venerdì 29 settembre 2023

ESSELUNGA LA SA LUNGA


Fiutato il vento, gli intelligenti autori della campagna pubblicitaria di Esselunga hanno confezionato un film di ottima qualità, che intitolerei La pesca, e che ha colpito tutti.

Questo è il primo aspetto che vorrei far notare: ha letteralmente colpito tutti, senza eccezione, e leggendo un po’ di commenti sui social si ha addirittura l’impressione che tra i più colpiti ci siano proprio gli indemoniati che sbavano ogni sorta di contumelie contro quel film. In alcuni casi, poi, chi sa leggere non fatica a cogliere, sottotesto, che il film è piaciuto anche a loro, ed è proprio questo che li fa dare di matto.

Perché ha colpito tutti? Io credo perché intercetta un dato di realtà.

Dopo anni e anni in cui la pubblicità non fa altro che imporre, in modo martellante e ossessivo, una rappresentazione del tutto farlocca del mondo in cui viviamo, un semplice accenno alla realtà così com’è può avere un impatto dirompente. Sono anni che ci fanno mangiare “merda ideologica” mattino mezzogiorno e sera, imponendoci di accettare che il mondo, e in particolare la società italiana, sia quella roba che fanno vedere nei loro spot. Anche una massa di schiavi snervati dalla paura e ottusi dall’ignoranza come siamo ridotti noi, ad un certo punto non ne può più.

Questo è il primo, e più superficiale, livello al quale si può dire che quel film coglie un dato di realtà. Non solo in Italia, ma un po’ in tutto il mondo occidentale, qualche refolo di ribellione, qualche segno di resipiscenza, qualche moto di insofferenza contro la valanga di menzogna e stupidità che ci è stata rovesciata addosso si comincia ad avvertire. Forse finirà male, ma intanto c’è. E questa è l’aria che dalle parti di Esselunga devono aver fiutato. Bravi, buon pro gli faccia per i loro affari.

Ma ad un livello più profondo il dato di realtà è un altro, e riguarda i bambini. Questi insopportabili rompiscatole, che la cultura di cui la pubblicità è normale espressione detesta profondamente e che la demografia occidentale sta facendo di tutto per eliminare, esistono ancora (sempre meno, ma ci sono).

E non solo esistono, ma resistono, cioè continuano imperterriti a venire al mondo con la stessa pretesa fondamentale di sempre: quella di avere un babbo e una mamma che stanno con loro.

Questa istanza è universale, perenne, incontrovertibile: tutti i bambini vogliono questo e, nei primi anni di vita, si può dire che “si accontentano”, cioè vogliono solo questo.

Non sono contenti di essere comprati da ricconi capricciosi che pretendono l’impossibile (cioè figli che non possono avere); non sono contenti di avere genitori che o non possono, poveretti, occuparsi di loro perché sono costretti a fare altro, oppure non vogliono, sciagurati, occuparsi di loro perché preferiscono fare altro; non sono contenti neanche di essere “amati separatamente”, e a volte in modo conflittuale, dal babbo e dalla mamma. Tutte cose che la “merda ideoogica” di cui sopra ci obbliga a sostenere apoditticamente.

È vero che la realtà del mondo, dal peccato originale in poi, ha sempre parzialmente frustrato questa istanza fondamentale con cui ogni uomo e ogni donna vengono al mondo: gli orfani ci sono sempre stati, sempre ci sono stati figli di cui i genitori non si sono potuti occupare, e quelli cresciuti in famiglie in cui il babbo e la mamma, lungi dall’amarsi, non si sopportavano neanche. Però nessuno metteva in dubbio che quell’istanza ci fosse, e fosse legittima. La cultura dominante oggi, invece, è la prima che pretende di negarla: i figli di genitori separati – dice la pubblicità – sono contentissimi, basta che abbiano in tutte e due le case la stessa cameretta (purché comperata nel noto mobilificio svedese, che così di camerette in truciolato ne vende due al posto di una).

Ecco, è bastato un bel film di due minuti, in cui la realtà fa capolino, per fare un botto.

Post scriptum. Perché non l’ho chiamato spot pubblicitario, ma sempre film?

Perché tale è, a mio avviso, La pesca (o come diavolo il regista vorrà chiamarlo).

Non me ne intendo molto, ma credo che se prendete il film d’autore italiano standard (quello su una coppia di trentenni in crisi) ci togliete i dialoghi interminabili e pieni di fumisterie pseudointellettuali che dovrebbero far vedere quanto sono intelligenti e colti regista e sceneggiatori; i primi piani che dovrebbero mostrare l’intensa espressività degli attori, e le inquadrature ad effetto di ambienti e paesaggi per esibire il genio artistico del direttore della fotografia, e così da 90 minuti lo riducete a 90 secondi, ottenete La pesca, cioè un prodotto molto migliore. (Recitato decentemente, tra l’altro: si dia subito un premio alla bambina!).

 LEONARDO LUGARESI



martedì 26 settembre 2023

LA BEATA FAMIGLIA ULMA E IL CATTOLICESIMO DEL 21° SECOLO

GEORGE WEIGEL

La famiglia Ulma, - come p. Massimiliano Kolbe, Madre Teresa e p. Vincent Capodanno – ha vissuto alla lettera la parabola del Buon Samaritano; coloro che lo trovano “rigido” e “ideologico” dovrebbero ripensarci.

Tomba monumento alla famiglia Ulma, a Markowa, Polonia. 

È una rara occasione in cui la parola “senza precedenti” può essere usata per una Chiesa la cui storia si estende per oltre due millenni. Eppure qualcosa di senza precedenti è accaduto nel villaggio polacco di Markowa il 10 settembre, quando un’intera famiglia, compreso il loro bambino non ancora nato, è stata beatificata. Non sembra del tutto corretto riferirsi ai nuovi beati con la formula tradizionale: “Beati Józef e Wiktoria Ulma e compagni”, poiché i “compagni” in questione sono i sei figli viventi degli Ulma e il loro nascituro. Pensiamo invece alla Famiglia Beata Ulma e a cosa potrebbe significare per noi.

A partire dalla fine del 1942, Józef e Wiktoria Ulma diedero rifugio a otto ebrei nella soffitta della loro fattoria di legno: un crimine capitale durante l'occupazione tedesca della Polonia nella seconda guerra mondiale. Il 24 marzo 1944, i gendarmi tedeschi vennero alla casa, uccisero gli ebrei e poi spararono a Józef e Viktoria, che era in fase avanzata di gravidanza. I bambini terrorizzati – Stanisława (8), Barbara (6), Władysław (5), Franciszek (4), Antoni (3) e Maria (1½) – furono poi uccisi a colpi di arma da fuoco. I corpi furono gettati in una fossa e successivamente sepolti nel cimitero della chiesa locale.

Visitando il vicino Museo dei polacchi che salvarono gli ebrei nella seconda guerra mondiale lo scorso 23 luglio e pregando sulla tomba della famiglia Ulma vicino alla loro chiesa parrocchiale di Santa Dorotea, mi sono venute in mente precise lezioni per il cattolicesimo del 21° secolo.

Il primo riguarda le fonti dell'eroismo cristiano. Sebbene sia Józef che Wiktoria Ulma fossero ben istruiti secondo gli standard della Polonia rurale della metà del XX secolo, non erano sofisticati teologi. Leggono la parabola del Buon Samaritano (Lc 10,25-37) non come un'ingiunzione generale all'amore del prossimo che possa essere adattata alle circostanze, ma come un insegnamento specifico di Cristo Signore: se incontri persone in difficoltà, devi aiutarle , indipendentemente dalla loro identità etnica o religiosa e indipendentemente dal costo.

Alcuni leader cattolici contemporanei trovano scomoda una lettura così letterale delle parole del Signore; suggeriscono che il codice morale che segue da tale “fondamentalismo” biblico è “rigido”, “ideologico” e insufficientemente pastorale. Eppure lo stesso “rigido” senso di obbligo morale fondato sulla Bibbia che animò l’eroica protezione offerta dagli Ulma agli ebrei perseguitati portò padre Massimiliano Kolbe a offrire la sua vita nel bunker della fame ad Auschwitz in cambio di quella di un prigioniero condannato, proprio come aveva fatto con Madre Teresa a spendere la sua vita al servizio dei più poveri tra i poveri, che lei considerava “Gesù nel suo travestimento più angosciante”; proprio come ha portato il cappellano della Marina americana, padre Vincent Capodanno, a sacrificare la sua vita portando conforto ai marines feriti e morenti in Vietnam. Né gli Ulma, né Padre Kolbe, né Madre Teresa, né padre Capodanno si è lasciato andare alla ponderazione “proporzionalista” degli obblighi morali tornati in auge nel corso dell'attuale pontificato. Hanno vissuto la parabola del Buon Samaritano alla lettera: coloro che la trovano “rigida” e “ideologica” dovrebbero ripensarci.

La seconda lezione riguarda la natura del martirio, che la morte di san Massimiliano Kolbe e il dramma della Beata Famiglia Ulma invitano la Chiesa del XXI secolo a riconsiderare .

Tradizionalmente, un “martire” era qualcuno ucciso in odium fidei [in odio alla fede]. L'abnegazione di Kolbe soddisfaceva questa definizione, tanto che egli era un “martire” oltre che un confessore della fede? Gli assassini degli Ulma erano motivati ​​dall'odium fidei ? La categoria ibrida “martire della carità” è entrata in voga negli ultimi decenni da quando Papa Paolo VI la usò di Kolbe. Ma sembra che il sacrificio di Kolbe, e quello degli Ulma, soddisfi pur sviluppando la definizione tradizionale.

Alcune teorie politiche moderne insegnano un disprezzo radicale per la dignità e il valore della vita umana, o almeno per la dignità e il valore di alcune vite umane. Questo era certamente il caso del nazionalsocialismo tedesco: per i nazisti, gli ebrei e i polacchi che li proteggevano erano forme di vita inferiori da sterminare. Non è questo odio verso la fede biblicamente informata che, in Genesi 1:26, insegna che ogni essere umano è creato, come Adamo ed Eva, a immagine e somiglianza divina? L'odio verso coloro che sono fatti a immagine e somiglianza di Dio non è forse odio verso Dio? E l'odium Dei non è una forma di odium fidei ?

Il Sinodo che si aprirà il mese prossimo ci invita a essere una Chiesa di “comunione, partecipazione e missione”. La Beata Famiglia Ulma ha vissuto in comunione con gli ebrei perseguitati della Polonia Precarpazia e ha partecipato al Mistero della Croce vivendo la missione del Buon Samaritano, alla quale è stata chiamata nel Battesimo. Possa il loro esempio ispirare il Sinodo 2023 ad un abbraccio altrettanto radicale della fede cattolica.

 

POVERE CREATURE

 

La madrina del Festival del cinema di Venezia Caterina Murino 

sul red carpet con il suo cane, 1 settembre 2023 (foto Ansa)

La madrina della Mostra del Cinema di Venezia, Caterina Murino, ha sfilato sul red carpet con il suo bassotto per la proiezione del film Povere creature. Ha spiegato la scelta su Instagram, ringraziando il cagnolino di averla aiutata a diffondere un messaggio: «Amarena, questo è per te… veglia sui tuoi piccoli adesso».

Dopo la morte dell’orsa in Abruzzo i suoi cuccioli sono stati avvistati mentre passeggiano tranquillamente sulla via di un centro abitato. Stanno bene, si alimentano autonomamente e non verranno catturati. Dal paradiso degli orsi scende una carezza e si aggiunge a quella degli esperti che rassicurano l’opinione pubblica sul destino delle povere creature.

Strappate all’affetto materno. Protezione degli innocenti. Non sono affatto scomparse le parole che connotano le tensioni più umane dell’anima, solo che bisogna andarle a stanare nei casi che riguardano gli animali.

A giugno è capitato con lo scimpanzé Vanilla che ha visto il cielo per la prima volta dopo 29 anni di cattività. Ha sentito la brezza sulla pelle e sperimentato la libertà. Osservandola, ci si è interrogati sul senso della felicità. Grazie alla scimmia è uscito dal cassetto lo stupore di Ciaula e del pastore errante. Lo scatto che inquadra Vanilla a bocca aperta di fronte al cielo fa davvero sperare che esista ancora qualcosa in comune tra noi e il primate.

Possiamo ritrovare una posizione eretta per contemplare le stelle, magari non solo per verificare che mamma orsa vegli sui suoi piccoli.

sabato 23 settembre 2023

L’AGNOSTICISMO CATTOLICO E L’OBLIO DEI PRINCIPI NON NEGOZIABILI


Il vescovo Giampaolo Crepaldi ad Assisi 

Alcuni stralci della riflessione con cui il vescovo emerito di Trieste, Giampaolo Crepaldi, ha introdotto i lavori del convegno “Le tavole di Assisi” tenutosi ad Assisi il 9 e 10 settembre



I
Bisogna recuperare la convinzione che il cristianesimo e la Chiesa intervengono direttamente nella vita sociale, non per sostituirsi ad altre competenze distinte e legittime, ma per orientare l’intera vita pubblica verso la sua vera finalità ultima, che è quella trascendente.  Bisogna recuperare l’idea, insegnataci anche da Benedetto XVI, che Quaerere Deum ha dirette conseguenze sociali in quanto non è possibile dissodare le terre incolte della vita sociale senza aver prima dissodato le nostre anime. Siccome da una vita mi interesso di Dottrina sociale della Chiesa, mi sento di dire che senza questo presupposto anche la ricchezza del magistero sociale viene trascurata. Se oggi questa eredità si trova in difficoltà, come a me sembra essere, il motivo di fondo è di fede ed anche di ragione, ma prima di tutto di fede. Concediamo troppo al naturalismo e pensiamo che il mondo non abbia bisogno del Cristo della fede ma eventualmente solo del Cristo della ragione, per poi scendere progressivamente anche da quel livello ed arrivare al Cristo dell’etica mondialista e quindi al Cristo della coscienza individuale. Con questo esito il discorso circa il cristianesimo nella società finisce. Ritengo che o il cristianesimo e la Chiesa hanno qualcosa di proprio e di unico da dire nella pubblica piazza, oppure quello che dicono si risolve ad essere una delle tante opinioni che vociferano nel baccano quotidiano impropriamente elevato a “pubblico dibattito”.

II
Se il cristianesimo e la Chiesa hanno qualcosa da dire nella pubblica piazza di proprio e di unico, ne deriva che i cattolici non possono collaborare con tutti, perché non possono darsi da fare indifferentemente per tutto. Scriveva Benedetto XVI che “Cristo accoglie tutti ma non accoglie tutto”. Questo tutto deve infatti essere vagliato alla luce di quanto la Chiesa ha da dire di proprio e di unico nella pubblica piazza. Sono consapevole di evidenziare un aspetto delicato e controverso nella Chiesa di oggi…  Non basta concordare nominalmente sulla questione ambientale per collaborare con tutti quanti se ne occupano e vi si impegnano. Né è lecito pensare che il senso della collaborazione possa nascere durante il percorso collaborativo, perché questo comporterebbe di negare quanto ho detto sopra ossia che la Chiesa abbia una parola propria e unica da dire sulla questione sociale. Si rimane negativamente colpiti, per fare un esempio, da quante realtà cattoliche facciano oggi propria l’agenda ONU per il 2030.

III
Prendo spunto da queste ultime considerazioni per proporre una ulteriore valutazione su un tema che io chiamerei dell’“AGNOSTICISMO CATTOLICO”. Se prendiamo per esempio il campo della morale, vediamo che oggi si tende a dire che l’intelletto non può pretendere di vedere con la propria luce la “forma” di una azione, così come non può vedere la “forma” delle cose. La trascuratezza degli insegnamenti della 
Fides et ratio e della Veritatis splendor ha conseguenze piuttosto negative. Cosa sia la forma specifica dell’adulterio, per esempio, oggi tende a non essere più chiaro, né la questione della conoscibilità certa degli assoluti morali (negativi) è ritenuta importante.  Si ritiene che queste categorie conoscitive siano astratte e impediscano di entrare nel vissuto delle persone. … 

IV
Nominalismo e agnosticismo oggi sono molto presenti tra i cattolici e gli uomini di Chiesa, talvolta senza la necessaria consapevolezza, e li rende disponibili alle avventure anche le più strane. Evidenzia anche una certa “liquidità” dell’essere cattolici nella società, in un attivismo magari frenetico ma improduttivo. L’”agnosticismo cattolico” è alla base dell’oblio dei “principi non negoziabili”, di cui ci parlava Benedetto XVI, oblio che assolutizza la politica permettendole di fare tutto e, nello stesso temo, la svilisce, perché la rende cieca. La politica può fare tutto, ma alla cieca. Il danno dell’oblio dei principi non negoziabili è rilevantissimo perché ad una politica così ridotta la Dottrina sociale della Chiesa non ha più nulla da dire di significativo per essa.

V
La mia impressione da vescovo e da osservatore, meglio: da osservatore come vescovo, è che il cerchio si stia stringendo e che gli spazi di libertà per il cattolico siano sempre più esigui fino a scomparire. Man mano che la secolarizzazione procede a grandi passi, aiutata nei suoi effetti distruttivi dalla nuova mondializzazione del nichilismo illuminato, la pattuglia dei cattolici impegnati nel sociale espressamente e senza mezzi termini alla luce della Dottrina sociale della Chiesa intesa come annuncio di Cristo nelle realtà temporali e non come semplice umanesimo vagamente solidarista e fraterno, si riduce di numero. Siamo di fronte ad una convergenza operativa molto coerente di molti centri di potere. Nessun ambito ne rimane esente.

VI
La domanda a questo punto si fa seria: a questa pressione coerente e coesa che vuole la distruzione della natura e della soprannatura, i cattolici, laici e uomini di Chiesa, si adeguano o tentano di opporsi?

Per opporvisi servono le idee, oltre che le mani, con il che torniamo a quanto ripetutamente detto sopra: il cristianesimo e la Chiesa hanno qualcosa di proprio e di unico da dire al mondo. Se non lo fanno, o se lo fanno non come dovrebbero farlo, non rimarranno neutrali in un mondo a sé, ma saranno penetrati da altre idee che con le proprie non hanno niente a che fare.
 

https://mailchi.mp/d04c4a8853fd/il-vescovo-giampaolo-crepaldi-ad-assisi-alcuni-stralci-del-suo-intervento?e=dac135ff3b

 

venerdì 22 settembre 2023

COS'È L'UNITÀ DEI CATTOLICI IN POLITICA SECONDO DON GIUSSANI

 Che i cattolici siano sparsi è un bene? «È un dolore», diceva il fondatore di Cl. 

Antonio Simone 

Nei giorni scorsi (l'articolo è del 2018) mi è capitato di venire a conoscenza di un incontro a Milano, nell’immanenza delle elezioni politiche, a cui partecipavano quattro candidati in quattro liste diverse per l’elezione del consiglio regionale lombardo (Pd, Forza Italia, Energie per l’Italia, Noi per l’Italia), tutti affezionati partecipanti alla vita di Comunione e Liberazione.
Mi è sembrata una cosa un po’ strana. Infatti il pensiero del fondatore di Cl è sempre stato chiaro e semplice circa l’unità in politica dei cristiani, anche in epoche diverse, in contesti cambiati, in periodi difficili o più o meno “liquidi”.

Un breve excursus storico.


Come giudica le divergenze tra cattolici che si manifestano sul terreno sociale o politico?
Idealmente noi dobbiamo tendere all’unità anche in politica, perché i cristiani debbono tendere all’unità in tutto, dato che sono un corpo solo. Perciò è un dolore non trovarsi dello stesso parere, non un diritto conclamato sconsideratamente. È dolorosa, anche se tante volte inevitabile, la diversità, e bisogna essere tutti tesi a scoprire il perché il fratello la pensa diversamente e comunicargli nel modo migliore i motivi della propria convinzione, nella ricerca dell’unità.

Per molti invece il pluralismo è un valore in sé…

È esattamente questo che noi combattiamo. Il Sinodo, parlando dei cristiani, non ha usato la parola “pluralismo”, ma “multiformità”: multiformità è, per esempio, la presenza nella Chiesa del movimento dei Focolari, dell’Azione Cattolica, di Cl, che sono diverse modalità di sperimentare la stessa cosa che è il fatto cristiano; così fra loro c’è un’affinità, una parentela profonda. Uno è contento di vedere che l’altro ha una fantasia diversa dalla propria…

E il pluralismo?
Il pluralismo invece è l’esito dell’impatto della fede sul campo culturale: che ci sia, per esempio politicamente, diversità fra cattolici, è umanamente comprensibile, ma non è l’ideale. L’importante che almeno, pur avendo opinioni diverse, ci si senta dentro la stessa cosa, ma spesso questo non avviene: in molto associazionismo cattolico e anche in molte parrocchie, pesa di più essere della stessa parte politica piuttosto che della stessa fede. La posizione giusta, secondo noi, è quella opposta: siccome è più forte la nostra fede, anche se la pensiamo diversamente siamo protesi a imparare l’uno dall’altro, a cercare di capire senza ostilità. Ma non è un valore il pluralismo, il valore è la libertà.
Intervista a A. M. Baggio, 1986, in Luigi Giussani, L’io, il potere, le opere, Marietti.

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Cl e la politica. Un rapporto molto discusso in questi anni, almeno a partire dal 1974. Qual è la concezione di fondo che ha animato questo rapporto e che, in diverse forme, lungo diverse vicende, si è manifestata?


È la fedeltà alla concezione dell’uomo e della società implicita nell’esperienza cristiana e nella prassi della Chiesa, concezione che trova una sua perspicua esplicitazione nella dottrina sociale del Papa. La fedeltà a questa visione è stata sempre vissuta fino alla difesa di essa a livello sociale e politico, attraverso l’impegno convergente di tutti i cattolici. La posizione di Cl risponde a questa concezione di fondo: come ha detto il Papa a Loreto, c’è la necessità di un’unità dei cattolici, che non deriva soltanto da una convenienza politica o da una convergenza sentimentale di chi ha lo stesso titolo di cristiano, ma nasce da un fatto. Il fatto è che la comunione battesimale lega così l’individuo a tutta la realtà ecclesiale che il confronto ultimamente obbediente con l’espressione autorevole di questa realtà diventa forma del criterio del singolo. Dunque siamo per l’unità dei cattolici e per la posizione politica che, almeno teoricamente, vuole essere fedele alla tradizione cristiana. Ma con un atteggiamento particolare, avendo presente che la Dc è un partito molto articolato, dove la presenza delle sensibilità e delle elaborazioni culturali è ampia, la nostra preoccupazione sarà quella di scegliere e di appoggiare i candidati che maggiormente diano affidamento nel senso che a noi interessa.

“La politica, per chi, per cosa”, supplemento a “Il Sabato”, n. 22 del 30 maggio 1987, p. 13-21. Intervista a monsignor Luigi Giussani a cura di Alessandro Banfi.

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Ruini lo hanno attaccato tutti…
È un fatto gravissimo. Mai il Corriere della Sera si era permesso di trattare oltraggiosamente in prima pagina il leader dei vescovi italiani. Ho in mente quel titolo: “Cardinale, lasci stare”. Quasi un ordine insolente a un servo. Ruini difende l’incarnazione, il centro dell’esperienza cristiana, oggi minacciato più che mai. È tanto semplice: Cristo con il battesimo ti assume, così che siamo membra gli uni degli altri. È una cosa dell’altro mondo, ma questa è l’unità cristiana. Se tutti siamo una cosa sola non possiamo non cercare di esprimerci concordemente. E perciò ci raduniamo in azione unitaria. Se uno non se la sente o non ci fossero le condizioni, è un dolore non poterlo fare, non un diritto da sbandierare! C’è un altro criterio che viene oltraggiato, ed è invece così umano: l’obbedienza. È il criterio supremo dell’azione cristiana. Il criterio della verità è ultimamente fuori di noi – e questo fa imbestialire i nemici del cristianesimo. Sì: obbediamo! Ci toglie dalla balìa del potere che occupa e dirige le coscienze illudendole della loro autonomia e invece, credendo di essere liberi, obbediscono a uomini. L’obbedienza cristiana pesca nel mistero. E invece chi si dipinge come autonomo obbedisce a quella ridicola menzogna che ha come criterio di base la valutazione morale dell’altra persona. Una cosa atroce, disumana.
Intervista a Renato Farina, Il Sabato, n. 17, 25 aprile 1992, pp. 14- 15

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Lei ritiene che sia un bene la fine dell’unità politica dei cattolici?
Non so se è un bene. È un fatto, perfettamente previsto dall’autorità della Chiesa e prevedibile nel fatto di libertà della coscienza cristiana. Anche se, là dove l’unità che i cattolici hanno come oggetto di fede – membra di un solo Corpo per la comunione battesimale – quando si realizzasse anche a un livello socio-politico, sarebbe sempre per la società umana, qualunque posizione uno avesse, un esempio confortante. Unità in funzione della Chiesa e non di un partito politico o di uno schieramento. Lo ha ribadito il Papa a Palermo e al Te Deum del 31.

Intervista a P. Battista, La Stampa, 4 gennaio 1996

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Ciò che emerge nella impostazione del pensiero di don Giussani è la scelta semplice ed intelligente dell’obbedienza, quando richiesta anche sul terreno politico, dall’autorità della Chiesa.
Ancor più travolgente e attuale mi pare il brano tratto da una conferenza fatta alla fondazione Adenauer per i dirigenti del Movimento Cristiani Lavoratori nel 1986 dal titolo “La crisi dell’esperienza cristiana come trionfo del potere”.
Quest’ultimo intervento in particolare mi sembra essere un grande suggerimento per il compito che spetta ai cristiani impegnati in politica nel loro rapporto col potere, al di là della questione partitica. Perché ieri come oggi (ieri gli studenti, oggi i cinquestelle) non ci si può unire in base alle domande, alle esigenze, alle recriminazioni, ma in base alle «risposte», come insegna appunto Giussani.

«Più acuto è il corollario circa l’unità della gente, l’unità del popolo, di una folla. L’unità, in un simile contesto di potere, deriva dalla identità delle esigenze. Insomma, uno è considerabile per le esigenze che ha, per le domande che fa, per le domande in cui traduce delle esigenze.
Ma l’unità deve essere fatta sulle esigenze, sulle domande che le esprimono, o piuttosto sulle risposte che a queste domande si riconoscono? L’unità può essere fatta sulle esigenze? No, e questo è il punto esatto in cui il potere gioca tutto. L’unità, infatti, può essere costruita solo sulle risposte che si riconoscono.
Pensiamo al Pascoli, la bella poesia I due fanciulli, oppure a Il focolare: l’unità è fondata sul bisogno comune, sullo smarrimento comune, ma ciò non può impedire che molti si stacchino dagli altri e vadano via bestemmiando i compagni. Una unità fondata sulle esigenze, sulle domande, e non sulle risposte conosciute non è un’unità che unisca.
Peggio, una unità fondata, dunque ricercata, sulle incertezze e sulle indigenze, sulla necessità di far fronte a un potere avverso, di superare certe circostanze, una unità fondata sul riconoscimento di limiti che bisogna oltrepassare: ecco, il potere si costruisce a questo punto.
Vediamo un esempio di attualità: gli studenti. Dicono: uniamoci, perché abbiamo tutti le stesse esigenze, manchiamo tutti delle stesse cose. E questo diventa un motivo globale, totalizzante. Chi interviene con una sinergia mestatrice più forte, domina tutto, dà la sua risposta.
Vorrei aggiungere una osservazione che mi sembra importante. Il potere che uno si riconosce fra le mani coincide con una appartenenza. È una appartenenza che dà la soggettività che la definisce, che le dà densità.
La vaghezza pascoliana del «comun destino» dà una appartenenza ben da poco. Ma la appartenenza di un popolo a chi sembra far giustizia è forte, anche se estremamente provvisoria. L’appartenenza della gente a chi è più forte, a chi dalle circostanze è fatto vincente, è evidente. Questi infatti viene criticato mentre si fa strada rubando e massacrando, ma appena giunge al potere tutti lo onorano».

 

DA TEMPI 2018

NESSUNA SPERANZA PER GLI ARMENI?

L’Armenia e gli Armeni del Nagorno-Karabakh sono ostacoli geografici, politici e religiosi sulla strada dell’unità turca, e vanno eliminati. Un disegno criminale che la Russia non ha più la forza di contrastare e da cui gli Usa cercheranno di trarre vantaggi

Rodolfo Casadei

 

Un manifesto con la scritta “Karabakh è Azerbaigian!” a Baku (foto Ansa)

Il destino della Repubblica armena dell’Artsakh (Nagorno-Karabakh), già mutilata di gran parte del suo territorio dall’offensiva azera del settembre-novembre 2020, era segnato dalla fine del marzo 2022, quando Mosca ha preso atto del fallimento della sua blitzkrieg su Kiev, e ha spostato tutte le sue truppe sui fronti orientali e meridionali, per quella guerra di posizione che dura fino ad oggi.

In quel momento s’è deciso il destino dell’enclave cristiana del Caucaso, perché la Russia, che aveva tardivamente fermato la marcia azera su Stepanakert del novembre 2020, non avrebbe più potuto essere il gendarme della regione, e anzi avrebbe avuto bisogno di quegli alleati ambigui ma insostituibili che sono la Turchia e l’Azerbaigian, gli avversari giurati delle due repubbliche armene, di quella internazionalmente riconosciuta come repubblica di Armenia e di quella riconosciuta da nessuno, nata dalla secessione e dalla guerra del 1992-94.

Gli armeni sono ostacoli sulla strada dell’unità turca

Erdogan e Aliyev, signori di Turchia e Azerbaigian, sognano l’unità dei popoli turchi e di lingua turca dal Bosforo alle steppe siberiane, passando naturalmente per il Caucaso. Nel 2009 hanno creato l’Organizzazione degli Stati turchi, che comprende Azerbaigian, Kazakistan, Kirghizistan, Turchia (la quale dal luglio 2022 esige che in tutte le sedi internazionali si usi la dizione Türkiye e non più quella anglofona Turkey) e Uzbekistan; membri osservatori sono l’Ungheria, la Repubblica di Cipro Nord (che nessuno al mondo riconosce tranne la Turchia) e il Turkmenistan.

L’Armenia e gli armeni del Nagorno-Karabakh sono ostacoli geografici, politici e religiosi sulla strada dell’unità turca, e vanno eliminati: i secondi attraverso la pulizia etnica, i primi trasformando l’Armenia in uno stato vassallo che verrebbe progressivamente colonizzato da immigrati dalla Turchia e dall’Azerbaigian (secondo il modello di Cipro Nord). Normalmente un disegno del genere solleverebbe l’ira e causerebbe contromisure da parte della Russia, che considera i paesi ex sovietici come parte della sua area di influenza. Ma dopo l’impantanamento in Ucraina la Russia non ha più la forza di contrastarlo apertamente, ed è costretta a limitarsi ad agire (o non agire, come nel caso del Nagorno-Karabakh) in modo tale che l’ascesa turca non vada a vantaggio dell’Occidente.

Le contorsioni di Mosca con Ankara e Baku

Di qui tutte le contorsioni del modus vivendi con Ankara e con Baku. La prima si trova dalla parte opposta della barricata per quanto riguarda gli interessi russi in Siria, in Libia e in Ucraina soprattutto a causa dei diritti storici che la Turchia vanta sulla Crimea e la persistente presenza sul posto di una minoranza tatara che un tempo era maggioranza. Ma la Turchia, che non ha aderito all’embargo occidentale antirusso, è anche il paese al centro delle triangolazioni che permettono a imprese e uomini di affari russi di continuare a esportare e importare merci e servizi aggirando i provvedimenti sanzionatori di Usa e Ue.

L’Azerbaigian è il paese che si è fatto beffe della forza di interposizione russa nel Nagorno-Karabakh, bloccando per mesi il passaggio di merci e persone attraverso il corridoio di Lachin e lanciando attacchi contro lo stesso territorio metropolitano armeno senza che i soldati di Mosca alzassero un dito; che pur non partecipando alle votazioni in sede Onu di condanna dell’invasione russa dell’Ucraina ha inviato a Kiev 27 milioni di dollari di aiuti umanitari fino ad oggi e ha ufficialmente condannato come illegali le recenti elezioni amministrative nelle regioni ucraine del Donbass e del sud occupate e annesse dalla Russia.



Ma l’Azerbaigian è anche – segreto di Pulcinella – il paese che fa sì che il gas e il petrolio russi continuino ad arrivare in Europa nonostante le sanzioni: il gas e il petrolio azeri che l’Europa acquista sono in realtà russi oppure sono sì azeri, ma grazie all’escamotage per cui Baku usa gas importato dalla Russia per il consumo interno e così esporta quello nazionale non più necessario per l’autosufficienza.

Le poche carte in mano al primo ministro armeno

Critiche sproporzionate si stanno abbattendo sulla testa del primo ministro armeno Nikol Pashinyan, accusato di tutto: di avere riconosciuto la sovranità azera sul Nagorno-Karabakh, di avere innervosito Mosca con dichiarazioni e gesti come il rifiuto di ospitare manovre militari dell’Otsc (Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva, l’alleanza militare fra Russia, Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan) mentre ospitava per la prima volta manovre congiunte armeno-statunitensi, di non avere inviato truppe in soccorso dei combattenti dell’Artsakh, costretti a capitolare di fronte a forze sproporzionate alle loro capacità di resistenza.

In realtà il giornalista divenuto capo di governo non aveva carte da giocare: nell’assoluta certezza che Mosca non avrebbe mosso un dito, temeva a ragione che la prevedibile nuova offensiva azera non si sarebbe limitata a riprendere tutto il Nagorno-Karabakh, ma avrebbe investito e occupato per chissà quanti anni a venire anche aree della Repubblica di Armenia (che ha una superficie uguale a quella di Piemonte e Valle d’Aosta sommate). Ha disperatamente bluffato cercando di ingelosire Mosca con dichiarazioni sull’errore strategico armeno di avere cercato garanzie alla propria indipendenza solo nella Russia e con strizzate d’occhio a Bruxelles e a Washington. Putin aveva già deciso di abbandonare gli armeni al loro destino, nel nuovo stato di cose determinato dalla guerra con l’Ucraina. Anche per minimizzare le chances di successo di un’infiltrazione americana nella regione.

La posizione degli Stati Uniti sulla situazione in Artsakh

Ovviamente gli Usa sono apparsi interessati a sfruttare le difficoltà russe nel Caucaso: il 7 agosto la Tom Lantos Human Rights Commission, organismo bipartisan del Congresso americano, ha ascoltato una testimonianza dell’ex procuratore capo della Corte penale internazionale Luis Moreno Ocampo che aveva qualificato come “genocidio in corso” le azioni del governo azero che impedivano i rifornimenti di beni di prima necessità agli abitanti del Nagorno-Karabakh.

Il 14 settembre è stata la volta dell’assistente segretario di Stato per gli affari europei ed euroasiatici signora Yuri Kim a testimoniare di fronte alla Commissione Esteri del Senato americano con parole dal senso inequivocabile, fra le quali mancava non a caso quella di “genocidicio”: «L’amministrazione continua a credere che la pace nel Caucaso meridionale ha il potenziale di trasformare la regione e promuovere gli interessi americani. Abbiamo ora un’opportunità strategica di combattere l’influenza maligna nella regione da parte di attori come Russia, Cina ed Iran, ottenendo una pace durevole che espanderà la nostra cooperazione bilaterale economica e per la sicurezza e fornirà una più grande sicurezza energetica ai nostri partner e alleati occidentali. (…) Concludendo, voglio essere chiara circa una questione di importanza critica: gli Usa non approveranno nessuno sforzo o azione – a breve o a lungo termine – per una pulizia etnica o per l’attuazione di altre atrocità contro la popolazione armena del Nagorno-Karabakh».

Chi non ha nessuna speranza sono gli armeni dell’Artsakh

In buona sostanza, pochi giorni prima dell’offensiva decisiva il governo americano si dichiarava favorevole alla riconquista azera dell’Artsakh perché ciò permette di aprire un’epoca di pace a vantaggio anche della sicurezza energetica degli alleati Nato europei e di ridimensionare l’influenza di Russia e Iran nella regione, e limita la sua simpatia per gli armeni al dissenso nei confronti della pulizia etnica che gli azeri – vedi mai – potrebbero essere tentati di attuare.

Gli Usa cercheranno di trarre vantaggio – in funzione antirussa e antiraniana (gli azeri sono minoranza riottosa all’interno dell’Iran, che per questo motivo ha sostenuto l’Artsakh in funzione anti-Azerbaigian) – dall’espansione turca nel Caucaso, e nello stesso tempo metteranno pressione sui loro ambigui alleati denunciando la pulizia etnica anti-armena che con tutta probabilità condurranno.

La Russia non drammatizza troppo questa prospettiva: a fare i conti con la retorica americana sulla pulizia etnica saranno chiamati turchi e azeri, che per reazione si allontaneranno dall’Occidente e si avvicineranno alla Russia più di quanto già non facciano sottobanco. Gli unici che non hanno nessuna speranza sono gli armeni.

 

https://www.tempi.it/destino-artsakh-era-segnato-da-piu-di-un-anno/

  

mercoledì 20 settembre 2023

LA RETORICA GREEN DELLA FATA TURCHINA EUROPEA

In quello che quasi certamente sarà il suo ultimo discorso sullo stato dell'Unione, Ursula von der Leyen parla tanto di ambiente e ignora o minimizza i problemi che angustiano gli europei


Se l’Unione Europea fosse una barzelletta, bisognerebbe dire che c’è una notizia buona e una cattiva: quella cattiva è che Ursula von der Leyen ha pontificato in un nuovo verbosissimo discorso sullo stato dell’Unione, quella buona è che quasi certamente sarà l’ultimo. Il mandato della presidente tedesca, espressione di quel Partito popolare che ormai non può più vederla neanche dipinta, scadrà l’anno prossimo ed è molto improbabile che venga nuovamente scelta per guidare la Commissione europea.

Il canovaccio green della Von der Leyen

Von der Leyen ha riutilizzato lo stesso canovaccio, ovviamente di colore verde, anzi green, dell’anno scorso: ha sottolineato quanto l’Ue sia una potenza che si batte per il bene, cioè per l’ambiente, e in difesa di tutti i diritti individuali, purché rigorosamente “nuovi”. Non a caso ha terminato il suo discorso, durato oltre un’ora, con una frase che deve aver letto su un bacio Perugina versione europea: «È il momento di mostrare alle giovani generazioni che possiamo costruire un continente in cui si può essere chi si è, amare chi si vuole e puntare più in alto possibile».

Saccarosio a parte, la presidente della Commissione europea ha affrontato alcuni degli snodi cruciali che attendono l’Unione Europea nei prossimi anni, disseminando in un mare di vuota retorica proposizioni discutibili, sviste e ruffianate poco incisive.

I complimenti per placare gli agricoltori

La gran parte del discorso, come prevedibile, è stata dedicata all’ambiente e alla risposta offerta dall’Europa non al riscaldamento globale, terminologia troppo poco allarmista e quindi caduta in disuso a Bruxelles, bensì «a un pianeta in ebollizione». La risposta ovviamente è il Green Deal, il calderone di leggi e regolamenti che punta a fare dell’Europa il primo continente climaticamente neutro del mondo ma che in assenza di collaborazione da parte delle altre potenze, vedi Cina e Stati Uniti, rischia di rivelarsi inutile per il clima e dannoso per l’industria. Non è un caso se prima dell’estate Emmanuel Macron ha invocato un rallentamento e una pausa di riflessione.

Von der Leyen ha innanzitutto espresso il suo «apprezzamento agli agricoltori» per ringraziarli «perché ci procurano il cibo giorno dopo giorno». Se pensa che basti un po’ di adulazione per far seppellire alle associazioni di categoria l’ascia di guerra si sbaglia di grosso. La famigerata legge per il ripristino della natura, passata nonostante la bocciatura di tutte le commissioni in cui è transitata, richiede agli Stati membri di ridurre le terre produttive, le foreste e le aree marine di uno sbalorditivo 10%.

Agricoltori e pescatori sono allarmati (eufemismo), l’Europa rischia di diventare dipendente dall’estero anche per il cibo e la presidente non può davvero credere che basti dire che «l’autosufficienza alimentare è importante per noi» per risolvere il problema.

Le auto elettriche sono un problema

Anche sul tema delle auto elettriche, la presidente ha cercato di accontentare tutti senza riuscirci. Invece che ammettere che l’imposizione dell’acquisto di soli veicoli elettrici nuovi a partire dal 2035 è una misura troppo drastica, come molti dentro la stessa Commissione ormai sostengono, ha affermato che lancerà un’indagine sui sussidi di cui godono i produttori in Cina.

L’obiettivo è impedire che il mercato europeo venga «inondato da auto elettriche cinesi a basso costo», ma non basterà qualche indagine o qualche dazio, che scatenerebbe le ritorsioni di Pechino, per risollevare un’industria, quella dell’automotive, che Bruxelles con le sue regole rischia di affossare.

Bordate alla Cina, silenzio sugli Usa

Se da un lato è positivo che Von der Leyen si sia resa conto del problema che ha creato con la direttiva sulle auto elettriche, dall’altro fa finta di non sapere che la Cina non è l’unico competitor europeo. Anche gli Stati Uniti di Joe Biden, mai citati tra i paesi che «distorcono la concorrenza» attraverso i sussidi, stanno sottraendo investimenti e posti di lavoro all’Europa attraverso i 369 miliardi di sussidi dell’Inflation Reduction Act.

La presidente tedesca dovrebbe sapere che Volkswagen e Bmw hanno cancellato i propri investimenti in Europa per dirottarli negli Usa. Ma a quanto pare non ha trovato tempo per parlarne tra un discorso sulle «6.500 specie che arricchiscono la diversità biologica dell’Europa» e uno sulle «potenti foreste conifere del Nord».

Dov’è «l’Unione geopolitica»?

Quando poi afferma che l’Ue è diventata una «Unione geopolitica», Von der Leyen fa la parte della fata turchina, che trasforma i sogni in realtà. Se è vero che i Ventisette si sono dimostrati (più o meno) uniti nell’appoggiare l’Ucraina contro l’invasione russa, soprattutto grazie alla forza trainante degli Stati Uniti, è anche vero che tra i paesi baltici e quelli dell’Europa centrale e mediterranea le differenze sono enormi. Dall’Africa all’Asia, passando per i progetti energetici, i paesi europei non si muovono affatto all’unisono dal punto di vista geopolitico ma continuano ognuno a perseguire i propri interessi a discapito degli altri. Se passi avanti sono stati fatti negli ultimi anni, l’Unione geopolitica è ancora molto lontana.

Neanche una parola sulla natalità

Pare incredibile, ma tra i tanti argomenti affrontati la presidente della Commissione europea non ha trovato il tempo di dire neanche una parola sulla natalità, uno dei problemi più gravi che affligge l’Europa. L’inverno demografico infatti ha trasformato il vecchio continente in un continente vecchio, minandone economia e prospettive. Forse con questo tema in mente, a Von der Leyen è bastato dire che l’Europa ha bisogno di una «migrazione qualificata», elogiando lo «spirito del nuovo patto su migrazione e asilo», nonostante sia ancora in alto mare e nonostante sul tema migranti, come si vede dagli atteggiamenti ostili di Germania e Francia in questi giorni, l’Europa non abbia ancora capito che le coste dell’Italia non sono appena i confini del Belpaese ma quelli dell’Europa stessa.

A corto di successi da sbandierare, Von der Leyen ha perfino ricordato le gesta europee sulla distribuzione a tutto il mondo dei vaccini Covid (forse pensa di essere ancora nel 2021 o 2022) e sulla nascita di ben «38 fabbriche di acciaio pulito», senza ricordare però, come dichiarato a Tempi da Paolo Sangoi, presidente di Assofermet Acciai, che «il Green Deal avrà un conto salatissimo. In assenza di interventi a sostegno delle imprese assisteremo ad una perdita di competitività destinata a minare seriamente l’export della produzione europea di tutta la filiera».

L’ultimo discorso della Von der Leyen

«Ciò che è importante per gli europei è importante per l’Europa», è uno degli slogan utilizzati da Von der Leyen. Saranno le prossime elezioni a dire se i cittadini sono rimasti soddisfatti dal lavoro della Commissione. Nessuno ha la sfera di cristallo, ma dopo il voto la presidente tedesca potrebbe scoprire che la realtà è molto diversa da quella che propaganda da quattro anni.

@LeoneGrotti