martedì 28 luglio 2020

MONS. CAMISASCA: ABITA LA TERRA E VIVI CON FEDE


Il volume intitolato "Abita la terra e vivi con la fede" rilegge, alla luce del magistero sociale della Chiesa, l'impatto della pandemia sulla vita dei credenti
Abita la terra e vivi con fede (Piemme, 224 pagine, 15,90 euro), è la riflessione più recente di monsignor Massimo Camisasca, vescovo di Reggio Emilia-Guastalla, che propone di rileggere sotto la lente del magistero sociale della Chiesa l’esperienza credente in un tempo reso ancora più complesso dall’impatto della pandemia.

All’inizio dell’emergenza Covid, lei disse alla sua diocesi che sarebbe stata una prova per tutti: se ne fossimo usciti migliori o peggiori sarebbe dipeso esclusivamente da noi. Come ne stiamo uscendo?
Penso che l’intuizione che ho avuto all’inizio della pandemia si sia rivelata giusta: non tutto, certamente, ma molto, moltissimo, sarebbe dipeso da noi, da ciascuno di noi. In ogni evento c’è un richiamo, una voce, una vocazione. Abbiamo saputo cogliere gli insegnamenti di questi mesi? Ciascuno, in fondo, deve dare la propria risposta. Una cosa certamente abbiamo imparato: che l’uomo non può vivere senza fisicità, senza la vicinanza degli altri, senza l’apertura agli spazi che soltanto la presenza delle persone, delle montagne, del mare, dell’infinito può garantire. Si può vivere anche in una cella per tutta la vita, ma questa è una chiamata straordinaria. L’altro insegnamento è che non possiamo vivere senza stabilire relazioni e che esse non possono essere soltanto virtuali.
Nel libro lei scrive che stiamo vivendo "un periodo di disorientamento che può positivamente sfociare in un nuovo slancio umanistico". In qualche misura è ciò che ci ha mostrato il tempo del lockdown. È una mutazione temporanea o c’è qualcosa in noi che è destinato a cambiare in modo permanente?
Penso a tutt’e due le cose: qualche aspetto della nostra vita è cambiato in superficie, qualche altro in profondità. Ma di questi ultimi ci accorgeremo soltanto più avanti. Penso che, in superficie, abbiamo percepito la bellezza dello stare con se stessi, dell’aver tempo per leggere, per riordinare la casa, per un po’ di silenzio... Tutto questo però verrà spazzato via facilmente dall’ansia del fare che domina il nostro tempo se delle abitudini buone e nuove non si radicheranno in noi, se non diventeranno una piccola regola. Per esempio: aprire la giornata con un Salmo, con dieci minuti di silenzio, con la lettura di tre o quattro righe di un testo importante; pregare prima di mangiare; dedicare più tempo ai nostri figli e ai nostri cari; non far dipendere il giudizio che abbiamo su noi stessi dal successo nel lavoro o dalla considerazione degli altri; imparare ad amare la bellezza: un quadro, una musica, il Creato... Occorre una pandemia per imparare queste cose? Forse no, ma il tempo che abbiamo attraversato non sarà passato invano se una piccola rivoluzione nella nostra giornata avrà cominciato a stabilizzarsi.
Un tema che ricorre nella sua analisi è il rapporto alterato tra soggetto e comunità, individualismo e fraternità. Qual è il punto di equilibrio tra questi due poli della nostra vita alla luce di quello che abbiamo sperimentato in questi mesi?
La comunità vive della persona e la persona della comunità. In altre parole: una comunità non è composta di individui che si mettono assieme soltanto per vivere meglio o emergere di più, ma di persone, cioè di soggetti profondamente convinti che soltanto nella relazione potranno scoprire la propria vera identità. Oggi l’aspetto comunitario della vita è molto dimenticato, anche nella Chiesa. Eppure questa è la vocazione più profonda. Siamo chiamati a essere un popolo, il popolo di Dio, uniti profondamente nel Corpo di Cristo. Questo popolo vive in piccole e grandi comunità. L’educazione alla vita comune è un elemento fondamentale e oggi per lo più sconosciuto nella società e nella Chiesa. Eppure la storia della Chiesa ci parla continuamente della rinascita della vita comune come strada per la realizzazione dello stesso evento ecclesiale e come luce per tutti i popoli.
Lei dedica un intenso capitolo al tema della fragilità: mai come sotto la cappa del Covid abbiamo realizzato la nostra vulnerabilità personale e collettiva. Cosa abbiamo imparato? Cosa non dobbiamo dimenticare?
Mi chiedo: abbiamo veramente imparato qualcosa? Questo sarebbe il punto decisivo del cambiamento dell’intera società: il riconoscimento della nostra nativa fragilità. Noi non siamo Dio e non possiamo vivere senza Dio, perché siamo creature. Ho ricevuto talvolta una pessima impressione da parte di scienziati che affermavano verità contraddette il giorno dopo ma sostenute purtroppo come incontrovertibili anche di fronte alle differenti verità affermate da altri scienziati. Mi è sembrato molto più umano il mondo dei medici e dei paramedici. Riconoscere la propria debolezza non significa non avere coraggio, non rischiare, non costruire. All’opposto, il riconoscimento sereno della propria fallibilità ci fa cercare gli insegnamenti e gli appoggi giusti. Nella classe politica ho visto purtroppo, molto spesso, una grande debolezza non riconosciuta.
Il Papa ha chiesto di dedicare un anno a riflettere sui contenuti dellaLaudato si’. Su cosa va concentrata l’attenzione?
Per scrivere un capitolo del mio libro ho letto e riletto la Laudato si’, e penso che il cuore dell’enciclica affermi la necessità di una visione ecologica e nello stesso tempo la distinzione fra vera e falsa ecologia. Mi sembrano questi i due cardini su cui riflettere durante quest’anno dedicato alla Laudato si’. L’ecologia non è un capitolo della Dottrina sociale, ma è un punto di vista da cui guardare tutto. Nello stesso tempo può diventare un’ideologia anticristiana che, esaltando la terra come divinità, misconosce la divinità del Creatore. L’ambiente va custodito: è stato voluto da Dio come l’habitat del nostro cammino sulla terra. È opera sua e suo riflesso. Nello stesso tempo anch’esso, come l’uomo, verrà trasformato, come attraverso il fuoco, per essere riconsegnato al Padre alla fine del tempo.
Si può dire che il suo sia un libro che attualizza il magistero sociale alla realtà presente. Cosa può dirci della società provata dalla pandemia la dottrina della Chiesa sull’uomo, la società, il lavoro, la famiglia...?
Sì, il mio libro è proprio un tentativo di esprimere la Dottrina sociale della Chiesa alla luce delle nuove attese dell’uomo. Penso che i capitoli fondamentali siano quelli dedicati all’antropologia, alla famiglia, all’educazione e al lavoro. Oggi è in atto – lo riconoscono tutti – una grande mutazione nella visione dell’uomo. Vogliamo collaborare affinché l’uomo si salvi e non si autodistrugga, affinché nel riconoscimento dei propri limiti sappia usare bene delle grandiose scoperte che lui stesso ha realizzato? Come non mai, l’uomo può porre fine a se stesso. Allontanandosi da Dio l’uomo non diventa Dio ma si distrugge. Penso che tutti dobbiamo aiutare gli uomini a riconoscere che Dio è la presenza più laica che esista, cioè la più necessaria.
Intervista di Francesco Ognibene sabato 25 luglio 2020 Avvenire

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