martedì 29 ottobre 2019

IN CINA RADONO AL SUOLO LE CHIESE, MA IL VATICANO PIANGE PER PACHAMAMA


L’idolatria, amazzonica e non


Con tutte le questioni che ci sareb­bero da discutere, tra minacce di dissesti finanziari, epurazioni di gendarmi e Sinodi che s'arrovellano sul dire sì o no ai viri pro­bati e alle diaconesse - ma non s'era fatta una commissione ad hoc che non aveva otte­nuto alcun risultato?- e una fede che in tan­te parti del mondo s'assopisce ogni giorno che passa, la polemica sulle statuette getta­te nel Tevere appare la più sterile. Super­flua.

All'alba di lunedì scorso un uomo dal volto misterioso entra nella chiesa di Santa Maria in Traspontina e ruba le piccole Pa­chamama che erano state portate, tra ca­noe, reti arcobaleno, mestoli e altre vario­pinte espressioni dell'artigianato amazzo­nico. Installazione lecita e autorizzata per sensibilizzare tutti ai drammi della regione latinoamericana. Prese le statuette. una a una sono state scaraventate nel Tevere, co­me volevano fare nell'Ottocento gli anticle­ricali con il cadavere imbalsamato di Pio IX. Sarebbe finita la vicenda, con l'ola di chi considera il raid una riparazione per la profanazione e chi ritiene che si trattasse nient'altro che d'un furto e quindi un reato. Martedì, però, è tornato sull'argomento il sito ufficiale Vatican News, con un edito­riale del direttore Andrea Tornielli che - citando anche san John Newman - defini­sce i responsabili di quanto accaduto "nuo­vi iconoclasti".

Pope Francis Asks Pardon for Theft of ‘Pachamama’ Fertility Statues
E qui, anziché chiudere il caso, si scatena il pandemonio. Perché par­lare di iconoclastia a proposito delle statui­ne che ritraggono una signora ignuda e in­cinta significa attribuire a esse il significa­to di immagine sacra. Ma sacra per chi? Dal Vaticano, la scorsa settimana, è stato spie­gato che la statua non rappresenta la Vergi­ne Maria. Quindi? Per chi sarebbe sacra? Se non è la Madonna, in cosa consisterebbe la sua sacralità? Nell'essere la dea della fertilità? Non risulta che il cristianesimo contempli tale divinità. Padre Antonio Spa­daro, direttore della Civiltà Cattolica e membro del Sinodo, è andato oltre con un tweet che paragona l'affogamento delle Pa­chamama lignee alla devastazione delle
statue operata dalle milizie del Califfato islamico: "L'operazione dell'Isis - scrive Spadaro commentando la foto postata che ritrae i fondamentalisti armati di piccone scagliarsi contro le statue - che fu definita come 'la più grande demolizione degli idoli pagani dell'epoca moderna'. I miliziani hanno giustificato la loro azione afferman­do di dover 'distruggere gli idoli in quanto rappresentazioni diverse da Dio'".

A parte che c'è una differenza evidente tra installa­re degli idoli in un museo e sull'altare di una chiesa cattolica, sarebbe stato interes­sante che analoghi parallelismi storico-ar­tistici fossero stati fatti ogniqualvolta che il regime cinese ordina di radere al suolo le chiese cattoliche tra una provincia e l'altra dell'immenso paese asiatico. O quando un amministratore voglioso di compiacere Pe­chino ordina di rimuovere tutte le croci vi­sibili perché "deturpano lo skyline cittadi­no". O quando, ancora, si impedisce al clero locale di partecipare alle esequie di un ve­scovo rimasto fedele a Roma, negando alla salma di riposare in cattedrale, come ulti­mo sfregio. Su questo, mai un tweet, mai un editoriale indignato con l'ausilio di citazio­ni di santi. E qui di iconoclastia ci sarebbe da parlare in abbondanza. Ma non si può dire: le ragioni della politica, del più vera­ce realismo politico oggi imperante, impon­gono il silenzio.
 
Il Santuario di“Nostra Signora della Montagna” ad Anlong (Guizhou).
abbattuto dopo l'accordo firmato col Vaticano nel 2018

O meglio, impongono di di­re che tutto va bene, che il dialogo vince su tutto, che la riconciliazione è avviata e che il sogno ora è di fare i biglietti del viaggio aereo papale per Pechino. Chi dissente è istantaneamente iscritto nel catalogo di co­loro che "attaccano il Papa" (come è solito dire il cardinale Maradiaga).

 E così il cardi­nale Joseph Zen, che non appare meno de­gno d'attenzione di un altro illustre porpo­rato qual è il cardinale Claudio Hummes, relatore del Sinodo amazzonico e redattore del documento finale, diventa un anziano prete che vive nel passato, incapacitato a comprendere come va il mondo. 
E le chiese rase al suolo? Capita. Il problema sono le Pachamama buttate nel Tevere. (mat.mat)ilfoglio 24 ottobre



lunedì 28 ottobre 2019

RITORNO SULLA TERRA

Perché la politica del rancore contro i ceti produttivi 
è letale per l'esecutivo.

Batosta della maggioranza in Umbria, Salvini e Meloni vincono con venti punti di distacco. Il governo Conte è in fase di logoramento accelerato, le alleanze locali tra Cinque Stelle e Dem sono già finite.

Il governo non cadrà oggi, ma il suo destino è quello di andare a spegnersi più o meno lentamente. L'alleanza tra Cinque Stelle e Lega a livello locale è finita ancor prima di cominciare, quella del governo a Roma è minata dopo poche settimane di vita. Il voto in Umbria è stato esattamente quello previsto: un grande test di politica nazionale. 


Venti punti di distacco destra e sinistra (Donatella Tesei è al 57,49%, il candidato Pd-M5s, Vincenzo Bianconi, al 37,52%), la polverizzazione della maggioranza giallo-rossa, il tonfo del Movimento Cinque Stelle, l'anonimato e limbo del Pd, il trionfo della Lega,  la crescita forte e costante di Fratelli d'Italia, Salvini che si conferma leader acchiappa-voti sintonizzato con l'elettore, Meloni che è già un'altra opzione rispetto al segretario leghista, un voto che è una chiara rivolta contro la legge di Bilancio e la politica dell'assalto contro i produttori medi e piccoli, un presidente del Consiglio che è lo sconfitto più sconfitto di tutti ma parla come se provenisse da un altro pianeta. Tic tac, c'è un conto alla rovescia, è quello sulla durata del Conte bis.

Il voto in Umbria è una magistrale lezione di politicaIl governo è in carica dal 5 settembre, la guerra di logoramento al suo interno è già partita e finirà per lasciarlo a terra, esanime.  Il segno premonitorio del crash è arrivato con la foto scattata a Narni, l'immagine di Nicola Zingaretti, Roberto Speranza, Luigi Di Maio e Giuseppe Conte. Mancava Renzi. Era un memento prima del voto, con questo risultato, l'assenza di Renzi diventa un "buco nero" della maggioranza. È ben visibile "l'orizzonte degli eventi" e si capisce che il rischio di collisione è enorme perché Renzi con la sua assenza marca la distanza, sta dicendo agli elettori che lui e il suo partito sono qualcosa di diverso pur essendo parte fondamentale della coalizione di governo. È un paradosso ma la vita e la politica sono in perenne cortocircuito. Domanda sul taccuino: diverso da cosa? Dal nocciolo radioattivo della politica del governo, un masso di kryptonite che lo sta fiaccando.

Alleanza in disarmo. Roberto Speranza, Nicola Zingaretti, Luigi Di Maio e Giuseppe Conte con il candidato umbro Vincenzo Bianconi. (Foto Ansa)

Il governo ha varato una legge di Bilancio ipotecata dalle clausole di salvaguardia sull'Iva (23 miliardi), al suo interno ci sono una serie di norme su evasione e contante, gabelle di vario genere, che tradiscono un'impostazione ideologica della manovra. Siamo di fronte a una politica del rancore che colpisce i ceti produttivi medio-piccoli, il "popolo delle partite Iva", soggetti considerati dai Cinque Stelle (e purtroppo anche dal Pd) come degli incalliti evasori fiscali. 

Non è in discussione la lotta all'evasione (che sarebbe da unire a una riforma del Fisco e applicazione rigorosa dello Statuto del contribuente), ma il pre-giudizio che appare lampante nella comunicazione quotidiana degli esponenti del governo. Al Torquemada fiscale va aggiunta un'idea di sistema giudiziario - basta leggere cosa dice il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede - in cui con la riforma della prescrizione l'imputato rischia di restare sotto processo a vita. Si tratta di una barbarie che l'Unione Camere Penali, la più autorevole associazione dei penalisti italiani, ha definito in tre parole: "Imputato per sempre". 

Questa politica del rancore impatta contro le aspettative del ceto medio che dalla grande crisi del 2008 si ritrova in un mondo dove ruggiscono i leoni, sono le conseguenze inattese della globalizzazione. Spaesato, inquieto, impaurito, il contribuente italiano è catapultato in un mondo ostile, senza protezione, con il suo peggior nemico che in realtà dovrebbe essere il suo baluardo: lo Stato. In queste condizioni, con questo programma, nessun governo (di qualsiasi segno sia) può pensare di riscuotere la fiducia degli italiani. 

Il voto dell'Umbria è una rivolta contro questa linea politica. Si punta il dito contro Luigi Di Maio, ma il responsabile della politica del governo è il presidente del Consiglio, non bisogna mai dimenticarlo. Ripetiamo quanto scritto su List qualche giorno fa: c'è un problema di leadership enorme alla guida del governo. L'esercizio della premiership da parte di Conte mostra grandi limiti. Il fu avvocato del popolo oggi si smarca dal populismo, incontra il Presidente della Cei Gualtiero Bassetti (e fa sapere di aver chiesto lui l'incontro con il capo dei vescovi), ma gratta gratta egli è esattamente quel che si vede, un politico camaleontico che ha assecondato una politica che sta alienando il ceto medio dai partiti del suo stesso governo. 

Una borghesia spaesata, impaurita, in cerca di rassicurazione e non di vendetta (fiscale e giudiziaria) sta sostenendo la corsa della Lega nel voto regionale, perché la politica del rancore conduce all'estremizzazione dell'elettorato moderato in un paese dove la sinistra non è mai stata maggioranza. Conte non solo non ha fermato questa deriva giacobina che viene dalla confusione post-ideologica dei grillini e dei dem, ma se ne è fatto interprete in una versione da Robin Hood che presto incontrerà il muro della realtà. 

Oggi l'Umbria, domani la Calabria, poi l'Emilia Romagna e via così. Abbiamo anticipato l'esito e i temi del voto. Siamo di fronte a una rivolta. Al netto dei fattori locali, questo turno elettorale misura la stratosferica distanza tra la maggioranza giallo-rossa e il paese reale. Non basta fare un governo contro (Salvini), non è sufficiente avere l'appoggio delle cancellerie internazionali, serve una cosa che si chiama politica. E non può essere quella del rancore. Non si governa contro gli elettori. 

Tratto da LIST

venerdì 25 ottobre 2019

LA TEORIA MORALE CHE FALLÌ È TORNATA DI MODA


Questa analisi di padre Thomas Berg, vice rettore e professore di teologia morale al St Joseph’s Seminary (Dunwoodie) a Yonkers, New York,  ci mostra come una vecchia versione della teologia morale, il Proporzionalismo, una versione che è stata ed è perdente perchè succube della posizione del mondo, tenuta a bada dai pontificati di San Giovanni Paolo II e papa Benedetto XVI, sia tornata prepotentemente di moda. 
Ecco l’articolo, pubblicato sul Catholic Herald, nella traduzione di Riccardo Zenobi. 
Non c’è bisogno che un cattolico sia un teologo, un giornalista o addirittura un osservatore di affari ecclesiali per comprendere che c’è stata una battaglia in corso durante il pontificato di Francesco. È una lotta per l’egemonia tra due contrapposte teorie morali. Quel conflitto è stato notevolmente più pronunciato nei passati 3 anni spesso con manifestazioni pubbliche.
Dalla promulgazione dell’esortazione apostolica Amoris Laetitia e la conseguente tempesta infuocata su cosa esattamente è implicato riguardo la Santa Comunione, il divorzio e il risposarsi; alla ricostituzione dell’istituto Giovanni Paolo II di Roma, il licenziamento senza precedenti di due importanti membri di facoltà e l’assunzione di due teologi morali noti per sfidare l’insegnamento della Chiesa su contraccezione e omosessualità; e i vescovi tedeschi, guidati dal cardinale Reinhard Marx, che si imbarcano su un “processo sinodale” apparentemente contrario ai desideri di papa Francesco, e indubbiamente indirizzati al ripensamento del celibato sacerdotale e certamente dell’insegnamento della Chiesa sulla morale sessuale. È tutto connesso.
È uno sforzo finale di un blocco di grigi e vecchi teologi morali e vescovi che la pensano allo stesso modo al fine di ottenere l’egemonia per il loro marchio di teologia morale, ossia, il proporzionalismo.
Proporzionalismo è una parola ombrello che raccoglie un insieme di diversi approcci alla teologia morale che condividono largamente certe credenze sulla natura umana e la vita morale.
Ognuno è una versione dell’approccio “il fine giustifica i mezzi” [applicato] alla risoluzione di problemi morali.
Il proporzionalismo offre la possibilità di impegnarsi in una analisi di valore morale, che presupponendo una buona intenzione o una ragione sufficientemente ponderata nell’attore morale,  potrebbe potenzialmente validare ogni azione – anche quelle che le Sacre Scritture e il magistero perenne della Chiesa hanno dichiarato essere intrinsecamente malvagie.
Il proporzionalismo fiorisce in tre decadi dagli anni ’60 agli anni ’80 e domina i seminari cattolici e i dipartimenti di teologia morale su entrambi i lati dell’Atlantico, particolarmente in Germania e notabilmente negli Stati Uniti. Era il veicolo teoretico per giustificare il dissenso teologico dall’insegnamento di san Paolo VI sulla contraccezione in Humanae Vitae. E ben presto divenne chiaro che il proporzionalismo potrebbe giustificare molto di più.
Molti dei vescovi di oggi sono stati istruiti come seminaristi nel proporzionalismo. Non tutti l’hanno abbracciato, ma molti indubbiamente lo hanno fatto, e la loro comprensione della vita morale cristiana è stata profondamente segnata dalla loro esposizione ad esso.
In aggiunta al suo concetto di coscienza morale radicalmente autonoma (io – e solo io – decido cos’è bene e male), il proporzionalismo segue molti degli altri percorsi del moderno spirito dei tempi: il soggettivo vince l’oggettivo, la coscienza vince la norma, una buona intenzione vince il male intrinseco. La teoria presume che virtualmente ogni esperienza morale umana è talmente irriducibilmente complessa che nessuna norma morale potrebbe potenzialmente venir generata nel tempo per rispondere ad ogni situazione, e nessun comportamento in sé stesso potrebbe essere compreso come sempre immorale in ogni circostanza.
Papa san Giovanni Paolo II sentì l’urgenza di rispondere ai principi fondamentali del proporzionalismo, affrontandoli 26 anni fa nell’Enciclica Veritatis splendor. Nei paragrafi 54-64, ha rifiutato la nozione della coscienza come decisione autonoma, e nei paragrafi 74-83 ha rifiutato la negazione da parte del proporzionalismo degli atti intrinsecamente malvagi.
Da parte sua, il papa emerito Benedetto XVI è stato inesorabile nella sua critica al proporzionalismo, descrivendolo come una teoria morale staccata da fondamenta metafisiche, “sordo e cieco alla parola divina sull’essere” e una teoria morale “che contraddice le basi fondamentali della visione cristiana”. È andato addirittura così avanti – in più di un’occasione – fino a suggerire che le idee proporzionaliste sono almeno in parte da incolpare per la crisi degli abusi nel clero.
Ciononostante, il proporzionalismo ha avuto un largo appeal tra i progressisti cattolici. La sua apparenza esterna di eminente ragionevolezza, risultante primariamente dalla sua sottomissione allo spirito dei tempi della morale secolare, è stata anche aumentata dalle circostanze storiche.
Il proporzionalismo è stato una reazione teologica ad un più vecchio metodo di fare e insegnare teologia morale che aveva dominato nei seminari cattolici dal tardo XVI alla metà del XX secolo. Quel metodo –  certe volte chiamato casuistica – mentre dava alla Chiesa una morale teologica solida, aveva anche un approccio legalistico alla vita morale che toglieva alla verità morale la sua ricchezza e la vitalità centrata in Cristo.
Con buone ragioni il Vaticano II ha chiamato ad un rinnovamento nell’insegnamento della morale teologica: un insegnamento morale profondamente centrato sulle sacre scritture e una nuova enfasi nella virtù, sulle beatitudini e sul discepolato incentrato su Cristo.
E ci sono stati alcuni buoni passi presi in quella direzione. Eppure, nel complesso, molto della teologia morale cattolica corrente è collassata sotto il furioso assalto culturale degli anni ’60. E in quel milieu, le prima teorie proporzionaliste sono proliferate.
Possiamo solo essere grati che molti tra coloro della nuova generazione di studenti tra l’inizio e la metà degli anni ’90 iniziarono a prendere le distanze dal proporzionalismo che continuava ad essere insegnato nei loro corsi di teologia morale. Se la teoria continua ad esercitare un’influenza ancora oggi, lo fa principalmente attraverso una vecchia generazione di preti e vescovi che cocciutamente la sostengono, mentre rigetta l’insegnamento di Veritatis Splendor.
Non sorprende dunque che, attraverso le decadi, una certa narrazione è sorta sul proporzionalismo, difendendo i suoi aderenti con una caricatura dei loro oppositori. Gli aderenti sono ragionevoli e bilanciati; gli oppositori sono rigidi ed estremi. I proponenti usano un “discernimento” morale in modo da comprendere la specifiche situazioni dell’individuo; gli oppositori no. I proponenti sono pastoralmente realisti e sensibili; gli oppositori non tanto.
Papa Francesco, da parte sua, ha mostrato simpatia per quella narrazione. Uno può pensare che ciò sia dovuto al suo essere stato esposto al proporzionalismo per molta parte della sua vita. Quando papa Francesco parla di preti che trasformano il confessionale in una “camera di tortura”, o che farisaicamente “indottrinano il Vangelo”, trasformando il suo messaggio di vita in “pietre morte che vengono gettate sugli altri”, può semplicemente riferirsi al vecchio approccio manualistico alla vita morale. Ma serve anche a rinforzare la narrazione proporzionalista.
L’ultima versione della narrazione afferma che un complotto di cattolici americani conservatori sta minacciando Francesco con lo scisma o almeno stanno provando a minare il suo pontificato. Se i seguaci del proporzionalismo hanno scelto di utilizzare come arma l’idea di scisma, forse è perché sono disperati.
Ciononostante, il “processo sinodale” della Chiesa tedesca, insieme al Sinodo amazzonico a Roma, mostrano un gruppo di vescovi progressisti, teologi e giornalisti hanno costruito  una nuova opportunità per continuare a premere sul Papa per una chiara affermazione della revisione della teologia morale cattolica ispirata al proporzionalismo che, al di là del tacito sostegno, qualcuno ipotizza che sia già accordata.
Fra Thomas Berg è vicerettore e professore di teologia morale al seminario San Giuseppe (Dunwoodie) a Yonkers, New York. È autore di ‘Hurting in the Church: A Way Forward 
for Wounded Catholics’ (Our Sunday Visitor, 2017)

giovedì 24 ottobre 2019

PAPA FRANCESCO E L’URAGANO DI NOME SARAH



Robert Sarah è un famoso e tosto cardinale guineano. Nel 2001, Papa Giovanni Paolo II, a cui fu molto legato, lo nominò segretario della congregazione per l’Evangelizzazione dei popoli. Nel 2010, Papa Benedetto XVI, a cui tuttora è molto legato, gli concesse la porpora. Nel 2014, quattro anni dopo, Papa Francesco lo scelse come prefetto della congregazione per il Culto divino e la disciplina dei sacramenti. Sarah è una voce molto importante, molto ascoltata, molto appassionata.


Negli ultimi tempi, in coincidenza con il pontificato di Papa Francesco, è diventato uno dei cardinali maggiormente seguiti da quello che potremmo volgarmente definire come il fronte con minor tasso progressista della chiesa e da questa settimana Sarah farà parlare molto di sé grazie a un libro scandaloso, pubblicato con Cantagalli, che da ieri si trova in libreria.

 Il libro ha un titolo dai toni apocalittici, Si fa sera e il giorno ormai volge al declino, e il contenuto del saggio di Sarah, che lui stesso definisce in alcuni passaggi scandaloso, “perdonatemi se alcune mie parole vi scandalizzeranno”, rischia, per la chiesa di oggi, di avere la forza di un uragano. Nel suo saggio, che arriva a pochi giorni dall’atteso e controverso Sinodo sull’Amazzonia, Sarah, con uno stile per così dire eminenziale, non critica mai direttamente Papa Francesco, anzi più volte lo elogia all’interno del libro (viene nominato 55 volte, Papa Benedetto 132) ma segnala fattori di crisi che sfuggono all’agenda bergogliana.

Al centro del pensiero di Sarah – al netto di critiche molto e troppo severe alla società liberale, al liberalismo, al capitalismo, al consumismo e agli eccessi del multiculturalismo – vi è l’idea che la chiesa non possa sopravvivere senza avere a cuore il futuro dell’Europa e il destino dell’occidente (“La decadenza dell’occidente è il risultato dell’abbandono da parte dei cristiani della loro missione”) ma vi è soprattutto l’idea che “la crisi europea sia essenzialmente una crisi spirituale, che affonda le sue radici nel rifiuto della presenza di Dio nella vita pubblica”. Senza Europa, la chiesa non può andare lontano. Senza Dio, l’Europa non può andare lontano. Sarah ovviamente non si ferma a questo e come un uragano arriva a scoperchiare diverse verità della chiesa moderna.

Il cardinale critica la chiesa che ha trasformato l’ambientalismo in una religione, con i suoi fedeli e i suoi infedeli, e dice di provare “rammarico del fatto che molti vescovi e molti sacerdoti trascurino la loro missione essenziale, che consiste nella propria santificazione e nell’annuncio del Vangelo di Gesù, per impegnarsi invece in questioni sociopolitiche come l’ambiente, le migrazioni o i senzatetto: è impegno lodevole occuparsi di questi temi ma se trascurano l’evangelizzazione e la propria santificazione si agitano invano. La chiesa non è una democrazia nella quale alla fine è la maggioranza a prendere le decisioni”.

Poi denuncia il “degrado della liturgia trasformata in spettacolo, la negligenza nelle celebrazioni e nelle confessioni, la mondanità spirituale ne sono solo i sintomi”, attaccando “i sacerdoti che desiderano che le proprie azioni siano efficaci, apprezzate e valutate secondo criteri mondani” (non crediamo, dice Sarah, di poter vivere da cristiani adottando tutti gli atteggiamenti di un mondo senza Dio: “A forza di non vivere come si crede si finisce per credere come si vive”).

E ancora accusa “i ferventi sostenitori della postmodernità”, tra i quali anche i fautori del gender che vogliono decostruire la famiglia, secondo i quali “i valori tradizionali della civiltà giudaico-cristiana sarebbero desueti, inutili e pericolosi”. E, con parole che ricordano gli affondi di Ratzinger a Ratisbona, mette in rilievo i pericoli di un “islamismo fanatico e fondamentalista”, che “promuove una religione fondata sulla pura obbedienza a una legge estrinseca che non si rivela nella coscienza, ma si impone attraverso la società politica”, che “vive la tentazione di una religione che rifiuta di lasciarsi purificare dalla ragione” e che al contrario del cristianesimo tende a imporre “il proprio credo contro la ragione, con la forza, con la violenza” mentre “predica un dio che può ordinare ciò che va contro alla dignità dell’uomo e viola la coscienza e la libertà”. Al centro dei ragionamenti di Sarah vi è l’idea che la chiesa del futuro debba resistere alla tentazione più grande del nostro tempo, la mondanità, il mondo senza Dio, e per questo il compito degli uomini di fede è combattere faccia a faccia un ateismo viscido e sfuggente che Sarah definisce fluido. 
  
Ma per capire bene la profondità della critica del cardinale africano può essere utile attingere ai contenuti di una lunga intervista rilasciata pochi giorni fa da Sarah al National Catholic Register, utile a capire meglio in che senso l’obiettivo del saggio è proprio quello di denunciare i problemi della chiesa di oggi. Il declino della fede nella Presenza reale di Gesù nell’eucaristia è al centro dell’attuale crisi della chiesa e del suo declino, specialmente in occidente. Vescovi, sacerdoti e fedeli laici siamo tutti responsabili della crisi della fede, della crisi della chiesa, della crisi sacerdotale e della scristianizzazione dell’occidente”.
Sarah, nel suo ragionamento, definisce “falsi profeti” tutti “coloro che annunciano ad alta voce rivoluzioni e cambiamenti radicali” e che nel fare questo “non stanno cercando il bene del gregge: cercano la popolarità dei media al prezzo della verità divina” e l'attualità del suo pensiero ha una forza non indifferente se si pensa proprio ai temi del Sinodo sull’Amazzonia, che si aprirà la prossima settimana e sul quale il cardinale ha qualcosa in più di un sospetto: “Temo che alcuni occidentali confischeranno questa assemblea per portare avanti i loro progetti. Penso in particolare all’ordinazione degli uomini sposati, alla creazione di ministeri per le donne o alla giurisdizione dei laici… Approfittare di un sinodo particolare per introdurre questi progetti ideologici sarebbe una manipolazione indegna, un inganno disonesto, un insulto a Dio, che guida la sua chiesa e gli affida il suo piano di salvezza. Inoltre, sono scioccato e indignato per il fatto che il disagio spirituale dei poveri in Amazzonia venga usato come pretesto per sostenere progetti tipici del cristianesimo borghese e mondano”.
Al centro del pensiero di Sarah vi è la possibilità che il Sinodo sull’Amazzonia si trasformi in un sinodo per abolire il celibato, “uno dei modi concreti in cui possiamo vivere questo mistero della croce nelle nostre vite che inscrive la croce nella nostra carne e per questo è diventato insopportabile per il mondo moderno”. E su questo punto, nel suo libro, Sarah sembra voler rivolgere un messaggio a tutti coloro che hanno scelto di affrontare il tema in modo troppo obliquo. Gesuitico? “Tra le cause delle moltiplicate infedeltà all’impegno del celibato – ricorda Sarah – Benedetto XVI registra ‘una tendenza, dettata da retta intenzione ma errata, a evitare approcci penali nei confronti di situazioni canoniche irregolari’. A mio avviso, questo punto è particolarmente importante. Abbiamo bisogno di ritrovare il senso della pena. Un sacerdote che commette un errore deve essere punito. Ciò significa dimostrare carità nei suoi confronti, perché così gli si dà la possibilità di correggersi. Ma è anche segno di giustizia verso il popolo cristiano. Un sacerdote che venga meno alla castità deve subire una pena”.
Non sappiamo quante possibilità ci siano che la linea di Sarah possa conquistare la maggioranza del prossimo Sinodo (poche, a guardare l’elenco dei partecipanti). Ma se così dovesse essere per il nuovo presidente del Tribunale di prima istanza del vaticano, Giuseppe Pignatone, potrebbe esserci più lavoro del previsto.
IL FOGLIO 4 Ottobre 2019


SPAVENTARE I CETI MEDI: LA SINISTRA È MAESTRA



Le settimane della manovra finanziaria sono state uno straordinario esercizio di masochismo

Di Antonio Polito

C’è una coazione a ripetere nei governi cui partecipa la sinistra da 25 anni a questa parte; una specie di maledizione, come se lassù ci fosse qualcuno che le vuole talmente male da farle commettere sempre lo stesso errore.

Il quale consiste nello spaventare fiscalmente i ceti medi ma senza produrre risultati che portino sollievo effettivo ai ceti popolari. Se fosse ancora vivo il grande storico Carlo Cipolla, avrebbe potuto aggiungere al suo aureo libretto una ulteriore legge fondamentale della stupidità, stavolta politica. Le settimane della manovra finanziaria sono state uno straordinario esercizio di masochismo. Terminato nel più classico dei modi, ovverosia con il rinvio delle proposte più controverse, l’abbassamento del limite dei contanti, delle sanzioni per i commercianti che non si dotano del Pos, del carcere per gli evasori. Ma l’impressione provocata da queste misure è rimasta viva nel ricordo di chi le temeva: i lavoratori autonomi hanno capito benissimo che solo la debolezza del governo ne ha fermato la mano. Allo stesso tempo le risorse racimolate per il taglio del cosiddetto «cuneo fiscale» (un altro Santo Graal della sinistra), al massimo 3 miliardi, non sono tali da potersi aspettare che nelle case dei lavoratori a reddito fisso si festeggerà il Natale brindando al governo.

In materia fiscale la politica degli annunci è suicida. Le cose o si fanno o non si fanno. Un tempo si metteva tutta questa parte nel decretone di fine anno proprio per tagliare corto alle discussioni. Oggi invece il governo è così dilaniato tra gli interessi elettorali divergenti dei tre contraenti, quanto se non più del precedente, che ognuno ritiene le proprie sorti distinte e divergenti da quelle degli altri, e dunque combatte all’ultimo sangue anche sulla più insignificante delle accise.
Il ritorno di un ministro «politico» al Tesoro (che mancava dai tempi della Prima Repubblica, all’inizio anche Tremonti era un «tecnico») aveva fatto sperare in una guida di questo caotico processo. Così non è stato. E non certo solo per colpa del povero Gualtieri.

di  Antonio Polito Corriere della sera | 22 ottobre 2019


mercoledì 23 ottobre 2019

BIBBIANO : UNA CULTURA ANTIFAMIGLIA


Si è tenuto ieri sera a Cesena, organizzato dal Crocevia, l’incontro sul tema  Famiglia, educazione, affido con la partecipazione della giornalista di Avvenire Lucia Bellaspiga


In attesa della pubblicazione sul blog del video completo dell’incontro, proponiamo una intervista a Mons. Massimo Camisasca che centra il tema culturale della serata.







«Esiste una cultura molto invadente che vede nella famiglia un luogo potenzialmente oppressivo e perciò da colpire ».

Così il vescovo di Reggio Emilia, Massimo Camisasca, coglie uno degli aspetti più preoccupanti dell’inchiesta esplosa lunedì scorso. Un caso che rischia di confermare un sospetto che da tempo aleggia: esiste in alcuni settori delle istituzioni pubbliche una cultura anti-famiglia che vorrebbe sempre e comunque colpevolizzare l’operato dei genitori. Qualcuno ha puntato il dito contro una certa ideologia statalista ancora egemone in certi ambiti delle amministrazioni locali. Altri hanno fatto notare che alcune presunte responsabili dei fatti sarebbero state mosse dalla cosiddetta cultura Lgbt.

Qual è la sua opinione?
Per quanto riguarda l’inchiesta giudiziaria sui casi dei bambini sottratti alle famiglie della Val d’Enza e sulle accuse di abuso ai loro genitori mi rimetto completamente alla magistratura, di cui ho fiducia. Dobbiamo tra l’altro al suo lavoro investigativo l’emergere di questi fatti.
E per quanto riguarda l’affermarsi di questa cultura antifamiglia?
Non posso che rispondere affermativamente. Salvo restando le responsabilità dei singoli, oggi esiste una cultura molto invadente che vede nella famiglia (padre, madre e figli) un luogo potenzialmente oppressivo e perciò da colpire. Per 'salvare' un bambino occorre fare di tutto per 'salvare' la sua famiglia. Essa è la custode di diritti e doveri primari che nessuno stato può 'normalmente' avocare a sé. Indebolendo la famiglia si indeboliscono tutte le forme di aggregazione sociale in un paese.
E qui coglie davvero la presenza negativa della cosiddetta cultura Lgbt?
Purtroppo, in taluni casi, questa cultura partecipa di questo attacco alla famiglia, che vede come una contraddizione ai diritti dei singoli. Una famiglia vera invece custodisce i diritti di tutti e i doveri di tutti qualunque siano gli orientamenti religiosi, culturali e sessuali dei propri figli.
Fermo restando che in alcuni casi l’allontanamento di un minore può rendersi necessario e urgente, non sarebbe sempre meglio cercare di aiutare la famiglia d’origine?
È indubbio che oggi esistano delle famiglie debolissime e dei ragazzi perciò che difficilmente potrebbero trovare in esse l’ambito delle loro crescita. Penso a famiglie in cui i genitori sono tossicodipendenti, in cui la madre è stata abbandonata, in cui esiste una povertà materiale ed educativa molto radicata, in cui esiste una forte esperienza delittuosa... Non sono perciò assolutamente contrario all’affido, alle case famiglia. Conosco decine e decine di esperienze positive che devono esser custodite e sostenute dallo stato. Questo non vuol dire che i figli debbano essere comunque tolti alla famiglia. Molto dipende dalla statura morale e professionale degli operatori sociali e degli psicologi.
Dall’inchiesta emerge anche un altro fatto drammatico, il numero elevato di famiglie disgregate, fragili, comunque in difficoltà. Questa situazione non interpella anche le nostre comunità? Abbiamo fatto abbastanza per stare vicino a queste famiglie?
No, penso che non si sia fatto abbastanza, forse non si farà mai abbastanza. La nostra carità però deve vivere una conversione. Come ci indica il Papa dobbiamo imparare a condividere la vita delle persone in difficoltà. Se ogni credente dedicasse anche un’ora soltanto alla settimana per stare con una persona, tornando da lei con frequenza, un poco dell’immenso mare della solitudine e della povertà spirituale troverebbe una strada di cambiamento sia per chi è in difficoltà sia per chi offre un poco del suo tempo. Ho imparato tutto questo da don Giussani vivendo l’esperienza della Bassa agli inizi degli anni 60.
Non le sembra che alla base di questi drammi ci sia sempre 'anche' una carenza educativa. E qui forse ci sarebbe da interrogare la qualità della nostra pastorale per e con le famiglie. Meno matrimoni, megli figli ma anche una conflittualità crescente di fronte alla quale talvolta non abbiamo gli strumenti per intervenire. Cosa possiamo fare?
Nella visita pastorale che sto conducendo nella mia diocesi mi propongo due obiettivi per ogni comunità: il sorgere o il rafforzarsi della comunità giovanile e l’inizio di una piccola comunità di famiglie che possa essere anche il luogo dell’accoglienza di altre famiglie, soprattutto di quelle che sono sole, disorientate e ferite. Non voglio naturalmente propormi come un insegnante per nessuno, ma penso che non sia un caso che gli ultimi sinodi dei vescovi siano stati dedicati alla famiglia e ai giovani.
Tratto da AVVENIRE luglio 2019

martedì 22 ottobre 2019

SAN GIOVANNI PAOLO II E LA MODERNITA'


«NON SI DEVE ADATTARE IL VANGELO ALLA CULTURA, MA AL CONTRARIO CRISTIANIZZARE LE CULTURE»
Rodolfo Casadei Tempi 21 ottobre 2019 
Convegno di grande spessore a Milano su Giovanni Paolo II e la sua “forza da gigante”. La lezione del cardinale Eijk, primate d’Olanda, su post-modernità e nuova evangelizzazione


Anche quest’anno il Centro internazionale Giovanni Paolo II, l’associazione culturale Esserci e il Centro francescano Rosetum hanno offerto alla città di Milano un convegno di filosofia di grande spessore. Stavolta oggetto della riflessione è stato il rapporto di Giovanni Paolo II con la modernità, e a partire dal titolo “Con la forza di un gigante, Giovanni Paolo II e la modernità” (che riecheggia le parole pronunciate da Benedetto XVI nell’omelia per la beatificazione di papa Wojtyla nel 2011), hanno relazionato il cardinale Willem Jacobus Eijk, arcivescovo di Utrecht e primate della Chiesa olandese, con un intervento su “Modernità, Postmodernità e Nuova Evangelizzazione a partire dal magistero di san Giovanni Paolo II”, il professor Marco Cangiotti dell’Università degli studi di Urbino Carlo Bo su “Verità, libertà e storia: le due modernità” e il professor Francesco Botturi dell’Università Cattolica di Milano su “Cultura e neoumanesimo moderno”.

PRESENZA E COMUNITÀ
Ha introdotto i lavori monsignor Luigi Negri, arcivescovo emerito di Ferrara. «Le parole fondamentali della tradizione cristiana non sono soggetto e oggetto, ma presenza e comunità», ha sottolineato Negri. «La fede genera una cultura, un approccio alla realtà, non una visione chiusa in se stessa. Quindi essa non ha paura se è chiamata a cambiare; ma cambia per essere più vera come fede, non cambia per le pressioni del mondo. Altrimenti si perderebbe».

LA FINE DELLA MODERNITÀ
Il cardinal Eijk ha diviso il suo intervento in due parti, la prima descrittiva del passaggio dalla modernità alla post-modernità, la seconda dedicata alla proposta wojtyliana della nuova evangelizzazione. Citando il libro di Stefan Zweig Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo ha individuato la fine cronologica della modernità e più in generale del “vecchio mondo” nell’estate del 1914, quando scoppia la Prima Guerra mondiale. Da essa escono distrutti l’ordine sociale e politico continentale e la fede nella verità, sia quella cristiana che quella del razionalismo illuminista.
È vero che già in precedenza l’uno e l’altra erano stati scossi dalla nascita del movimento socialista, dalle teorie darwiniane e dalla scoperta dell’inconscio da parte di Sigmund Freud, ma è solo l’esperienza dei massacri e delle distruzioni prodotte dall’applicazione tecnica delle scoperte scientifiche al modo di condurre la guerra che diffonde anche fra le masse la prima grande ondata di miscredenza religiosa e di disillusione nei confronti del progresso.

L’IMPOSSIBILITÀ DEL CONFRONTO
Tutto questo si accentuerà nel Secondo Dopoguerra, quando lo statuto di verità delle scienze, già messo in discussione da Heidegger e Wittgenstein a cavallo fra le due guerre, viene definitivamente confutato dagli strutturalisti e dai post-strutturalisti: Jacques Derrida, Gilles Deleuze, Roland Barthes, Jacques Lacan, Michel Foucault, Jean-François Lyotard, Gianni Vattimo.
È Lyotard il primo che mette a tema il post-moderno, spiegando nel suo libro La condizione post-moderna che essa coincide con la fine della credenza nelle grandi narrazioni condivise da grandi masse umane (illuminismo, marxismo, cristianesimo) e con la convinzione che l’uomo non è affatto autonomo essendo condizionato dal sistema, dall’opinione pubblica, dall’inconscio e dal linguaggio. «Non è più possibile un vero confronto perché è venuta meno una visione condivisa della realtà», dice Eijk.

L’INDIVIDUALISMO COME CULTURA DI MASSA
Il relativismo etico e l’individualismo sono la logica conseguenza del post-moderno, e non solo a livello di circoli filosofici. «Il post-moderno non è rimasto nell’ambito della filosofia, ma grazie al diffondersi della prosperità dopo la Seconda Guerra mondiale è diventato cultura di massa: la prosperità ha reso concretamente praticabile la radicale autonomia individuale, accentuata ulteriormente negli ultimi anni dai social media».
Secondo il cardinale, «oggi il Vangelo è una grande narrazione che non è stata ereditata da una grande parte degli europei, anzitutto perché è venuta meno una visione comune relativamente al mondo, a Dio, all’uomo. Gli intellettuali cristiani potevano discutere con gli intellettuali moderni, perché entrambi avevano in comune l’idea di verità. Questo è diventato impossibile con l’avvento del post-moderno. Che ha esercitato il suo influsso anche fra i credenti, in buona parte oggi convinti che una religione vale l’altra, che dogmi e dottrina devono cedere il passo al benessere spirituale individuale e che sostituiscono tranquillamente il crocifisso con la statua del Buddha ridente».

IL TEMPO DELLE CERTEZZE AL TRAMONTO
Giovanni Paolo II, ha detto il primate d’Olanda entrando nella seconda parte della sua esposizione, era consapevole della difficoltà di comunicare il Vangelo nella nuova situazione, anche se cita espressamente il post-moderno una sola volta, nella Fides et ratio:
«La nostra epoca è stata qualificata da certi pensatori come l’epoca della “post-modernità”. (…) Il termine è stato dapprima impiegato a proposito di fenomeni d’ordine estetico, sociale, tecnologico. Successivamente è stato trasferito in ambito filosofico (…) le correnti di pensiero che si richiamano alla post-modernità meritano un’adeguata attenzione. Secondo alcune di esse, infatti, il tempo delle certezze sarebbe irrimediabilmente passato, l’uomo dovrebbe ormai imparare a vivere in un orizzonte di totale assenza di senso, all’insegna del provvisorio e del fuggevole. Parecchi autori, nella loro critica demolitrice di ogni certezza, ignorando le necessarie distinzioni, contestano anche le certezze della fede. Questo nichilismo trova in qualche modo una conferma nella terribile esperienza del male che ha segnato la nostra epoca. Dinanzi alla drammaticità di questa esperienza, l’ottimismo razionalista che vedeva nella storia l’avanzata vittoriosa della ragione, fonte di felicità e di libertà, non ha resistito, al punto che una delle maggiori minacce, in questa fine di secolo, è la tentazione della disperazione». (n. 91)

LA NUOVA EVANGELIZZAZIONE
Consapevole che dagli anni Sessanta o addirittura dalla fine della Prima Guerra mondiale alcune regioni dell’Occidente sono diventate terre di missione, Giovanni Paolo II propone la nuova evangelizzazione, che viene evocata per la prima volta in un discorso al Celam (l’organo che riunisce le conferenze episcopali latinoamericane) nel 1983. Ma i testi magisteriali che sviluppano organicamente questa intuizione sono Redemptoris missio (1990), Tertio millennio adveniente (1994) e Novo millennio ineunte (2001).

«La nuova evangelizzazione», spiega Eijk, «non è la trasmissione di un nuovo Vangelo che nascerebbe da noi stessi e sarebbe solo un’invenzione umana che non porta la salvezza, né si tratta di eliminare dal Vangelo ciò che appare inaccettabile alla mentalità odierna. Non si deve adattare il Vangelo alla cultura, ma al contrario occorre cristianizzare le culture. Avendo attenzione a tutte le complessità dell’inculturazione, che salva e trasforma gli autentici valori di una cultura immettendoli nel cristianesimo».

GUARDARE A CRISTO, NON SOLO A SÉ
Evangelizzare gli uomini della post-modernità implica alcune attenzioni: «Come ha detto Benedetto XVI, “la fede cristiana (…) nasce non dall’accoglienza di una dottrina, ma dall’incontro con una Persona”, e come ha detto Paolo VI, “l’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri”. Occorre proporre di cercare e guardare il volto di Cristo anziché ripiegarsi sulla propria coscienza di sé. L’uomo post-moderno mette sopra a tutto la libertà di scelta: Cristo va proposto, mai imposto. Giovanni Paolo II insiste molto sulla libertà religiosa, sul fatto che non si può forzare l’uomo a fare qualcosa contro la propria coscienza».
Il cristianesimo può integrare i temi della filosofia post-moderna come ha integrato Platone e Aristotele? «Certamente non può integrare il disincanto nei confronti delle grandi narrazioni, ma l’affermazione che l’uomo moderno che si crede libero in realtà non lo è e la concentrazione sulla vicenda biografica come alternativa ai grandi sistemi aprono la porta all’annuncio di Cristo che rende veramente liberi e alla testimonianza personale cristiana. Occorre poi ricordare che sempre la Chiesa ha avuto bisogno di un certo tempo per formulare una risposta significativa alla sfida di una certa epoca: Lutero affigge le sue tesi nel 1517, il Concilio di Trento si svolge fra il 1545 e il 1563».

«NON DOBBIAMO AVERE PAURA»
La grande lezione di Giovanni Paolo II sta nel fatto che non si limitò a teorizzare la nuova evangelizzazione, ma la praticò in prima persona e incoraggiò gli altri a farlo: «Non ha avuto paura di quella che sembrava una “mission impossible”. Ha viaggiato fino agli estremi confini della Terra per annunciare Cristo, e ha continuato a farlo quando era malato, senza paura di mostrare la debolezza, senza nascondere la sofferenza. A noi vescovi regalava croci pettorali con impressa la scritta “Duc in altum”, cioè “Prendete il largo e sulla mia parola gettate le reti”: le parole con cui Cristo invita ad avere fede in Lui. Del valore di alcuni insegnamenti di questo papa, soprattutto della sua teologia del corpo, ci renderemo conto meglio fra qualche decennio. Non dobbiamo avere paura, perché anche la cultura post-moderna finirà e verranno tempi più propizi, più aperti all’evangelizzazione».

foto ANSA