla Casa dei Ritiri per un corso d’aggiornamento, tema “Annunciare la parola di Dio”, relatore don Luigi Giussani. La trascrizione da registrazione delle tre lezioni svolte fu pubblicata nella “Rivista Diocesana Rimini – ufficiale per gli atti del Vescovo e della Curia vescovile. Nuova serie”, n. 59-60 (1971), pagg. 16-46. Le frasi di don Giussani che qui pubblichiamo sono estratte dalla pubblicazione del 1971, da noi consultata presso la Biblioteca Gambalunga di Rimini. Le introduzioni agli argomenti sotto forma di domanda sono della redazione. Editing a cura di Paolo Facciotto.
Qual è il problema numero uno dei cristiani?
«Il male supremo dei cristiani, ha detto il cardinale Wright, è la perdita della loro identità, cioè della coscienza della propria personalità; infatti il valore, il contributo originale, che possiamo portare al mondo, la nostra utilità, è nella misura in cui abbiamo una nostra personalità, non nella misura in cui ci confondiamo, in cui mettiamo acqua altrui nel nostro vino. Oggi, purtroppo, nella storia del mondo, manca la persona “diversa”: non c’è l’identità cristiana.»
Che cosa definisce l’essere prete?
«Ciò che definisce la nostra personalità è il fatto per cui Dio ci ha scelti: la consapevolezza netta dell’essere eletti, inviati – “andate” – per annunciare il disegno del Padre, per dare al mondo la cosa di un Altro che è per il mondo: questo è tutto quanto possiamo dire di noi. Abbiamo grinta nel mondo e di fronte a noi stessi, abbiamo consistenza nella nostra vita, e perciò possibilità di gusto e senso di sicurezza – senza sicurezza non si costruisce nulla – nella misura in cui abbiamo questa coscienza.»
Qual è il contenuto dell’annuncio cristiano?
«Il contenuto dell’annuncio è che Dio si è coinvolto, ha assunto tutta quanta la nostra realtà umana, come uno di noi, in mezzo a noi: Dio, cioè Tutto, è diventato uno di noi: non abbiamo più bisogno di nient’altro. San Tommaso in un brano dice: “sicut qui haberet librum ubi esset tota scientia, non quaereret nisi ut sciret illum librum, sic et nos non oportet amplius quaerere nisi Christum” (nota*). Ma come è difficile toglierci dalla impressione che si tratti di esagerazione, di “per modo di dire”! E’ questa impressione che ci rende così inincidenti nel mondo: noi non siamo nulla se non siamo nella posizione di san Tommaso; soltanto così abbiamo una faccia diversa, siamo personalità nuove, abbiamo da dire qualche cosa, abbiamo da portare la salvezza.»
Come annunciare il Vangelo alle persone?
«Bisogna porsi con chiarezza oltre che con amore, così da aspettare che vengano. La chiarezza non è l’andare in fabbrica a dire “Gesù, Gesù!”. Ma nel dire che tu sei comunione, affinché sappiano chi sei; senza pretendere che lo siano anche loro, ma sia chiaro chi sei tu: questo è il martirio, e non solo in senso etimologico. Porsi con chiarezza, esplicitamente, aver la propria faccia, la propria identità: verranno quando Dio li farà venire. Non pretendere nulla. Condividere con un proprio metodo. Quello che deriva, ad esempio, dalla antropologia marxista non può essere il metodo che nasce dall’antropologia cristiana; la giustizia del marxista non è la mia; perché se il bisogno umano cui si intende rispondere è identico, la risposta in quanto è definitoria, in quanto è concezione, è diversa; e la differenza, in un modo o nell’altro, salterà fuori.»
La Chiesa cattolica oggi è tesa alla missione?
«Se c’è un sintomo del nostro abominio presente è proprio l’aver non solo lasciato andare la tensione missionaria, ma addirittura l’aver teorizzato questo, “per rispettare le coscienze”. L’azione missionaria non è solo quella in Africa o in Brasile, ma quella della comunità, di tutti coloro che sono nella comunità. L’azione missionaria è dovunque il cristiano è, in qualunque situazione la comunità è: nel quartiere, nello stabilimento, nella scuola, in politica, nel sindacato, in casa, tra gli amici … perché l’azione missionaria è parte integrante, è dimensione normale dell’autenticità della vita cristiana. E’ uno struggimento – come dice S. Paolo – affinché Cristo sia riconosciuto, accettato, domini: non c’è altro amore vero agli uomini che questo struggimento.»

mercoledì 29 luglio 2020

CON GLI OCCHI DELLA FEDE


CARRÓN: QUALE CURA PER GLI SCETTICI DI OGGI?
MARINA CORRADI  AVVENIRE MERCOLEDÌ 29 LUGLIO 2020
«Mi accorgo che sono circondato dal nulla, anche semplicemente parlando con i miei compagni di corso: il dialogo fra noi è all’insegna del nulla, passiamo da un argomento all’altro senza più ricordare ciò di cui parlavamo prima». Tra le righe della lettera di uno studente a Julián Carrón, guida di Comunione e Liberazione, una sensazione che in tanti oggi avvertiamo – come un tarlo che ci svuota, piano. Qualcosa che, nei lunghi silenzi del lockdown, abbiamo forse percepito più
Cattedrale di Chartes
nettamente. «La grave minaccia oggi è la perdita del senso del vivere», ha detto il Papa. La minaccia di un nichilismo non ideologico ma esistenziale, che respiriamo inconsapevolmente. Una «sfiducia nella possibilità di compimento e di senso dell’esistenza», lo definisce Carrón nel suo “Il brillìo degli occhi”. Che cosa ci strappa dal nulla? (Editrice Nuovo Mondo, pagine 160, euro 4,00), appena uscito. Che cosa, appunto, ci può strappare a questo impalpabile malessere, quasi l’aria stessa ne fosse contaminata? Domanda forte, che per un cristiano di lungo corso può forse suonare disturbante: io credo in Cristo e nella Resurrezione, potrebbe rispondere uno di loro, e nessun tarlo mi rode. Eppure: lo sfaldamento della famiglia, la violenza nelle case, la diffusa indifferenza al destino di una moltitudine di miserabili, il crollo demografico – quasi una voglia di non continuare – non danno la sensazione che anche l’ambiente umano interiore sia malato e in declino? E davvero sempre la nostra speranza cristiana regge a questo urto, a questo dubbio?
L’ampiezza e la profondità delle domande di Carrón rendono difficile ridurle in un articolo di giornale. Ma chi si ritrova almeno un po’ nel malessere descritto da quello studente dovrebbe leggere questo breve denso libro. Noi qui ci vogliamo soffermare soprattutto sul quarto capitolo, “Un cammino che dura tutta la vita”. Dedicato a chi ormai da tanto ha incontrato Cristo, e ne vede i frutti nella propria vita: eppure. Eppure sperimenta aridità e pesantezza. Con gli anni che avanzano, prova smarrimento e paura. Come se la promessa di Cristo svanisse nella vecchiaia, nell’angoscia di una morte che in questi mesi ci è passata tanto vicina. Ma, scrive Carrón ricordando l’insegnamento di John Henry Newman, riconoscere Cristo è solo l’inizio di un cammino che dura tutta la vita. Con le sue salite erte e apparentemente impossibili, con i pianori in cui riprendi il fiato, con le gioie, e poi le vertigini del dolore. La fede è essere “viator”, essere sempre in cammino. Mantenendo la memoria del desiderio immenso, quasi indicibile, che abbiamo come una radice profonda nel cuore: il desiderio di essere amati e amare, per sempre. Ma questo è possibile solo se Cristo è risorto, se la sua promessa è vera. Senza Cristo, nasceremmo solo per morire. Non può bastare, a sistemare le nostre vite, un’etica, come molti perfino fra i cristiani propongono. Né il compito sta in un nostro sforzo, in un afferrare: invece, scrive von Balthasar, sta nell’essere afferrati, nel lasciarsi afferrare da Cristo. E magari, da giovani, ci è accaduto. Ma, poi?
San Bertand de Commiges (Pirenei)
il Chiostro
Poi forse abbiamo creduto di avere già raggiunto la meta. «Mai dare per scontata la sorgente», ammoniva Giussani. Perché se Cristo non è vivo e operante in noi, anche attraverso il volto di una compagnia cristiana, la mentalità del mondo prevale; e la centratura su se stessi, ricorda Carrón, «rende il mondo soffocante». Non è, ti domandi allora tu che ti avvicini alla vecchiaia, che ti succede ciò che Tolstoj straordinariamente descrive in “Resurrezione”? «Pensava (…) di credere; ma intanto con tutto l’essere (…) aveva coscienza che questa fede era qualcosa di assolutamente “inadeguato”. Ed era questo che faceva sì che i suoi occhi erano sempre tristi». Ha scritto Ratzinger: «È proprio del mistero di Dio agire in modo sommesso». Così sommesso che in fondo, suggerisce Carrón, non germina in noi, inconfessato, «uno scetticismo sull’efficacia del Mistero nel mondo»? Forse nel malessere di questo scetticismo non pochi cristiani oggi potrebbero riconoscersi. Ma, come uscirne? È “Padre”, la parola salvifica, diceva Giussani ai suoi. Non è un nostro sforzo, ma il percepirci figli ciò che salva e colma la vita, e le dà un gusto diverso dall’amara stanchezza che invade anche chi ha tutto, ma si accorge che quel tutto non basta. E, scrive ancora Giussani: «Proviamo a immaginare un uomo che dieci, cento, mille volte al giorno prenda coscienza del fatto che Colui che lo ha mandato, cioè Colui che lo fa, il Mistero che lo fa, è con lui, che Dio è con lui: la serenità di certi volti, di certi volti di monaci e di monache, ha qui la sua radice».
Ed è questo il brillìo degli occhi cui allude il titolo del libro: gli occhi lieti, in pace anche nelle prove più dure, dei cristiani veri. Quello sguardo che stupisce chi lo incrocia, e porta anche i più lontani dalla fede a domandarsi: ma quell’uomo come fa a vivere così? E noi che scriviamo questo pezzo, e abbiamo spesso gli occhi tristi di cui scriveva Tolstoj, e in mente, con l’avanzare degli anni, senso di fine e vuoto, come vorremmo sapere di nuovo di essere figli, semplicemente figli bambini che tendono la mano al padre. Non è uno sforzo che dobbiamo fare, non è qualcosa che possiamo afferrare. È un lasciarsi afferrare. È un desiderio, è una preghiera. Nel tempo del Covid e della paura collettiva, nel tempo in cui tante consolidate certezze sono andate in frantumi, un libro che fa venire voglia di pregare. Di tornare a essere figli. Di riconoscere semplicemente la limpida evidenza: figli, è ciò che siamo.


martedì 28 luglio 2020

LA PONTIFICIA ACCADEMIA PER LA VITA PARLI PER SE E NON PER I CRISTIANI


Stamattina vedo sulla Nuova Bussola Quotidiana un editoriale di Stefano Fontana intitolato Se per il Vaticano Dio non esiste (qui: https://lanuovabq.it/it/se-per-il-vaticano-dio-non-esiste) e, prima di leggerlo, penso che il titolo sia un po’ esagerato, secondo la regola giornalistica di spararla grossa per farsi sentire in mezzo al frastuono.
 
Marc Chagall : White Crucifixion
The Art Institute, CHICAGO
Dopo averlo letto e soprattutto dopo aver dato un’occhiata al testo integrale del documento della Pontificia Accademia per la Vita a cui l’articolo si riferisce (qui: http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_academies/acdlife/documents/rc_pont-acd_life_doc_20200722_humanacomunitas-erapandemia_it.html), capisco invece che quel titolo va preso alla lettera.

In particolare, trovo che sia completamente privo di qualsiasi riferimento alla fede in Dio il passaggio che Fontana cita all’inizio del suo editoriale per rilevarne giustamente lo scadente livello stilistico, ma che dal punto di vista cristiano richiede, a mio avviso, una censura ben più radicale riferita al suo inaccettabile contenuto. Il passo, che riporto in modo un po’ più ampio di Fontana, è il seguente:
“Fragili”. Ecco cosa siamo tutti: radicalmente segnati dall’esperienza della finitudine che è al cuore della nostra esistenza; non si trova lì per caso, non ci sfiora con il tocco gentile di una presenza transitoria, non ci lascia vivere indisturbati nella convinzione che tutto andrà secondo i nostri piani. Affioriamo da una notte dalle origini misteriose: chiamati a essere oltre ogni scelta, presto arriviamo alla presunzione e alle lamentele, rivendicando come nostro quello che ci è stato solamente concesso. Troppo tardi abbiamo imparato ad accettare l’oscurità da cui veniamo e a cui, infine, torneremo.

«Affioriamo da una notte dalle origini misteriose»? «Troppo tardi abbiamo imparato ad accettare l’oscurità da cui veniamo e a cui, infine, torneremo»? Parli per sé, la Pontificia Accademia. Noi cristiani sappiamo di venire e di essere chiamati a tornare alla luce infinita dell’amore creatore di Dio. L’oscurità è tutta e solo nella testa dell’autore o degli autori di questa prosa.

Naturalmente, per scrupolo filologico sono andato a controllare se il passo nel suo contesto originale possa essere suscettibile di un’interpretazione diversa. (…)

A parte il fatto che sarebbe comunque scandaloso che un cattolico, per non scandalizzarsi di un documento vaticano, sia costretto a sudare sette camicie al fine di interpretarlo in bonam partem, in questo caso l’impresa si rivela subito un’arrampicata sugli specchi del tutto inutile perché 
nel documento della Pontificia Accademia per la Vita il Vangelo, cioè la buona notizia che le cose non stanno così, è completamente assente. 
Il dono a cui vagamente si accenna (fra l’altro con l’unica vaghissima citazione dalla Sacra Scrittura presente nel documento), nell’orizzonte del testo non è reale, perché non si intravede alcun donatore. E se non c’è chi dona, non vi è alcun dono. Sono solo chiacchiere (per giunta insopportabili perché si sente lontano un miglio che chi le ha scritte si sente un poeta).

Quindi sì, le cose stanno proprio come dice quel titolo della NBQ: dal Vaticano hanno emanato un documento ateo.
LEONARDO LUGARESI 28LUGLIO 2020
Nota:Crocifissione bianca è un dipinto (155x140 cm) realizzato nel 1938 dal pittore Marc Chagall, conservato nel The Art Institute di ChicagoPapa Francesco ha dichiarato come questo sia il suo quadro preferito



MONS. CAMISASCA: ABITA LA TERRA E VIVI CON FEDE


Il volume intitolato "Abita la terra e vivi con la fede" rilegge, alla luce del magistero sociale della Chiesa, l'impatto della pandemia sulla vita dei credenti
Abita la terra e vivi con fede (Piemme, 224 pagine, 15,90 euro), è la riflessione più recente di monsignor Massimo Camisasca, vescovo di Reggio Emilia-Guastalla, che propone di rileggere sotto la lente del magistero sociale della Chiesa l’esperienza credente in un tempo reso ancora più complesso dall’impatto della pandemia.

All’inizio dell’emergenza Covid, lei disse alla sua diocesi che sarebbe stata una prova per tutti: se ne fossimo usciti migliori o peggiori sarebbe dipeso esclusivamente da noi. Come ne stiamo uscendo?
Penso che l’intuizione che ho avuto all’inizio della pandemia si sia rivelata giusta: non tutto, certamente, ma molto, moltissimo, sarebbe dipeso da noi, da ciascuno di noi. In ogni evento c’è un richiamo, una voce, una vocazione. Abbiamo saputo cogliere gli insegnamenti di questi mesi? Ciascuno, in fondo, deve dare la propria risposta. Una cosa certamente abbiamo imparato: che l’uomo non può vivere senza fisicità, senza la vicinanza degli altri, senza l’apertura agli spazi che soltanto la presenza delle persone, delle montagne, del mare, dell’infinito può garantire. Si può vivere anche in una cella per tutta la vita, ma questa è una chiamata straordinaria. L’altro insegnamento è che non possiamo vivere senza stabilire relazioni e che esse non possono essere soltanto virtuali.
Nel libro lei scrive che stiamo vivendo "un periodo di disorientamento che può positivamente sfociare in un nuovo slancio umanistico". In qualche misura è ciò che ci ha mostrato il tempo del lockdown. È una mutazione temporanea o c’è qualcosa in noi che è destinato a cambiare in modo permanente?
Penso a tutt’e due le cose: qualche aspetto della nostra vita è cambiato in superficie, qualche altro in profondità. Ma di questi ultimi ci accorgeremo soltanto più avanti. Penso che, in superficie, abbiamo percepito la bellezza dello stare con se stessi, dell’aver tempo per leggere, per riordinare la casa, per un po’ di silenzio... Tutto questo però verrà spazzato via facilmente dall’ansia del fare che domina il nostro tempo se delle abitudini buone e nuove non si radicheranno in noi, se non diventeranno una piccola regola. Per esempio: aprire la giornata con un Salmo, con dieci minuti di silenzio, con la lettura di tre o quattro righe di un testo importante; pregare prima di mangiare; dedicare più tempo ai nostri figli e ai nostri cari; non far dipendere il giudizio che abbiamo su noi stessi dal successo nel lavoro o dalla considerazione degli altri; imparare ad amare la bellezza: un quadro, una musica, il Creato... Occorre una pandemia per imparare queste cose? Forse no, ma il tempo che abbiamo attraversato non sarà passato invano se una piccola rivoluzione nella nostra giornata avrà cominciato a stabilizzarsi.
Un tema che ricorre nella sua analisi è il rapporto alterato tra soggetto e comunità, individualismo e fraternità. Qual è il punto di equilibrio tra questi due poli della nostra vita alla luce di quello che abbiamo sperimentato in questi mesi?
La comunità vive della persona e la persona della comunità. In altre parole: una comunità non è composta di individui che si mettono assieme soltanto per vivere meglio o emergere di più, ma di persone, cioè di soggetti profondamente convinti che soltanto nella relazione potranno scoprire la propria vera identità. Oggi l’aspetto comunitario della vita è molto dimenticato, anche nella Chiesa. Eppure questa è la vocazione più profonda. Siamo chiamati a essere un popolo, il popolo di Dio, uniti profondamente nel Corpo di Cristo. Questo popolo vive in piccole e grandi comunità. L’educazione alla vita comune è un elemento fondamentale e oggi per lo più sconosciuto nella società e nella Chiesa. Eppure la storia della Chiesa ci parla continuamente della rinascita della vita comune come strada per la realizzazione dello stesso evento ecclesiale e come luce per tutti i popoli.
Lei dedica un intenso capitolo al tema della fragilità: mai come sotto la cappa del Covid abbiamo realizzato la nostra vulnerabilità personale e collettiva. Cosa abbiamo imparato? Cosa non dobbiamo dimenticare?
Mi chiedo: abbiamo veramente imparato qualcosa? Questo sarebbe il punto decisivo del cambiamento dell’intera società: il riconoscimento della nostra nativa fragilità. Noi non siamo Dio e non possiamo vivere senza Dio, perché siamo creature. Ho ricevuto talvolta una pessima impressione da parte di scienziati che affermavano verità contraddette il giorno dopo ma sostenute purtroppo come incontrovertibili anche di fronte alle differenti verità affermate da altri scienziati. Mi è sembrato molto più umano il mondo dei medici e dei paramedici. Riconoscere la propria debolezza non significa non avere coraggio, non rischiare, non costruire. All’opposto, il riconoscimento sereno della propria fallibilità ci fa cercare gli insegnamenti e gli appoggi giusti. Nella classe politica ho visto purtroppo, molto spesso, una grande debolezza non riconosciuta.
Il Papa ha chiesto di dedicare un anno a riflettere sui contenuti dellaLaudato si’. Su cosa va concentrata l’attenzione?
Per scrivere un capitolo del mio libro ho letto e riletto la Laudato si’, e penso che il cuore dell’enciclica affermi la necessità di una visione ecologica e nello stesso tempo la distinzione fra vera e falsa ecologia. Mi sembrano questi i due cardini su cui riflettere durante quest’anno dedicato alla Laudato si’. L’ecologia non è un capitolo della Dottrina sociale, ma è un punto di vista da cui guardare tutto. Nello stesso tempo può diventare un’ideologia anticristiana che, esaltando la terra come divinità, misconosce la divinità del Creatore. L’ambiente va custodito: è stato voluto da Dio come l’habitat del nostro cammino sulla terra. È opera sua e suo riflesso. Nello stesso tempo anch’esso, come l’uomo, verrà trasformato, come attraverso il fuoco, per essere riconsegnato al Padre alla fine del tempo.
Si può dire che il suo sia un libro che attualizza il magistero sociale alla realtà presente. Cosa può dirci della società provata dalla pandemia la dottrina della Chiesa sull’uomo, la società, il lavoro, la famiglia...?
Sì, il mio libro è proprio un tentativo di esprimere la Dottrina sociale della Chiesa alla luce delle nuove attese dell’uomo. Penso che i capitoli fondamentali siano quelli dedicati all’antropologia, alla famiglia, all’educazione e al lavoro. Oggi è in atto – lo riconoscono tutti – una grande mutazione nella visione dell’uomo. Vogliamo collaborare affinché l’uomo si salvi e non si autodistrugga, affinché nel riconoscimento dei propri limiti sappia usare bene delle grandiose scoperte che lui stesso ha realizzato? Come non mai, l’uomo può porre fine a se stesso. Allontanandosi da Dio l’uomo non diventa Dio ma si distrugge. Penso che tutti dobbiamo aiutare gli uomini a riconoscere che Dio è la presenza più laica che esista, cioè la più necessaria.
Intervista di Francesco Ognibene sabato 25 luglio 2020 Avvenire

venerdì 24 luglio 2020

NEXT GENERATION UE


 STEFANO PARISI “I SOLDI SERVONO PER CAMBIARE RADICALMENTE IL SISTEMA ECONOMICO O SARÀ UN INCUBO”

La “nuova” Angela Merkel ha salvato l’Europa. La drammatica crisi del Covid 19, che sta colpendo duramente in primis l’Italia, ha fatto aprire gli occhi ad alcuni leader europei. Il fallimento dell’Italia è il fallimento di ogni singolo stato europeo. Le nostre economie sono troppo integrate e interdipendenti. L’Europa esce da questo negoziato con una nuova compagine composta da Olanda, Austria, Danimarca e Svezia, che continuerà a farsi sentire in futuro. L’Italia ottiene più di qualunque altro paese: 209 miliardi dei 750 che l’UE ha deciso di prendere a prestito nei prossimi anni per finanziare politiche di recupero della crescita economica e dell’occupazione. 
 
L’Italia ottiene più di tutti non per la capacità negoziale del nostro Governo, ma perché quella italiana è stata e sarà l’economia più colpita dal Covid 2019. Un tracollo del PIL e, purtroppo, un previsto lento recupero, vista la scarsa capacità di reagire che ha il nostro sistema economico, appesantito com’è da un’amministrazione pubblica costosa e inefficiente. Vera palla al piede della nostra economia e della nostra società. Dei 209 mld ottenuti dall’Italia, 82 saranno a fondo perduto e 127 a prestito. Aumenteremo così di ulteriori 7 punti percentuali il nostro debito rispetto al PIL. Drammatica crisi economica (dovuta alla inefficienza del nostro sistema economico e alla eccessiva durata e vastità del lockdown) e ulteriore drammatico indebitamento che si scarica sui nostri giovani. 

Next Generation EU dunque rischia di tradursi in un incubo per le prossime generazioni se l’Italia non cambierà radicalmente approccio, rispetto a quanto non abbia fatto questo governo negli ultimi mesi. Tutti questi soldi, uniti ai 37 mld del MES, e all’enorme deficit che stiamo continuando ad accumulare di mese in mese, di decreto in decreto, devono servire per cambiare profondamente le radici del nostro sistema economico. 

Non devono finanziare spesa corrente, assistenza e inutili bonus, ma devono servire a RICOSTRUIRE il paese su basi completamente nuove.  Allora il Governo dovrebbe immediatamente abolire Quota 100 e il reddito di cittadinanza, ritirare il decreto semplificazioni sostituendolo con un set di norme definitive, che sostituiscano il Codice degli appalti con i regolamenti comunitari, aboliscano il reato di abuso d’ufficio, limitino il danno erariale al solo dolo. Dovrebbe poi avviare una grande riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche sulla base di un nuovo disegno digitale, riformare la Giustizia, cambiare la scuola e l’università, riorganizzare il sistema di finanziamento alla ricerca, superare il sistema dei contratti nazionali di lavoro, riorganizzare il Sistema Sanitario Nazionale ricentrandolo sull’assistenza primaria territoriale, fare dell’intero Sud una zona a fiscalità di forte vantaggio.  

Basta con la propaganda e la retorica. Oggi il Paese è di fronte a un bivio, senza riforme ipoteca il futuro di molte generazioni, ma con le riforme può far tornare il nostro paese affidabile e forte. Nei prossimi mesi si capirà se il risultato del Consiglio europeo è stato, per l’Italia, un successo o un nuovo drammatico incubo.

domenica 19 luglio 2020

LA DERIVA DEI VESCOVI ITALIANI

CHE BATTESIMO E’ SENZA PADRINI E MADRINE?
DAVIDE RONDONI
I mafiosi ringraziano il Vescovo di Sulmona.
Piero della Francesca "Battesimo di Cristo"
Finalmente il padrino è solo “cosa nostra”, cioè loro, dei mafiosi. Il Vescovo della citta di Ovidio, con rapida metamorfosi, ha pensato di “eliminare” padrini e madrine da battesimi, cresime e altre bazzeccole. Si tratta, dice il Vescovo nel decreto valido tre anni, di impegni presi puramente per un "adempimento formale", adottato con criteri in cui, a suo parere, rimane "ben poco visibile la dimensione della fede". E i criteri secondo cui oggi la gente decide, sbagliando, a parere del prelato, di scegliere un padrino o una madrina sono "parentela, amicizia, interesse".
Ecco qui sta la aberrazione della decisione episcopale. A parte il fatto che se una cosa non va, più che eliminarla sarebbe meglio (ma più impegnativo) correggerla, la aberrazione sta nel pensare che "parentela, amicizia, interesse" siano criteri che non c’entrano con la fede. Ma come? La fede in questo uomo-Dio, in questo Dio-corpo, non si è diffusa anche (se non soprattutto) grazie al fatto che in rapporti familiari, di amicizia e anche attraverso interessi, Lui ha fatto irruzione e si è manifestato nella vita delle persone?
Non è Cristo oggi una presenza, un problema, un richiamo nella vita di tanta gente proprio grazie a un parente, a un’amicizia, un incontro fatto seguendo propri legittimi interessi? Dove si incontra, forse fissando il muro o la propria mente?
da il resto del carlino 19/7/20

CARO MONS. SANTORO, QUANTO DOLORE PER QUEL TUO COMUNICATO SUI FATTI DI LIZZANO.


SABINO PACIOLLA
Caro mons. Santoro, ci conosciamo, ma non tanto da poterti chiamare don Filippo, come fanno i miei e tuoi amici di una vita. Quel minimo di conoscenza personale mi impedisce però di scrivere in maniera distaccata. Per questo ti scrivo queste poche parole, ti assicuro con grande dolore e rispetto per la tua paternità, sulla vicenda occorsa nel comune di Lizzano, tra don Giuseppe Zito, parroco della Chiesa di San Nicola, appartenente alla tua diocesi, e la sindaca Antonietta D’Oria. 
L’altra sera, ti confesso, appena letto il tuo comunicato ufficiale, sono stato preso da un certo turbamento.
Mons. Santoro al Meeting 2017
Ti scrivo pubblicamente perché il tuo comunicato è pubblico, ed ha creato sconcerto in molti fedeli, a cominciare da me. È giusto dunque che vi sia una adeguata, franca, e rispettosa riflessione, che tanti stanno già facendo. 
Purtroppo, è una riflessione che viene da lontano, non è nata con il tuo comunicato, e ciò perché i fatti e le occasioni che vedono l’intervento “controverso” di sacerdoti o vescovi, si stanno ripetendo nel tempo. È una riflessione che deve andare al cuore della fede, al nucleo del cristianesimo, all’essenza della testimonianza a Cristo.
Vista la situazione, che di anno in anno si sta facendo sempre più pericolosa per noi cristiani, anche qui nel “tranquillo” Occidente, mi vengono spesso in mente le parole di San Pietro:
“Stavano ancora parlando al popolo, quando sopraggiunsero i sacerdoti, il capitano del tempio e i sadducei, irritati per il fatto che essi insegnavano al popolo e annunziavano in Gesù la risurrezione dai morti. Li arrestarono e li portarono in prigione fino al giorno dopo, dato che era ormai sera. (…)”
Il giorno dopo, nel sinedrio, davanti al sommo sacerdote Caifa e ai capi, “Pietro, pieno di Spirito Santo, disse loro: «Capi del popolo e anziani, (…) Questo Gesù è la pietra che, scartata da voi, costruttori, è diventata testata d’angolo.
In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati».(…) E poi, “Pietro e Giovanni replicarono: «Se sia giusto innanzi a Dio obbedire a voi più che a lui, giudicatelo voi stessi; noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato»” (Atti 4,1-22) E infine “Pietro disse: «Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini»” (Atti 5,29).

Viviamo in una società sempre più scristianizzata, che o è indifferente al fatto cristiano o ha in odio Cristo.
Se la proposta di legge Zan, quella sull’omotransfobia, dovesse essere approvata, la nostra testimonianza a Cristo si farà più drammatica e dolorosa (è quello che Lui ci chiede), non potremo più parlare di tutto quello che da Cristo discende. Non potremo più vivere ciò che la nostra concezione cristiana della vita ci insegna. Questo a volte pare sfuggire ad alcuni pastori. E l’intervento della sindaca di Lizzano che chiede ai carabinieri di identificare i fedeli che si sono riuniti in chiesa per pregare, o addirittura la sua pretesa di decidere cosa i fedeli debbano pregare è la prefigurazione più chiara del regime prossimo che ci aspetta. Infatti, la sindaca ha affermato: “Pregare perché un disegno di legge non venga approvato non mi sembra democratico”. “non mi sembra democratico”….pensate un po’ a quali vette del pensiero siamo arrivati! 
Per questo, le parole del tuo comunicato, almeno a me, sono apparse lontane, distanti dalle questioni che sono realmente in gioco, animate da una volontà di “costruire ponti e abbattere muri” che non ha senso e che non aiuta nessuno. Quelle parole hanno infatti ingiustamente rimproverato il sacerdote ed i fedeli che hanno avuto la sola “colpa” di pregare Dio perché faccia in modo che una legge orrenda e liberticida non venga approvata; d’altra parte, non hanno fatto alcuna obiezione all’operato della sindaca, il quale, non so se contempli la violazione di qualche norma, di sicuro è stato inopportuno ed oltre le righe.
Chi infatti ha “brandito la fede come un’arma”? Chi ha trasformato un momento di preghiera, che di per sé deve unire, in “un motivo di divisione e di contrapposizione”? Non mi pare che la colpa sia attribuibile al sacerdote o ai fedeli. Eppure queste affermazioni sono contenute nel tuo comunicato.
Certo, nel comunicato vi è anche il richiamo alla dichiarazione della CEI che stigmatizza il ddl di Zan, ma il tutto è apparso come una delle tante tessere, forse nemmeno la più importante, di un mosaico il cui disegno ha lasciato molto a desiderare.
La sensazione che in tanti sentiamo è quella di essere mancanti di guide, di pastori che si mettano davanti al gregge e, sicuri, lo guidino alla meta, incuranti delle proteste che lungo la strada si alzeranno. Invece, in questi tempi, spesso aggressivi e inumani, capita sempre più spesso che tanti, tanti, pastori stiano in silenzio, per vari motivi che non è qui il caso di richiamare, e che pochi, pochissimi, facciano sentire la loro voce con chiarezza dinanzi al Potere. E questa per noi fedeli non è affatto una bella sensazione. Anzi.
Certo che “la Chiesa è Madre di tutti i suoi figli, e come tale accoglie e ama tutti senza distinzione alcuna”, come scrivi nel comunicato, ma la Chiesa è anche Maestra (Mater et Magistra), e ci testimonia e ci educa al vero bene dell’uomo, che è Cristo. Ma il nostro cuore, il cuore di ogni uomo, facilmente fugge la Luce per inseguire le tenebre, quelle che portano divisione e odio. Infatti, è la verità che unisce, mentre è la menzogna che divide. Per cui, per noi cristiani, il dovere primario sarà sempre quello di annunciare e testimoniare Cristo, prima ancora della ricerca di “un clima di solidarietà, di rispetto reciproco e di collaborazione per il bene comune”. Tutte cose, queste, importanti, importantissime, ma non fondamentali per la salvezza della nostra anima. 
Caro mons. Santoro, quella che viviamo appare sempre più un’epoca tragica, difficile, disumana (si veda l’aborto legalizzato o l’utero in affitto), intrisa come non mai di una domanda di religiosità confusa e ambigua. Un’epoca di apparente tolleranza, in cui molti vogliono affermare un cristianesimo fatto di «valori», di «aperture», di «dialogo», un cristianesimo in cui pare non esserci più posto per la persona del Figlio di Dio, il Cristo, crocifisso per noi, risorto per noi.
Un cristianesimo umanitario ridotto a promozione sociale, “un nuovo umanesimo”, si dice, così attento a non urtare minimamente la suscettibilità altrui, tanto da mettere tra parentesi quello che più ci sta a cuore. Un cristianesimo che corre il serio rischio di sconfinare nel politicamente corretto, l’arma attuale che il Potere usa per addormentare le coscienze ed imporre surrettiziamente, ma drammaticamente, il suo astuto volere.
Questa intollerante “tolleranza”, così in voga oggi, vuole mettere in prigione coloro che  dissentono da una concezione fluida dell’uomo, una concezione che non riconosce, anzi odia, il “maschio e femmina Dio li creò”, una concezione che vuole cancellare la originaria dipendenza dal Padre. È per questo che il presente tempo urge la testimonianza di noi cristiani alla Verità, contro qualsiasi “Imperatore”, con qualsiasi volto si presenti.
Allora mi piace concludere con il testo del Volantone di Pasqua del 1988 di Comunione e Liberazione, lo ricorderai, quel Volantone che riportava un passo tratto da “Il dialogo dell’Anticristo”, di Vladimir Solov’ev (di cui in maniera fulminante parlò il card. Giacomo Biffi), che così recitava:
L’imperatore si rivolse ai cristiani dicendo: “Strani uomini… ditemi voi stessi, o cristiani, abbandonati dalla maggioranza dei vostri capi e fratelli: che cosa avete di più caro nel cristianesimo?”. Allora si alzò in piedi lo starets Giovanni e rispose con dolcezza: “Grande sovrano! Quello che abbiamo di più caro nel cristianesimo è Cristo stesso. Lui stesso e tutto ciò che viene da Lui, poiché noi sappiamo che in Lui dimora corporalmente tutta la pienezza della Divinità”. 


giovedì 16 luglio 2020

GIORGIO AGAMBEN - REQUIEM PER GLI STUDENTI


23 maggio 2020
 Come avevamo previsto, le lezioni universitarie si terranno dall’anno prossimo on line. Quello che per un osservatore attento era evidente, e cioè che la cosiddetta pandemia sarebbe stata usata  come pretesto per la diffusione sempre più pervasiva delle tecnologie digitali, si è puntualmente realizzato.
Non c’interessa qui la conseguente trasformazione della didattica, in cui l’elemento della presenza fisica, in ogni tempo così importante nel rapporto fra studenti e docenti, scompare definitivamente, come scompaiono le discussioni collettive nei seminari, che erano la parte più viva dell’insegnamento. Fa parte della barbarie tecnologica che stiamo vivendo la cancellazione  dalla vita di ogni esperienza dei sensi e la perdita dello sguardo, durevolmente  imprigionato  in uno schermo spettrale. 
Ben più decisivo in quanto sta avvenendo è  qualcosa di cui significativamente non si parla affatto, e, cioè, la fine dello studentato come forma di vita. Le università sono nate in Europa dalle associazioni di studenti – universitates  e a queste devono il loro nome. Quella dello studente era, cioè, innanzitutto una forma di vita, in cui determinante era certamente lo studio e l’ascolto delle lezioni, ma non meno importante erano l’incontro e l’assiduo scambio con gli altri scholarii, che provenivano spesso dai luoghi più remoti e si riunivano secondo il luogo di origine in nationes. Questa forma di vita si è evoluta in vario modo nel corso dei secoli, ma costante, dai clerici vagantes del medio evo ai movimenti studenteschi del novecento, era la dimensione sociale del fenomeno. Chiunque ha insegnato in un’aula universitaria sa  bene come per così dire sotto i suoi occhi si legavano amicizie e si costituivano, secondo gli interessi culturali e politici, piccoli gruppi di studio e di ricerca,  che continuavano a incontrarsi anche dopo la fine della lezione.
Tutto questo, che era durato per quasi dieci secoli, ora finisce per sempre. Gli studenti non vivranno più nella città dove ha sede l’università, ma ciascuno ascolterà le lezioni chiuso nella sua stanza, separato a volte da centinaia di chilometri da quelli che erano un tempo i suoi compagni. Le piccole città, sedi di università un tempo prestigiose, vedranno scomparire dalle loro strade quelle comunità di studenti che ne costituivano  spesso la parte più viva.
Di  ogni fenomeno sociale che muore si può  affermare che in un certo senso meritava la sua fine ed è certo che le nostre università erano giunte a tal punto di corruzione e di ignoranza specialistica che non è possibile rimpiangerle e che la forma di vita degli studenti si era conseguentemente altrettanto immiserita. Due punti devono però restare fermi:
  1. i professori che accettano – come stanno facendo in massa – di sottoporsi alla nuova dittatura telematica e di tenere i loro corsi solamente on line sono il perfetto equivalente dei docenti universitari che nel 1931 giurarono fedeltà al regime fascista. Come avvenne  allora, è probabile che solo quindici su mille si rifiuteranno, ma certamente i loro nomi saranno ricordati accanto a quelli dei quindici docenti che non giurarono.


  2. Gli studenti che amano veramente lo studio dovranno rifiutare di iscriversi alle università così trasformate e, come all’origine, costituirsi in nuove universitates, all’interno delle quali soltanto, di fronte alla barbarie tecnologica, potrà restare viva la parola del passato e nascere – se nascerà – qualcosa come una nuova cultura.