mercoledì 27 aprile 2022

LA LIBERAZIONE

 «Imparate a giudicare, sarà l’inizio della liberazione».

Paolo Sottopietra (*)

«Durante il primo anno di università sentii pronunciare per la prima volta da don Giussani una delle sue frasi più proverbiali: «Imparate a giudicare, sarà l’inizio della liberazione». Era l’eco di una parola di Gesù: La verità vi farà liberi.


Per me fu veramente così. Molti degli educatori che avevo incontrato prima di allora guardavano con un certo sospetto alla parola «giudicare». Non giudicare sembrava essere un imperativo del vero cristiano, un atteggiamento inseparabile dalla virtù dell’umiltà… 

Che cosa significa allora giudicare? Significa distinguere ciò che è da ciò che non è, il vero dal falso, la sostanza dall’apparenza, ciò che è autentico da ciò che è simulato. Significa distinguere il bene dal male, ciò che eleva l’uomo e ciò che invece lo umilia, ciò che piace a Dio da ciò che lo offende. Giudicate tutto e trattenete ciò che vale, sintetizza san Paolo.

Coltivare questa chiarezza è una vera opera di liberazione. Ogni cosa ha il suo nome. Il successo, per esempio, non coincide con il compimento di sé, la fama non è sempre sinonimo di grandezza, il risultato della propria azione non va confuso con il proprio valore. A volte, tuttavia, perfino distinguere l’amore dalla violenza, il desiderio dal capriccio, la libertà dalla schiavitù o dall’individualismo non è ovvio come sembra. Si tratta di esperienze di cui abbiamo bisogno per vivere come dell’aria che respiriamo, eppure noi scambiamo spesso una cosa per un’altra, e questa confusione ci fa soffrire. Dite di sì quando è sì e no quando è no, dice Gesù, il resto risponde a una logica che non è quella che vi ho insegnato io. Ecco dove sta la nostra libertà.»

(*)Superiore Generale della Fraternità San Carlo Borromeo

nell'immagine: Masaccio, Firenze, Cappella Brancacci, Pagamento del tributo; particolare : Gesù insegna agli apostoli

lunedì 18 aprile 2022

"ABBIATE CORAGGIO, IO HO VINTO IL MONDO"

 

La morte di Cristo, la morte dell’uomo 

Angelo card. Scola

Lecco, Basilica di San Nicolò, 13 aprile 2022

1.             1.      Nel 1965, a Castelgandolfo, Paolo VI scrisse il celebre Pensiero alla morte pubblicato su L’Osservatore Romano del 9 agosto 1979: «L’ovvia considerazione sulla precarietà della vita temporale e sull’avvicinarsi inevitabile e sempre più prossimo della sua fine si impone. … non più guardare indietro, ma fare volentieri, semplicemente, umilmente, fortemente il dovere risultante dalle circostanze in cui mi trovo. Fare tutto, fare bene. Fare finalmente ciò che tu ora vuoi da me, anche se supera immensamente le mie forze e se mi chiede la vita… È così che la morte sigilla la meta del pellegrinaggio terreno e fa da ponte per il grande incontro con Cristo nella vita eterna».

 

Andrea Mantegna, Le Marie al sepolcro
Londra National Gallery

2.      Il dramma della morte, che si radica nell’esperienza singolare di ogni persona, non può però prescindere dal legame costitutivo con tutti i fratelli uomini. Per questo, senza perdere nulla della intrinseca esperienza personale della morte, essa è segnata dalle concrete circostanze e rapporti che fanno la realtà storica.

L’eco della morte nelle nostre opulente società occidentali viene normalmente coperta da chiassose distrazioni. Oggi però nelle terre martoriate dell’Ucraina, a due passi da noi, torna a farsi minacciosa imponendo il suo suono sinistro. Per non parlare del rimbombo provocato dal Covid da più di due anni.

Non v’è tempo in questa sede per analizzare le cause e le conseguenze di queste due pesanti prove. Sarà sufficiente tentare di coglierne il nucleo centrale.

La guerra rappresenta sempre un processo degenerativo della convivenza, semina morte e suscita divisioni tra gli stati ed i popoli. Favorisce l’homo, homini lupus rompendo la fratellanza universale. È pertanto strutturalmente contro un ordine mondiale giusto fondato sulla libertà e sul diritto.

Quanto alla pandemia essa mette in evidenza lo stretto vincolo che ci lega, rendendoci potenziali, anche se involontari, portatori di male e persino di morte gli uni per gli altri.

Paura ed angoscia segnano i nostri giorni. Inoltre lo scontro ideologico provocato da questi due flagelli genera dialettiche spesso tortuose ed insostenibili. Mette in discussione quelli che negli ultimi decenni abbiamo spesso sbandierato come i “nuovi valori” dell’umanesimo occidentale.

Di fronte ai due fenomeni della pandemia e della guerra resiste, è il caso di dirlo, il moto popolare di compassione documentato dalla massiccia mobilitazione per accogliere i profughi e prendersene cura. Il gratuito fare spazio a chi è nel bisogno, espressione di un’esigenza universale inestirpabile, finisce per battere i violenti contrasti che minano ora le nostre vite e per dare sapore umano alle nostre esistenze.

 

3.      La situazione descritta, che come una tenaglia stringe da ogni parte la drammatica dell’io, ci porta ad identificare nell’esperienza dell’angoscia (stato estremo di ansia: angustia) con il suo carico di dolore, sofferenza e morte (le potenze oscure che inevitabilmente segnano ogni umana esistenza), una cifra dominante della nostra vita.

Senza poter citare in questa sede gli studiosi che si sono occupati dell’angoscia – un nome per tutti: Kierkegaard (1813-1855) il primo nel suo genere a proporre un approccio teologico a questo tema – possiamo con Balthasar ritenere, anche dopo Freud e Heidegger, che i poteri tenebrosi siano, almeno per il cristianesimo ma non solo, in un certo senso naturali. E il Figlio di Dio non è venuto al mondo per risparmiare all’uomo l’angoscia legata strutturalmente alla sua contingenza.

 

4.      Quale via d’uscita, se esiste, da questa situazione di stallo? Come vivere, se è possibile l’angoscia, non certo per abolirla ma per poter convivere con essa e con i poteri tenebrosi da cui è generata?

Scrive il discutibile ma acuto romanziere Michel Houellebecq: «Per l’occidentale contemporaneo, anche quando gode di buona salute, il pensiero della morte costituisce una sorta di rumore di fondo che si insinua nel suo cervello man mano che i progetti e i desideri vanno sfumando. Con l’andar del tempo, la presenza di tale rumore si fa sempre più invadente; la si può paragonare ad un brusìo sordo, talvolta accompagnato da uno schianto. In altri tempi, il rumore di fondo era costituito dall’attesa del regno del Signore; oggi è costituito dall’attesa della morte. Così è» (Le particelle elementari, 1998).

Per raccogliere la sfida che la morte porta a ciascuno di noi dobbiamo risalire alla domanda delle domande, quella che le attraversa tutte. “Da qualche parte qualcuno alla fine mi ama?”.

sabato 16 aprile 2022

BENEDETTO XVI: IL SABATO SANTO E LA SINDONE

 Papa Benedetto compie oggi 95 anni. 

 Un compleanno particolare perché anche allora, nel 1927, era un Sabato Santo.

E, in un certo senso, Joseph Ratzinger può essere considerato il “Papa del Sabato Santo” non solo per questo particolare dato biografico, ma perché al giorno del silenzio precedente la Pasqua ha dedicato varie meditazioni, riflettendo sul fatto che la sua stessa vita s’è dibattuta tra le tenebre e la luce. Egli, in effetti, è il Pontefice che, meglio di altri, ha maggiormente saputo descrivere il buio che avvolge la nostra era moderna, indicando al contempo l’arrivo di un’alba di salvezza.

BENEDETTO XVI: IL SABATO SANTO E LA SINDONE

 TORINO 2 MAGGIO 2010

(…) Il Sabato Santo è il giorno del nascondimento di Dio (…)  Il Sabato Santo è la “terra di nessuno” tra la morte e la risurrezione, ma in questa “terra di nessuno” è entrato Uno, l’Unico, che l’ha attraversata con i segni della sua Passione per l’uomo: “Passio Christi. Passio hominis”. E la Sindone ci parla esattamente di quel momento, sta a testimoniare precisamente quell’intervallo unico e irripetibile nella storia dell’umanità e dell’universo, in cui Dio, in Gesù Cristo, ha condiviso non solo il nostro morire, ma anche il nostro rimanere nella morte. La solidarietà più radicale.

In quel “tempo-oltre-il-tempo” Gesù Cristo è “disceso agli inferi”. Che cosa significa questa espressione? Vuole dire che Dio, fattosi uomo, è arrivato fino al punto di entrare nella solitudine estrema e assoluta dell’uomo, dove non arriva alcun raggio d’amore, dove regna l’abbandono totale senza alcuna parola di conforto: “gli inferi”. Gesù Cristo, rimanendo nella morte, ha oltrepassato la porta di questa solitudine ultima per guidare anche noi ad oltrepassarla con Lui. Tutti abbiamo sentito qualche volta una sensazione spaventosa di abbandono, e ciò che della morte ci fa più paura è proprio questo, come da bambini abbiamo paura di stare da soli nel buio e solo la presenza di una persona che ci ama ci può rassicurare. Ecco, proprio questo è accaduto nel Sabato Santo: nel regno della morte è risuonata la voce di Dio. E’ successo l’impensabile: che cioè l’Amore è penetrato “negli inferi”: anche nel buio estremo della solitudine umana più assoluta noi possiamo ascoltare una voce che ci chiama e trovare una mano che ci prende e ci conduce fuori. L’essere umano vive per il fatto che è amato e può amare; e se anche nello spazio della morte è penetrato l’amore, allora anche là è arrivata la vita. Nell’ora dell’estrema solitudine non saremo mai soli: “Passio Christi. Passio hominis”.

Questo è il mistero del Sabato Santo! Proprio di là, dal buio della morte del Figlio di Dio, è spuntata la luce di una speranza nuova: la luce della Risurrezione. Ed ecco, mi sembra che guardando questo sacro Telo con gli occhi della fede si percepisca qualcosa di questa luce. (…)  Questo è il potere della Sindone: dal volto di questo “Uomo dei dolori”, che porta su di sé la passione dell’uomo di ogni tempo e di ogni luogo, anche le nostre passioni, le nostre sofferenze, le nostre difficoltà, i nostri peccati - “Passio Christi. Passio hominis” - promana una solenne maestà, una signoria paradossale. Questo volto, queste mani e questi piedi, questo costato, tutto questo corpo parla, è esso stesso una parola che possiamo ascoltare nel silenzio.

Come parla la Sindone?
Parla con il sangue, e il sangue è la vita! La Sindone è un’Icona scritta col sangue; sangue di un uomo flagellato, coronato di spine, crocifisso e ferito al costato destro. L’immagine impressa sulla Sindone è quella di un morto, ma il sangue parla della sua vita. Ogni traccia di sangue parla di amore e di vita. Specialmente quella macchia abbondante vicina al costato, fatta di sangue ed acqua usciti copiosamente da una grande ferita procurata da un colpo di lancia romana, quel sangue e quell’acqua parlano di vita. E’ come una sorgente che mormora nel silenzio, e noi possiamo sentirla, possiamo ascoltarla, nel silenzio del Sabato Santo.

Cari amici, lodiamo sempre il Signore per il suo amore fedele e misericordioso. Partendo da questo luogo santo, portiamo negli occhi l’immagine della Sindone, portiamo nel cuore questa parola d’amore, e lodiamo Dio con una vita piena di fede, di speranza e di carità. Grazie.

ROMA VIA CRUCIS 15 APRILE 2022 VENERDÌ SANTO

 Alla tredicesima stazione, “Gesù muore sulla Croce”, la croce viene consegnata a Irina e Albina, le due infermiere ucraina e russa.

Ma non c’è la meditazione prevista per ogni stazione.

La voce recitante dice soltanto: “Di fronte alla morte, il silenzio è più eloquente delle parole. Ognuno preghi nel proprio cuore per la pace nel mondo”.

Poi è seguito un silenzio di 70 secondi.

Gli sguardi delle due donne sono stati più efficaci di qualsiasi parola.

venerdì 15 aprile 2022

VIA CRUCIS / Da Chicago a NYC a LA, un “fiume” dietro la Croce tra Brooklyn e Ground Zero. Undici anni fa a Chicago, come oggi in tante città d'America

Molte comunità di Cl organizzano da 30 anni Viae Crucis nelle città degli Stati Uniti. l2011: Da Chicago, LEO MARCATELLI; da New York, RIRO MANISCALCO; da Los Angeles GUIDO PICCAROLO. See you next year!

CHICAGO – Oggi è stata una tipica giornata “Chicago style”.
La Via Crucis attraverso la City di Chicago è partita alle 9 di mattina dalla Daley Plaza (sede del comune, nel cuore amministrativo e finanziario della città).


Nonostante la pioggia, vento, 30F come ampiamente previsto ci siamo ritrovati in circa 200 a seguire la croce insieme a Fr Luca Brancolini, della Fraternità sacerdotale San Carlo.
Come sempre c’è un po’ di esitazione, e la pioggia si intensifica proprio all’ora della partenza. Per questo si vive il momento con grande tensione, nel desiderio di seguire la croce ma anche intimoriti dalle circostanze atmosferiche decisamente avverse. Poi si parte e mentre porto la croce intravedo i volti degli amici del servizio d’ordine che mi indicano la strada e così un poco alla volta il passo diventa sempre più sicuro e deciso. Si può camminare con certezza solo nella compagnia di chi lo ha incontrato.
La processione continua attraverso il cuore della città fermandosi davanti al JR Thompson Center che ospita gli uffici dello State of Illinois, la Veteran Memorial Plaza lungo il Chicago River e raggiunge Michigan Avenue, la via dello shopping Downtown Chicago.


Thompson Center
Mentre nelle prime due stazioni si incontravano frettolosi businnessmen, adesso ci imbattiamo in famiglie e high school students in spring break. Nessuno però può ignorare la Way of the Cross che passa. Alcuni voltano la testa dall’altra parte, altri si fanno il segno della croce. “Ah, it’s Good Friday today” (“è venerdì santo, oggi”) si sente dire più di una volta.

Ci fermiamo alla Water Tower Plaza, davanti all’unico edificio sopravvissuto all’incendio del 1871 che ha distrutto Chicago. Alcuni si sono arresi al freddo, ma altri si sono uniti lungo la strada. E facile essere catturati dal fascino della ordinata processione dietro la croce, dalla bellezza dei canti e dalle letture di Fr Giussani, Paul Claudel, Charles Peguy e dalle meditazioni di Fr Luca. Tutto quello che è chiesto è di seguire, oggi nella via crucis, domani al lavoro o a casa. In molti chiedono di portare la croce per un pezzo di strada o durante una stazione; e vengono accontentati perche la croce è pesante e il vento rende tutto molto impegnativo.

Arriviamo infine in vista della Holy Name Cathedral, la cattedrale di Chicago. Nel parcheggio davanti alla chiesa si svolge l’ultima stazione. Non si può nascondere il desiderio di andare in un coffee shop al caldo per non dire di andare a cambiare scarpe e calzini, ma nessuno ha fretta. Al termine rimaniamo a lungo a conoscere chi è rimasto con noi fino alla fine e anche per scambiarci gli auguri tra di noi.

Ho detto con molti, per scherzo ma non troppo, che dovremmo fare la Way of the Cross più spesso, perché essere insieme aiuta a seguire quella croce.

Memorial Plaza 

La Way of the Cross 2011 non è stata perfetta. Non c’era la partecipazione che volevamo, il tempo che volevamo e abbiamo dovuto anche cambiare il percorso perche non dappertutto eravamo i benvenuti Downtown Chicago. Ma se c’è qualcosa che portiamo a casa, è che quello che conta è darsi a Cristo come siamo, e non come vorremmo essere, perché Lui è contemporaneo nel modo in cui vuole, inclusa pioggia e temperatura sottozero. E questo è sorprendentemente facile, basta seguire la Croce.
Per questo la Way of the Cross è finita con un “see you next year!”. Per un’altra Way of the Cross Chicago style.

Leo Marcatelli,

Chicago 24/4/2011

 

Da Sussidiarionet

Leggi  qui le altre testimonianze

https://www.ilsussidiario.net/news/esteri/2011/4/24/via-crucis-da-chicago-a-nyc-e-la-un-fiume-dietro-la-croce-tra-brooklyn-e-ground-zero/170653/

giovedì 14 aprile 2022

LA LUNA DI KIEV

 Messaggio del vescovo di Cesena Douglas Regattieri per la Pasqua 2022

Come celebrare quest’anno la festa più importante del cristianesimo, la santa Pasqua, mentre sfilano i carri armati e cadono le bombe sulle città ucraine seminando morte e distruzione?

Come possiamo quest’anno augurarci Buona Pasqua, quando milioni di donne, bambini e anziani sono costretti a lasciare le loro case e le loro terre per rifugiarsi in paesi stranieri? Come rallegrarci e cantare l’Alleluia quando, in Ucraina, al suono delle campane delle chiese, si sovrappone, fino a smorzarlo, l’assordante clamore delle armi e dei missili che devastano la vita delle persone, uccidendo civili e militari? Come è possibile?

Forse affiora alla nostra mente il medesimo pensiero che colse il poeta Rodari, quando, cento anni fa, si chiedeva:

La luna all'alba questa mattina

Chissà se la luna / di Kiev / è bella come la luna di Roma,chissà se è la stessa / o soltanto sua sorella…

“Ma son sempre quella! – la luna protesta –non sono mica / un berretto da notte / sulla tua testa!

Viaggiando quassù / faccio lume a tutti quanti, / dall’India al Perù,

dal Tevere al Mar Morto, / e i miei raggi viaggiano senza passaporto”.

Sì, le vicende umane subiscono intoppi, rallentamenti, arresti, ritorni al passato; si incrudeliscono al punto che gli uomini preferiscono innalzare muri piuttosto che costruire ponti, ma la luna continua a splendere. Per tutti.

Nel suo incessante ‘sorgere’ e ‘calare’ dice: anche nella notte più buia c’è sempre la mia luce, che orienta. È un’immagine molto bella e suggestiva, anche perché rimanda a un altro astro luminoso, ben più splendente: il sole.

Essa non brilla di luce propria, ma riflessa: quella del sole che per noi cristiani rappresenta il Cristo Signore, “sole che sorge dall’alto” (Lc 1, 78).

Non c’è nella storia umana evento così calamitoso e disastroso da eliminare questa luce che in alto, con o senza le nuvole, sempre splende.

Perciò, anche quest’anno, in quest’ora così buia e dolorosa, noi cristiani ci scambiamo gli auguri pasquali: Alleluia, Cristo è risorto, Alleluia! Risorga Cristo nei nostri cuori!

Risorga sul popolo ucraino provato e umiliato dall’odio fratricida e sacrilego. Risorga sui bambini privati del sorriso e dei loro giochi. Risorga sulle donne e sugli uomini senza più casa, lavoro e affetti. Risorga sugli anziani cui è impedito di continuare a sognare. Risorga anche nel cuore di chi cova e medita progetti di morte e di distruzione e lo conduca alla conversione.

Risorgi, Signore, in ciascuno di noi.

 

Douglas Regattieri, vescovo di Cesena-Sarsina

Cesena, 14 aprile 2022

foto di Giorgio Marini

sabato 9 aprile 2022

GOTT MIT UNS

 “Dio è con noi” è Il titolo dell’ultimo capitolo del libro  

Tre parole sulla Resistenza”, di Giacomo Noventa (Vallecchi, 1973). 

Augusto Del Noce introduce il volume di Noventa con un saggio di cento pagine intitolato “Il ripensamento della storia italiana in Noventa”. Un testo che aiuta a riflettere sulle tremende immagini  e parole (denazificare) che abbiamo visto e sentito in queste settimane.

DAL BLOG “MUNDUS INVERSUS” DI IVO COLOZZI


"Il testo di Noventa presenta una posizione assolutamente originale che mi sembra possa dare una più forte legittimazione alla posizione di quanti oggi prendono le distanze da quelli che condannano senza incertezze Putin in quanto rappresentante attuale del nazi-fascismo e che, ciò facendo, si autodefiniscono come attuali rappresentanti dell’antifascismo.

L’ impressione che lasciano quei commentatori che prendono le distanze dai “bellicisti”, infatti, è che lo facciano pensando ai danni economici che le sanzioni provocano anche alle nostre economie o per la paura che una escalation di questa guerra ci porti ad un nuovo conflitto continentale (mondiale).

L’originalità di Noventa consiste nel fatto che pone in contrapposizione antifascismo e resistenza perché il primo nasce da una certezza, la certezza che la nostra cultura è totalmente estranea a quella del fascismo (a quella di Putin), la resistenza, invece, nasce dal dubbio, il dubbio che anche la nostra cultura contenga in germe gli elementi che hanno portato Putin a fare la scelta sciagurata della guerra per cui lottare contro il fascismo ( oggi contro Putin) deve significare allo stesso tempo lottare contro se stessi, cioè mettere in discussione la nostra cultura, alla ricerca di un suo rinnovamento.

Se al “Dio è con noi” di Putin (e di Kirill) rispondiamo con un “Dio è con noi ucraini, europei, occidentali”, l’esito inevitabile sarà non solo l’ulteriore inasprimento del conflitto, ma, anche in caso di vittoria nostra, la predisposizione delle condizioni per l’affermarsi di un totalitarismo che, per quanto diverso da quelli del passato o da quello attualmente vincente in Russia, Cina e altrove, non è meno temibile. Ne abbiamo avuto le prime avvisaglie nel diffondersi della cancel culture e nella gestione della pandemia da parte di alcuni paesi, tra cui l’Italia."

Ecco le parole dirette di Noventa.

“LIV. (1947) Si è voluto misconoscere il fatto che, mentre gli antifascisti hanno combattuto, sì contro il fascismo, ma contro il fascismo come qualcosa di estraneo a loro, gli uomini della Resistenza avevano combattuto prima ancora che contro il fascismo, contro se stessi. Avevano dovuto mettere un segno interrogativo o negativo a tutto ciò che avevano pensato essi stessi, rompere tutti gli schemi, sconvolgere le proprie abitudini di ragazzi e di uomini, i propri rapporti familiari, sentimentali, morali.........

Renato Guttuso, Gott Mit Uns; Fucilati

L’antifascismo procede da un sapere, da una certezza. La Resistenza da un non sapere, da un dubbio. L’antifascismo conosce tutte le cause, mortali e veniali, del disastro. L’uomo della Resistenza si domanda invece come mai tale disastro sia stato possibile. Come mai i fascisti ne siano stati capaci, e gli antifascisti e gli italiani in generale capaci di prevederlo, non di impedirlo; e appunto perché l’antifascismo sa tutto, è tutto rivolto al passato, ma la resistenza all’avvenire.” (Dio è con noi, p. 127)


Anche l'acquarello in copertina deriva dalla raccolta di Guttuso "Gott mit Uns"

venerdì 8 aprile 2022

GROSSMAN :VITA E DESTINO

 

Prima, autore perfettamente integrato nel meccanismo sovietico. Poi qualcosa comincia a incrinarsi. Infine la rottura e il rifiuto dell'ideologia. E l'apertura alla realtà secondo tutti i suoi fattori. Qualche spunto per leggere Vita e destino, il capolavoro dello scrittore russo.



Grossman è stato, negli anni Quaranta, in pieno regime staliniano, un autore perfettamente integrato nel meccanismo sovietico, secondo il quale gli scrittori dovevano essere “ingegneri dell’anima”, gente incaricata di convincere le masse di quanto buono fosse il regime comunista e di quanto tremendi i suoi nemici. Per Grossman tutto filò liscio (in realtà non proprio tutto, ma non abbiamo spazio per dettagliare) fino alla pubblicazione (nel 1952) di Per la giusta causa ( NOTA: pubblicato in Italia il 4 aprile 2022, col titolo: STALINGRADO), epica ricostruzione delle prime fasi dell’attacco nazista all’Urss, visto attraverso gli occhi di una famiglia numerosa: i Saposnikov. Il romanzo ebbe grande successo. Ma, intanto, qualcosa si era rotto nella fino ad allora granitica sicurezza nell’ideologia comunista che animava Grossman. Fu certamente il fatto di accorgersi che Stalin stava pianificando una terribile “purga” nei confronti degli ebrei (Grossman era ebreo, seppure non credente, e aveva puntigliosamente ricostruito in un Libro nero le atrocità naziste contro i suoi connazionali nei territori occupati). Ma fu soprattutto la vittoria in lui della realtà contro l’ideologia, della “vita” oltre ogni “giusta causa”. Grossman si accinse a scrivere una seconda parte di Per la giusta causa: i personaggi erano gli stessi, ma completamente diverso il clima, la consapevolezza dell’autore e, quindi, il risultato artistico: Vita e destino, appunto, concluso nel 1960 e pubblicato per la prima volta all’estero nel 1980.

Presa di distanza
Con tutta questa lunga premessa, non ho ancora detto perché vale la pena di leggere Vita e destino. Vale la pena perché vi troviamo la più radicale presa di distanza dall’ideologia che la letteratura del Novecento (il secolo delle ideologie per eccellenza) ci abbia lasciato. Cos’è l’ideologia? È quella costruzione del pensiero (e conseguente organizzazione sociale e politica, quando l’ideologia sale al potere) che pretende di imporsi alla realtà partendo dal proprio preconcetto punto di vista. Comunismo e nazismo ne sono state, nel Novecento, le più mostruose impersonificazioni, ma l’ideologia è un atteggiamento, una posizione, che rinasce continuamente. Magari sotto forme più “soft”, ma sempre intrinsecamente violente. Il grande cambiamento intervenuto in Grossman nel passaggio da Per la giusta causa Vita e destino è proprio il rifiuto dell’ideologia. Ed è significativo che il nostro autore abbia intuito prima di molti altri - siamo agli inizi degli anni Sessanta - quello che ancora oggi parecchi si rifiutano di ammettere: la sostanziale uguaglianza, la radicale somiglianza di nazismo e comunismo, quanto ad approccio ideologico e conseguente distruzione della realtà, laddove essa non si adatti agli schemi dell’ideologia. Si vedano, in proposito, le tremende pagine del colloquio in lager del comandante nazista Liss e del vecchio bolscevico Mostovskoj (Parte seconda, capitolo 15 vedi post precedente), nelle quali il primo sostiene la specularità delle due ideologie rispettivamente sostenute, seppure partendo da principi - preconcetti - differenti: la razza o l’origine sociale.
Ma cosa, agli occhi di Grossman, si oppone all’ideologia? Cosa la vince? Vi si oppongono le due parole che costituiscono il titolo stesso del romanzo: la vita e il destino.

La vita
Tutto il romanzo è uno struggente, continuo, poetico inno alla vita. La vita senza aggettivi, senza idee che pretendono giustificarla, senza utopie che presumono darle uno scopo. La vita fatta di gioia e dolore, di bassezze e di eroismi, di amore e di paura. La vita nella sua semplicità di dono originale cui niente può opporsi, di evidenza elementare e positiva che nessuna disgrazia o dolore può negare. Sono innumerevoli le pagine che si potrebbero citare per documentare l’appassionato amore alla vita che percorre tutto il romanzo. Si tratta di brevi e folgoranti battute (il vecchio che propone di dare «una medaglia di un paio di chili» alla giovane donna che ha messo al mondo una nuova vita «in questa galera dove si dà la stella di eroe per uccidere più gente possibile») o di lunghe, commoventi, amare e dolcissime riflessioni. Come quella della vecchia ebrea, chiusa dai nazisti in un ghetto e prossima a essere uccisa; scrivendo al figlio la sua ultima lettera (Parte prima, capitolo 18) essa conclude così: «Ecco l’ultima frase dell’ultima lettera della mamma indirizzata a te. Vivi, vivi, vivi per sempre...». Si noti che quel “per sempre” apre lo spiraglio sull’eterno, sull’infinito, sulla dimensione religiosa che Grossman non ha mai tematizzato nel romanzo, ma che ne investe le pagine da cima a fondo.

Il destino
Il punto di fuga sul mistero è ancora più chiaro osservando la seconda parola del titolo, la seconda grande alternativa al trionfo dell’ideologia: destino.

La vita non è la pura sopravvivenza animale; essa porta con sé una “destinazione” incrollabile, inevitabile: la felicità. Questo è il destino di tutte le vite che si agitano nel romanzo; questa è la ricerca di tutti, la meta desiderata e sperata. E drammaticamente misteriosa.

Alexandra Vladimirovna, la capostipite della famiglia Saposnikov, alla fine delle avventure narrate nel romanzo, si ritrova di fronte alle rovine della sua casa nella Stalingrado finalmente liberata dall’invasione tedesca. Il suo pensiero va ai figli, alle figlie e alle loro famiglie e la sua domanda è la domanda tipica dell’amore vero: quale destino avranno? Raggiungeranno la felicità che cercano nei travagli delle loro scelte, nelle cadute dei loro errori, nelle sofferenze dei loro amori? Alexandra Vladimirovna non lo sa. Ma di una cosa è certa: «Qualunque cosa li attenda, la celebrità per la loro fatica o la solitudine, la disperazione e la miseria, il lager e la condanna essi vivranno da uomini, e da uomini morranno: proprio in questo consiste per l’eternità l’amara vittoria umana su tutte le forze maestose e disumane che ci sono state e ci saranno nel mondo».

Le forze - Grossman non lo dice ma lo lascia intendere chiaramente - dell’ideologia, le forze del potere che trasformano il destino buono dell’uomo in fato implacabile. Non lo sa, Alexandra Vladimirovna, quale sarà il destino dei suoi cari; e neppure al lettore è risparmiato questo momento di vertigine di fronte al destino; neppure noi sappiamo che fine farà Serë Saposnikov, il giovane soldato della «casa sei barra uno» ( a Stalingrado) che ha trovato l’amore e una nuova paternità sotto i bombardamenti; neppure noi sappiamo che fine farà Krymov, il vecchio bolscevico torturato dai giudici procuratori della Lubjanka per un suo vecchio apprezzamento a Trozkij, né sappiamo se sua moglie Evgenija gli sarà fedele; neppure noi sappiamo che ne sarà di Vera e del suo piccolo bambino (quello che le dovrebbe meritare la “medaglia da due chili”).

Neppure noi lo sappiamo e non perché il romanzo sia incompiuto, ma per una precisa scelta dell’autore di lasciarci con la domanda aperta. Non lo sappiamo, ma il romanzo ci ha ormai lasciato il suo alto insegnamento di attaccamento alla vita e al suo destino.

 

Autore: Colognesi, Pigi

Fonte: Tracce - Litterae Communionis - Settembre 2002

 

mercoledì 6 aprile 2022

"VITA E DESTINO" DI VASILIJ GROSSMAN: BALUARDO CONTRO L'IDEOLOGIA

Vasilij Grossman per mezzo di Liss (Obersturmbannfürer rappresentante delle SS nell’amministrazione del lager) esprime la sua scandalosa convinzione che nazismo e comunismo siano entità speculari e gemelle, in cui i punti di somiglianza sono assai più significativi di quelli di divergenza.

Edizione Jaca Book 1984, Cap. 15 da pag.392 a pag.401

«Buongiorno», disse piano un uomo basso con lo stemma delle SS sulla manica della divisa grigia (…). Liss aspettò che Mostovskoj (vecchio bolscevico internato nel lager) finisse di tossire e disse: «Vorrei scambiare due parole con lei».

(…) Mostovskoj disse: «Questo è un interrogatorio. Io e lei non abbiamo niente da dirci». 

«E perché mai?» chiese Liss. «Lei guarda la divisa. Ma non ci sono nato dentro. Il Führer e il partito ordinano e noi, soldati, obbediamo (…). Queste mani, come anche le sue, amano lavorare sodo e non hanno paura di sporcarsi». (...)

Liss:«Quando io e lei ci guardiamo in faccia, non vediamo solo un viso che odiamo. È come se ci guardassimo allo specchio. È questa la tragedia della nostra epoca. Come potete non riconoscere in noi, non vedere in noi la vostra stessa volontà?...Voi credete di odiarci, ma è solo un’impressione: odiando noi odiate voi stessi. Tremendo vero?». (...) «Attacchiamo voi, ma in realtà colpiamo noi stessi. I nostri blindati non hanno violato i vostri confini, ma anche i nostri, c’è il nazionalsocialismo sotto i loro cingoli. È terribile, è come sognare il suicidio. Può finire in tragedia, per noi. Mi capisce? E se dovessimo vincere? Voi non ci sareste più e noi, i vincitori, ci ritroveremmo soli contro un mondo che non conosciamo e che ci odia».

Sarebbe stato facile confutare le parole di quell’uomo … Ma c’era qualcosa ancor più raccapricciante e pericoloso delle parole di un esperto provocatore delle SS. Una corda che vibrava, ora timida, ora maligna, nel cuore e nel cervello di Mostovskoj. Erano dei dubbi schifosi e sporchi che questi non scopriva nelle parole dell’altro, ma nel proprio animo.

(…) Liss continuava a parlare, e di nuovo fu come se si fosse dimenticato di Mostovskoj. «Due poli! Proprio così! Perché se così non fosse, oggi non combatteremmo questa guerra tremenda. Siamo i vostri peggiori nemici, è vero. Ma se noi vinciamo, vincete anche voi. Mi capisce? E se anche vinceste voi, noi saremmo spacciati, sì, ma continueremmo a vivere nella vostra vittoria. È una sorta di paradosso: se perdiamo la guerra, la vinciamo e ci sviluppiamo in un’altra forma pur conservando la nostra natura».

(Vasilij Grossman, Vita e Destino, 1960, Jaca Book pag.392 1984 poi pubblicato in versione integrale nel 1990)

 Nota

Le  parole di Liss sono sicuramente tra le più sconvolgenti e provocatorie di tutto il romanzo.

Liss afferma senza mezzi termini di ammirare Lenin, perché è stato il leader dei bolscevichi ad aver fondato un partito di tipo nuovo, basato sulla disciplina, l’obbedienza assoluta dei militanti, l’abdicazione di ogni pensiero (comprese le considerazioni di carattere etico) alla rivoluzione e a chi la guida. Hitler, sotto questo profilo, non è stato altro che un bravo discepolo, come lo è stato – ovviamente – Stalin.

Entrambi hanno dato vita al «socialismo nazionale dello Stato»; certo, in apparenza, le società che essi guidano sembrano (e in parte sono) diverse. Nella sostanza, però, dice Liss, «non esistono baratri», al punto che URSS e Terzo Reich potrebbero essere definite «forme differenti di un unico essere  », lo Stato partitico, appunto (p. 399). 

Ciò che li accomuna è il fatto di cancellare la libertà, di schiacciare l’autonomia dell’individuo e di non ammettere alcuna forma di divergenza. Ecco perché entrambi fanno uso sistematico del lager (per chiunque sollevi critiche ed obiezioni), procedono alla eliminazione violenta di chiunque critichi l’agire del Capo, non esitano ad uccidere milioni di persone (se e quando esse sono, o semplicemente vengono considerate, ostacoli al conseguimento dei fini che il  capo e lo Stato si propongono di conseguire): “Voi avete ucciso milioni di persone, e gli unici ad aver capito che andava fatto siamo stati noi tedeschi”. E Liss conclude:”Deve credermi, io ho parlato,e lei ha taciuto, ma io so di essere per lei uno specchio.”

lunedì 4 aprile 2022

CARI FRATELLI NELLA FEDE, ALZIAMO LO SGUARDO

Lettera aperta ai ciellini, che un po' si perdono via sui social in discussioni infruttuose sulle regole. «Non annacquiamo l'enormità del nostro carisma»

Peppino Zola

Caro direttore, scrivo a te, caro amico, anche se, in realtà, la lettera vorrei spedirla a tutti i fratelli e a tutte le sorelle che condividono con me l’esperienza di Comunione e Liberazione: e vorrei scrivere loro perché l’incontro fatto con il Movimento nato intorno a don Giussani è stato così determinante per la mia oramai lunga vita (ho superato gli ottant’anni dei “più robusti” del salmo) che non riesco a rimanere indifferente rispetto al pericolo di vedere dei fratelli e delle sorelle nella fede perdere tempo rispetto al cuore intimo della nostra esperienza.

Dopo avere avuto per tre anni don Giussani come insegnante di religione al liceo Berchet, sono entrato “definitivamente” nel Movimento (allora nella forma di Gioventù Studentesca) nell’autunno del 1958 e quindi sto appartenendo a questa straordinaria storia da ben 64 anni, dato che don Giussani, come ho già avuto modo di scrivere, mi ha buttato in una vita intensa e avventurosa, di cui sono e sono sempre stato immensamente grato al Signore, che ha avuto pietà dei miei limiti. E mi ha permesso di “non stare mai tranquillo”, come lo stesso don Gius ci ha augurato al termine di un suo memorabile intervento al Meeting di Rimini.

E sono stati anni attraversati, insieme ad avvenimenti esaltanti, anche da momenti di grande difficoltà (per esempio la lacerante divisione del 1968), che però non ci hanno mai impedito di guardare lietamente al punto essenziale della nostra esperienza, cioè Cristo stesso, vissuto nell’appartenenza alla comunione come dono totalmente gratuito. Ma allora, perché ho pensato di scrivere agli amici ed alle amiche dal popolo a cui appartengo? Perché ho intravisto un pericolo (anche se, d’altra parte, sono commosso dalla testimonianza di una vita cristiana eroica vissuta da molti amici). Mi spiego.

Come sappiamo, Santa Madre Chiesa ci ha chiesto di aggiornare le regole che tengono insieme gli iscritti della Fraternità di Comunione e Liberazione e tutti noi siamo stati giustamente coinvolti in questo cammino, richiestoci per aumentare la coscienza con cui viviamo la nostra fede. Questo cammino è fatto anche di passaggi “tecnici” che riguardano la stesura di uno statuto aggiornato, mentre la vita del Movimento deve continuare senza alcuna interruzione, affinché il nostro contributo alla Chiesa non venga meno neppure per un secondo.

Come in tutte le cose umane, può accadere che alcuni di questi passaggi non siano sempre semplici. Ecco, sui social ho visto degli amici soffermarsi pubblicamente su alcuni di questi passaggi, con giudizi e osservazioni poco fraterni e comunque esagerati, in modo tale da correre il pericolo di annacquare la comunione esistente (comunque) tra di noi. Viene spesso ricordato un detto di qualche saggio orientale, che dice più o meno così: “quando un dito indica la luna, lo stolto guarda il dito”. Ho pensato di scrivere queste righe per aiutarci a fare memoria della “luna”, cioè dell’essenziale della nostra esperienza, che ci aiuta a dare il giusto posto anche a possibili errori che possano essere commessi. In poche parole, vorrei invitare me stesso e tutti gli amici a tenere lo sguardo fisso sulla sostanza della nostra vita e della nostra esperienza cristiana, senza farci troppo distrarre da problematiche importanti, ma secondarie rispetto alla “luna”. Lo sguardo alla sostanza ci farebbe vivere con più serenità (ed anche con un po’ di ironia) certi passaggi “tecnici”, che pure sono necessari.

La Grazia del Signore ci ha fatto incontrare un carisma eccezionale, impersonato da un gigante della fede (ora sempre più riconosciuto come tale), che, precedendo ogni analisi sulla “crisi” della Chiesa, ha avuto il coraggio di riannunciare la presenza eccezionalmente “nuova” di Cristo ad un mondo che già aveva iniziato ad allontanarsi dal cristianesimo (approfittando anche del fatto che molti cattolici avevano, in sostanza, vergogna di parlare direttamente di Gesù, il che, peraltro, è una tendenza normale nella storia cristiana).

A pagina 162 della monumentale Vita di don Giussani scritta da Alberto Savorana possiamo leggere queste parole di don Giussani: «Me lo ricordo come fosse oggi: liceo classico Berchet, ore 9 del mattino, primo giorno di scuola, ottobre 1954. Mi ricordo il sentimento che avevo mentre salivo i pochi gradini d’entrata al liceo: era l’ingenuità di un entusiasmo, di una baldanza, che mi aveva fatto lasciare la pur amata strada dell’insegnamento della teologia nel seminario diocesano di Venegono per poter aiutare i giovani a riscoprire i termini di una fede reale».

E Savorana aggiunge che «Giussani si rivedeva in quel momento, “con il cuore tutto gonfio dal pensiero che Cristo è tutto per la vita dell’uomo, è il cuore della vita dell’uomo”». Nello stesso prologo dell’attuale statuto della Fraternità viene riaffermato che il carisma donato a don Giussani è caratterizzato dalla «insistenza sulla memoria di Cristo come affermazione dei fattori sorgivi dell’esperienza cristiana…»; dalla «insistenza sul fatto che la memoria di Cristo non può essere generata se non nella immanenza ad una comunità vissuta» e dalla «insistenza sul fatto che la memoria di Cristo inevitabilmente tende a generare una comunionalità visibile e propositiva nella società».

Tre grandi parole, dunque, hanno investito tutti coloro che hanno incontrato il Movimento: Gesù Cristo, Comunità (o comunione, amicizia, compagnia) e impegno nella società. A fronte di questa grandiosa proposta che don Giussani ci ha fatto e ci continua a fare, capite, caro direttore e cari amici e amiche nella fede, come sarebbe almeno sproporzionato farci distrarre da fattori che, ripeto, sono importanti, ma che lo sono se ci aiutano ad essere più fedeli alla responsabilità missionaria che don Giussani ci ha testimoniato con tutta la sua vita, anche quando la salute non lo aiutava più. Anche perché don Giussani non ci ha lasciati soli con questa nostra responsabilità, ma ci ha tracciato una strada e cioè un metodo che sarebbe imperdonabile dimenticare.

Lo ha fatto quando ci ha ricordato che la vera e reale vita cristiana è tale quando vive tre dimensioni: cultura, carità e missione. Nel libro Il cammino al vero è un’esperienza, don Giussani chiarisce che nessuna di tali dimensioni può essere messa in secondo piano, perché l’integralità di tali dimensioni in ogni gesto umano e cristiano «è questione addirittura di vita o di morte per il gesto stesso; poiché senza l’impostazione almeno implicita di tutte le sue fondamentali dimensioni, il gesto non è povero, ma addirittura manca di verità», perché la verità è Una e non può essere spezzettata. Con la cultura noi abbiamo la responsabilità di «offrire agli uomini il significato di tutto», da cui dipende ogni giudizio; con la carità, la tenerezza di condividere il bisogno che incontriamo; con la missione l’eliminazione di ogni limite alla nostra presenza ed al nostro annuncio, perché abbiamo avuto il mandato di andare fino ai confini del mondo.

Cari tutti, mi sono buttato a scrivervi perché ho l’impressione che noi rischiamo, al di là dell’obbedienza con cui dobbiamo velocemente rispondere a ciò che la Chiesa ci chiede, di annacquare e ridurre l’enormità del richiamo che il nostro carisma ci ha fatto con tutte le dimensioni di cui sopra e con il metodo che ne deriva. In questo senso mi e vi pongo alcune domande. Ci impegniamo veramente nel formulare e nel trasmettere il giudizio di Cristo ai nostri fratelli uomini? Condividiamo veramente con affezione e carità i bisogni che incontriamo sia nel mondo che tra di noi (e, ripeto, in molti casi la testimonianza che riceviamo è grandiosa)? Abbiamo la preoccupazione di andare ai posti di lavoro con lo stesso fervore e ardore con cui don Giussani è salito sui gradini del Berchet? Almeno tentiamo che nel nostro ambiente ci sia una comunità che, attraverso la propria unità, testimoni la presenza di Cristo? La parola “missione” non ci è venuta un po’ estranea?

Tra l’altro, proprio in questo periodo abbiamo una grande opportunità per risvegliarci dalla nostra sonnolenza ed è costituita dal libro di don Giussani Dare la vita per l’opera di un altro, che ci è stato indicato come testo per l’attuale scuola di comunità. Fin dal titolo, il libro pone la vera questione che l’esperienza cristiana pone. Questo enorme testo, se vissuto, letto, capito e verificato con la nostra esperienza di vita, ci indica la modalità con cui vivere le tre dimensioni sopra citate, senza correre il pericolo di farci cadere nelle trappole moralistiche ed etiche: dall’ontologia lì indicataci possiamo trarre nuovo spunto per vivere lietamente e quotidianamente la nostra presenza missionaria.

Cari amici, lasciamo perdere le piccole difficoltà che possiamo incontrare anche tra di noi e guardiamo con “ingenua baldanza” alla strada che il carisma del servo di Dio don Luigi Giussani ci ha tracciato, magari imitando quelli tra di noi che già possiamo considerare “santi” (e ce ne sono tanti).

Con grande affetto ed in comunione,

Peppino Zola

 

Tempi  30/03/2022 - 17:17 

 

https://www.tempi.it/cari-fratelli-nella-fede-alziamo-lo-sguardo/?fbclid=IwAR0c7orPzM00Fj4-ExughWf-PpUdyaYQ7QHiRZZ3LFgRhzuChyIT0coLsZQ



sabato 2 aprile 2022

DON GIUSSANI: COSA PENSI DELLA CULTURA OCCIDENTALE? (1986)

Domanda: Che cosa pensi della cultura occidentale? Questa domanda per noi è importante perché viviamo in un Paese che vuole essere l’espressione realizzata dell’Occidente.

Don Giussani: Mi pare che sia una domanda onnicomprensiva. Credo che, innanzitutto, la cultura occidentale possieda dei valori tali per cui si è imposta e come cultura e operativamente, socialmente, a tutto il mondo.

C’è una piccola osservazione da aggiungere: che tutti questi valori la civiltà occidentale li ha ereditati dal cristianesimo:

il valore della persona, assolutamente inconcepibile in tutta la letteratura del mondo, perché la persona è concepibile come dignità esclusivamente se è riconosciuta non derivare integralmente dalla biologia del padre e della madre, altrimenti è come un sasso dentro il torrente della realtà, una goccia di un’ondata che si infrange contro la roccia;

il valore del lavoro, che in tutta la cultura mondiale, in quella antica ma anche per Engels e Marx, è concepito come una schiavitù, è assimilato a una schiavitù, mentre Cristo definisce il lavoro come l’attività del Padre, di Dio;

il valore della materia, vale a dire l’abolizione del dualismo fra un aspetto nobile e un aspetto ignobile della vita della natura, che non esiste per il cristianesimo;

la frase più rivoluzionaria della storia della cultura è quella di san Paolo: «Ogni creatura è bene», per cui Romano Guardini può dire che il cristianesimo è la religione più “materialista” della storia;

il valore del progresso, del tempo come carico di significato, perché il concetto di storia esige l’idea d’un disegno intelligente. Questi sono i valori fondamentali della civiltà occidentale, a mio avviso.

Non ne ho citato un altro, perché è implicito nel concetto di persona: la libertàSe l’uomo deriva tutto dai suoi antecedenti biologici, come la cultura imperante pretende, allora l’uomo è schiavo della casualità degli scontri e quindi è schiavo del potere, perché il potere rappresenta l’emergenza provvisoria della fortuna nella storia.

Ma se nell’uomo c’è qualche cosa che deriva direttamente dall’origine delle cose, del mondo, l’anima, allora l’uomo è realmente libero. L’uomo non può concepirsi libero in senso assoluto: siccome prima non c’era e adesso c’è, dipende. Per forza.

L’alternativa è molto semplice: o dipende da Ciò che fa la realtà, cioè da Dio, o dipende dalla casualità del moto della realtà, cioè dal potere. La dipendenza da Dio è la libertà dell’uomo dagli altri uomini.

La mancanza terribile, l’errore terribile della civiltà occidentale è di aver dimenticato e rinnegato questoCosì, in nome della propria autonomia, l’uomo occidentale è diventato schiavo di ogni potere.

E tutto lo sviluppo scaltro degli strumenti della civiltà aumenta questa schiavitù. La soluzione è una battaglia per salvare: non la battaglia per fermare la scaltrezza della civiltà, ma la battaglia per riscoprire, per testimoniare, la dipendenza dell’uomo da Dio.

Quello che è stato in tutti i tempi il vero significato della lotta umana, vale a dire la lotta tra l’affermarsi dell’umano e la strumentalizzazione dell’umano da parte del potere, adesso è giunto all’estremo. Come Giovanni Paolo II ha messo in guardia tante volte, il pericolo più grave di oggi non è neanche la distruzione dei popoli, l’uccisione, l’assassinio, ma il tentativo da parte del potere di distruggere l’umano.

E l’essenza dell’umano è la libertà, cioè il rapporto con l’infinito.

Perciò è soprattutto nell’Occidente che la grande battaglia deve essere combattuta dall’uomo che si sente uomo: la battaglia tra la religiosità autentica e il potere. Il limite del potere è la religiosità vera - il limite di qualunque potere: civile, politico ed ecclesiastico  

“CRISTO, TUTTO CIÒ CHE ABBIAMO”

Appunti da una conversazione di Luigi Giussani con un gruppo di Comunione e Liberazione. New York, 8 marzo 1986