giovedì 4 novembre 2010

DUE NOVEMBRE

Una bella meditazione di Marcello Veneziani, e, in conclusione, il cap.47 della Spe Salvi, insuperabile insegnamento di Benedetto XVI.

Aldilà di tutto, anche la morte è degna di essere vissuta
Vengono a prenderci i nostri cari quando è l’ora di morire.
Scusate l’irruzione violenta di un tabù, anzi del Tabù, in un luogo improprio. Ma vorrei parlarvi di un tema proibito e indecente che non si addice a un articolo di quotidiano, anche se in America Clint Eastwood ne ha fatto ora un film, Aldilà (Hereafter). Quel tema è il massimo dell’attualità, anche perché oggi è la vigilia del giorno dei morti, ed è il massimo dell’inattualità, perché non narra di bunga bunga o Pm, ma di qualcosa che ci tocca in modo essenziale.
Dunque, dicevo, vengono a prenderci i nostri cari quando è l’ora di morire. La solitudine del morente è solo apparente e riguarda il mondo dei viventi. Quando la vita sta per abbandonarci, il più caro tra i nostri cari scomparsi viene a prelevarci per il passaggio all’altra riva, come succedeva da bambini quando uscivamo da scuola. Ci aspetta sulla soglia, nella luce, invitante nello sguardo, a volte tende la mano e il morente lo chiama stupito ad alta voce, ha desiderio di combaciare all’invito, qualcosa lo trattiene al di qua della soglia, fino a che si libera e procede verso il suo accompagnatore definitivo. Tanti lo sanno, attraverso l’esperienza indiretta dei loro cari, ma raramente questa strana incursione finale si affaccia nei pubblici discorsi. Il pudore che avevamo sul sesso si è trasferito sulla morte, abbiamo vergogna a denudare queste conoscenze e le esperienze del dolore; abbiamo vergogna della morte. E temiamo di passare per superstiziosi primitivi, in cerca di consolazioni puerili; piccole stregonerie kitsch che non si addicono alla ragione civile e moderna. Eppure è un pensiero dolce e assai confortante che promette un ritorno, una ricongiunzione nella luce. Le rare esperienze di passaggio a cui ho assistito e le altre che mi sono state riferite confermano tutte questo percorso: quando il morente è alla fine, la persona più amata che ha perso in vita - solitamente il padre, la madre, la moglie - gli riappare e lo conduce oltre. Anche persone che ignoravano la ricorrenza di questa visione finale la riferiscono con disarmante puntualità ma spesso con disattenzione, come un marginale dettaglio. E invece quella testimonianza è importante per noi perché ci dice una cosa straordinaria. Non si muore soli, al buio, nella cecità estrema della vita, ma mediante una visione, una fonte di luce e si va via in compagnia.
Quell’esperienza elementare, così diffusa e così vera perché non si ha voglia di fingere in punto di morte, racconta il destino della nostra vita più di teorie scientifiche, mediche o psicofisiche. La spiegazione scientifica di quella visione è che il pathos delirante dell’agonia porta all’allucinazione; la concentrazione sulla vita che se ne va, evoca il trauma di quando morì la persona più cara e risveglia il suo ricordo onirico in uno stato di semilucidità che ha le sembianze della veggenza. Ma è una spiegazione che nulla spiega, o comunque spiega in modo insufficiente i moti dell’anima, le visioni della mente e la meticolosa ricorrenza di questi incontri finali.
La prima osservazione che si può fare riguarda la curvatura del tempo, ovvero la riemersione del passato insieme al futuro. Il tempo si curva e ciò che fu, ritorna; la sequenza lineare del tempo profano si sfalda nella pienezza assoluta di un istante apicale, ove tutto è presente. Al morente è data in extremis questa veggenza profetica della vita e questa visione sferica del tempo, preludio di uno stato ultraterreno o combustione finale del tempo al momento del congedo.
La seconda, promettente osservazione è che chi è scomparso non è inghiottito nel nulla e nel buco senza fondo del tempo passato, ma vive come un’idea (l’eidos di Origene); è presente alla vita dei suoi cari ed è vicino nei loro passaggi cruciali. Qualcosa sopravvive alla vita, e chi ama porta dentro di sé la presenza dell'amato: l’amore è il suo respiro, amare è come dire tu vivi anche se non sei più qui, nel corpo e sulla terra.
La terza implicazione discende dalla precedente: la trasmissione di padre in figlio, il seme della tradizione, non è un’ideologia o un’illusione, ma è un evento reale e simbolico al tempo stesso, naturale e soprannaturale. C’è un passaggio di consegne, una catena che si rinnova, un procedere mano nella mano oltre la vita e tramite il corso delle generazioni. L’amore non è un modo di dire che accompagna alcuni momenti della vita, ma è il filo conduttore tenace e sommerso che guida la vita e non ne permette la dispersione. Dovremmo invertire i saluti, dirci addio quando ci allontaniamo provvisoriamente e arrivederci quando ci allontaniamo definitivamente. Di più non sappiamo dire; però davanti alla disperata euforia dei nostri giorni, dove l’essere sparisce nel nulla ma si gode la vita al consumo, una strana allegria ci prende nel sapere che la morte restituisce la vita attraverso l’amore. C’è qualcosa, c’è qualcuno che rende non solo la vita degna di essere vissuta ma perfino la morte. Come l’estate di san Martino, c’è pure l’estrema allegria del 2 novembre.

47. Alcuni teologi recenti sono dell'avviso che il fuoco che brucia e insieme salva sia Cristo stesso, il Giudice e Salvatore. L'incontro con Lui è l'atto decisivo del Giudizio. Davanti al suo sguardo si fonde ogni falsità. È l'incontro con Lui che, bruciandoci, ci trasforma e ci libera per farci diventare veramente noi stessi. Le cose edificate durante la vita possono allora rivelarsi paglia secca, vuota millanteria e crollare. Ma nel dolore di questo incontro, in cui l'impuro ed il malsano del nostro essere si rendono a noi evidenti, sta la salvezza. Il suo sguardo, il tocco del suo cuore ci risana mediante una trasformazione certamente dolorosa « come attraverso il fuoco ». È, tuttavia, un dolore beato, in cui il potere santo del suo amore ci penetra come fiamma, consentendoci alla fine di essere totalmente noi stessi e con ciò totalmente di Dio. Così si rende evidente anche la compenetrazione di giustizia e grazia: il nostro modo di vivere non è irrilevante, ma la nostra sporcizia non ci macchia eternamente, se almeno siamo rimasti protesi verso Cristo, verso la verità e verso l'amore. In fin dei conti, questa sporcizia è già stata bruciata nella Passione di Cristo. Nel momento del Giudizio sperimentiamo ed accogliamo questo prevalere del suo amore su tutto il male nel mondo ed in noi. Il dolore dell'amore diventa la nostra salvezza e la nostra gioia. È chiaro che la « durata » di questo bruciare che trasforma non la possiamo calcolare con le misure cronometriche di questo mondo. Il « momento » trasformatore di questo incontro sfugge al cronometraggio terreno – è tempo del cuore, tempo del « passaggio » alla comunione con Dio nel Corpo di Cristo [39]. Il Giudizio di Dio è speranza sia perché è giustizia, sia perché è grazia. Se fosse soltanto grazia che rende irrilevante tutto ciò che è terreno, Dio resterebbe a noi debitore della risposta alla domanda circa la giustizia – domanda per noi decisiva davanti alla storia e a Dio stesso. Se fosse pura giustizia, potrebbe essere alla fine per tutti noi solo motivo di paura. L'incarnazione di Dio in Cristo ha collegato talmente l'uno con l'altra – giudizio e grazia – che la giustizia viene stabilita con fermezza: tutti noi attendiamo alla nostra salvezza « con timore e tremore » (Fil 2,12). Ciononostante la grazia consente a noi tutti di sperare e di andare pieni di fiducia incontro al Giudice che conosciamo come nostro « avvocato », parakletos (cfr 1 Gv 2,1).

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