mercoledì 31 agosto 2022

GORBACIOV E LA MATRJOSKA DELLA STORIA

 IL 30 AGOSTO, ALL'ETA' DI 91 ANNI, E' MORTO A MOSCA 

MICHAIL GORBACIOV 

ULTIMO PRESIDENTE DELL'URSS

George H. W. Bush, Ronald Reagan, Michail Gorbaciov
New York 1988
Gorbaciov arrivò che l’impero sovietico stava già tirando le cuoia e la storia apparecchiava il tavolo per celebrare gli ultimi grandi leader del Novecento, Helmut Kohl, Ronald Reagan, Michail Gorbaciov, Margaret Thatcher, François Mitterrand , Deng Xiaoping e Karol Wojtyla. Furono queste figure a chiudere la Guerra Fredda, avviare l'era del Pacifico e spalancare il cancello del nostro presente senza mappe. Gorbaciov fu il protagonista e testimone dell’ultima era dei grandi incontri. Oggi viaggiano bollettini di missili, stragi, minacce nucleari. Presidenti che posano su Vogue, zar in cachemire a caccia di imperi immaginari da conquistare con i cannoni, un'élite europea senza logos, sonnambula. Intorno, un arsenale nucleare pronto all'uso e troppi soggetti capaci di ogni crimine.

Il Cremlino è da sempre un luogo tragico. Lo fu negli anni che preparavano la guerra con le bombe, le armi automatiche, il gas nervino; nel presagio keynesiano di una pace di Versailles allevatrice di nuovi mostri; nello sterminio hitleriano, nel dopo il bunker di Berlino; tra i gelidi colpi delle spie con la Browning e la Makarov, al varco del Checkpoint Charlie, tra le vite degli altri ascoltate e spezzate. Il Cremlino fu un teatro con un suo cartellone fisso, vari impresari, programma sanguinoso. Fu Lenin a sparare il colpo di cannone a San Pietroburgo e dare il via all’opera macabra. Stalin la industrializzò eliminando tutti i nemici (in ‘The Cold War’ di John Lewis Gaddis il numero dei cittadini sovietici uccisi per mano staliniana è di oltre 10 milioni). Con Krusciov cercarono di dimenticare l’assassinio in casa per dedicarsi a sfiorare nel 1962 il conflitto nucleare con i missili di Cuba, poi arrivò il tempo della ‘dottrina Breznev’ in un’era di stagnazione e ombre, assassinio e ‘raffreddori sovietici’. Gli anni Ottanta furono il gioco pirotecnico dell’implosione lenta e inesorabile, al Cremlino sfiammavano i presidenti come zolfanelli,  nel 1982 arrivò al potere un ex capo del Kgb (un altro, non quello), Jurij Andropov, un segretario-lampo che dopo due anni lasciò il comando a Konstantin Černenko, altra sagoma che finì regolarmente nella botola della storia, figuranti stanchi di un tramonto sul letto della Moscova. Il Pcus tirò fuori dal cilindro la carta disperata nel 1985, Michail Gorbaciov. Aveva solo 54 anni, un giovane nella storia della nomenklatura sovietica, era nella manica di Andropov, ma non lo conosceva nessuno, i Cremlinologi non possedevano un dossier informato su di lui, l’intelligence non sapeva neppure che esistesse. Era il nome del pre-destinato, l’ultimo presidente dell’Urss, la parola ‘fine’ galoppava come i cosacchi nella taiga siberiana. Sembrava lontanissimo, quel giorno, il 9 novembre del 1989, la caduta del Muro di Berlino. Poi arrivò. 

 

Gorbaciov al suo esordio fece la riforma più grande, la sua vera e unica rivoluzione, la spinta che mancava per mandare giù tutto: la riforma della parola. Il segretario del Pcus cambiò il linguaggio del regime, cominciò a emettere strani suoni che facevano emergere terre mai viste  prima: 

Glasnost (trasparenza)e Perestrojka (ristrutturazione), Demokratisatsiya (democrazia, ma sempre nel partito unico) e Uskoreniye (accelerazione). 

Trasparenza e un programma di riforme politiche e economiche, si stava chiudendo il sipario del socialismo reale. Le catene spezzate furono quelle della parola, fuori dalla letteratura e dalla dissidenza, dagli scacchi e dall’esilio, c’era qualcos’altro che aveva un suono nuovo, era lui, Gorbaciov. Ma cosa stava cominciando? Una sinfonia confusa, senza spartito, il caos incorporato nel declino. L’Unione Sovietica era moribonda, il suo sistema economico al collasso, la sua forza militare consumata e il suo arsenale nucleare in decadimento, la presa sugli altri paesi dell’impero si era ormai allentata per insufficienza di forze, paura del collasso imminente. L'apparato pensava ai suoi agi, vedeva le crepe nel Palazzo, la guerra in Afghanistan contro i Talebani era un pantano (poi toccò a noi e dopo vent'anni abbiamo visto l'altra ritirata, spartiacque della storia). Fu questione di un attimo, un fiammifero nel buio, la detonazione a catena di quello spazio immaginato da Winston Churchill, non più premier del Regno Unito, nel suo discorso sulla Cortina di Ferro del 5 marzo del 1946, tenuto a Fulton, in Missouri: 

“Da Stettino nel Baltico a Trieste nell'Adriatico, una cortina di ferro è scesa attraverso il continente.”

Quello spazio nell'era di Gorbaciov stava esplodendo. Margaret Thatcher lo incontrò, ne rimase entusiasta e volò a Washington per dire a Ronald Reagan di aprire subito la porta della Casa Bianca a questo leader dal parlare inusuale, una ventata di calore lontano dalla sferzata di ghiaccio siberiana. Il presidente americano si auto-consegnò alla storia seguendo la Lady di Ferro, apri-pista di un mondo nuovo. George H.W. Bush, con l’esperienza di chi aveva guidato la Cia durante la Guerra Fredda, mise il sigillo allo straordinario ciclo della speranza. Missione compiuta, vittoria dell’Occidente, il comunismo è morto e la storia è finita. Applausi.

Sparita l’Unione Sovietica, rimase la Russia con i suoi immensi spazi, vuoti da riempire. E nessuno si preoccupò di capire fino in fondo cosa sarebbe nato sulle macerie dell’impero. I vincitori si impegnarono in un brindisi perenne dei loro successi, soprattutto quelli commerciali. 

Dopo quella di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, partì la seconda fase della globalizzazione, quella di Bill Clinton e Tony Blair. 

La prima era intimamente legata all’espansione della democrazia, la seconda fu lo sganciamento degli ideali (quella cosa chiamata libertà) dai valori (il fatturato altrove della Corporate America). 

Da quel momento, dal distacco tra realtà e contabilità, l’Occidente fu colto da sonnambulismo, hubrys, dalla tracotanza dei vincitori che non leggono e non ascoltano le lezioni della storia. 


La Russia di Gorbaciov non esisteva, la visione, la grande spinta di un uomo coraggioso da sola non poteva trasformare un sistema putrefatto in un regno democratico nutrito dal capitalismo impaginato nei quaderni di Harvard. 

Fu un doppio errore delle élite dell’economia (il primo di una lunga serie), consumato prima con la Russia e poi con la Cina. Mosca serviva come stazione di servizio tra Vladivostok e Berlino e così andammo a chiedere gas e petrolio, non riforme e sicurezza nello spazio dell’Europa, la libertà era una cosa che interessava solo ai nostalgici del Novecento, con i vertici in Islanda, le serate al Bolshoi e le cavalcate a Camp David. 


La fine dell’Urss fu un lampo d’utopia che rimase senza luce. Al buio, si vide anche il bagliore lontano di quello che sarebbe arrivato. 

Ora è qui, davanti a noi, l’America di Biden, la Russia di Putin, l’Europa di nessuno.


tratto da List di Mario Sechi

martedì 30 agosto 2022

L’ECLISSI CATTOLICA IN POLITICA

In Italia esiste un mondo cattolico che pensa, che scrive, che produce opere di ogni genere: ma nel discorso pubblico è un mondo pressoché assente. Nella comunicazione è solo il Papa, infatti, che in qualche modo riesce ancora a farsi sentire, i vescovi e la Cei quasi nulla, mentre politicamente i cattolici nel loro insieme dopo la catastrofe del 1992-94 contano zero.

Archivio storico del Partito Popolare 1919
Penso anch’io che per il nostro Paese questo silenzio non sia un fatto positivo, sicché ha fatto bene Andrea Riccardi (Corriere della Sera, 18 agosto) ad auspicare che il mondo cattolico riacquisti una sua forte voce pubblica e — lo si capisce sebbene egli eviti di parlarne esplicitamente — anche politica.

Nel suo intervento non trova però posto una domanda cruciale: qual è la ragione di questa eclissi cattolica? Perché mai in Italia — ma non solo! — questo precipizio nell’irrilevanza pubblica?

Per la brevità necessaria in questa sede mi limito ad una sola risposta: perché ormai l’identità cattolica appare qualcosa di talmente fluido da essere divenuta priva di connotati precisi, indefinibile, e quindi incapace di porsi come una vera protagonista del dibattito. Per esistere bisogna consistere, infatti.

Ma oggi il termine cattolico può consistere in molte cose molto diverse tra di loro: in un adepto di sant’Egidio candidato del Pd come in un innamorato della lezione di don Giussani militante nel centrodestra, in un estimatore del «giusto mezzo» di Montini o in un bergogliano tutto ecologia e periferia.

Anche dal punto di vista diciamo così teologico-religioso ci sono cattolici pronti a scendere in piazza per impedire a una donna di abortire e altri, invece, convinti che dopotutto l’aborto sia una questione da lasciare alla coscienza di ciascuno; quelli per cui ogni guerra è un abominio e quelli per i quali, al contrario, possono esserci anche guerre giuste.

La verità è che sotto l’urto dissolvitore della secolarizzazione, il cattolicesimo non è riuscito nell’impresa — a onor del vero forse impossibile — di trovare una risposta all’altezza della sfida. Di fronte al micidiale combinato disposto di tecno-scienza e individualismo esso è passato da un’opposizione rassegnata ad un’altra, da un accomodamento compromissorio all’altro, da un’illusione benevola all’altra.

Ma in questo modo l’identità cattolica, lungi dal conservarsi, si è frantumata in una costellazione di identità. Innanzi tutto perché è andato in frantumi il principio di autorità in precedenza rappresentato dal magistero papale. Che oggi conta, ma solo nella misura in cui si è (o si finge di essere) in accordo con esso.

Il cattolicesimo è così diventato un fatto eminentemente individuale che ogni fedele — o gruppo di fedeli, i cosiddetti «movimenti» — si «costruisce» e si amministra singolarmente come vuole. A tenerlo in qualche modo insieme sembra ormai essere rimasta solo una cosa: al di là della sempre minore frequenza alla messa la funzione sacerdotale, la figura del sacerdote al cui ruolo viene comunque riconosciuto da tutti i fedeli il carisma di unico mediatore del sacro.

Ma per il resto regna davvero il più grande disordine sotto il cielo. A cavallo del secolo, come ricorda lo stesso Riccardi, il cardinale Ruini, allora presidente della Cei, si illuse che almeno intorno ad alcuni «valori non negoziabili» fosse ancora possibile far valere (e difendere) nell’arena pubblica una qualche identità comune a tutti i cattolici. Ma con nessun successo. Si dimostrò allora che anche l’antico principio in necessariis unitas (restare uniti nelle questioni fondamentali) non funzionava più. Nessuno sembrava più credere, almeno all’apparenza, che ci fossero valori realmente non negoziabili.

Da allora le pronunce della Conferenza episcopale italiana si limitano non a caso ad alcune paginette dedicate all’auspicio dell’ovvio, cercando in tal modo di mantenere in piedi la finzione di un’unica identità cattolica. Che la Chiesa per prima sa bene essere una finzione, sicché proprio per cercare di mantenerla in piedi non può fare altro — come sta facendo in questi giorni in Italia — che raccomandare a se stessa, ancora una volta, il più assoluto silenzio nel dibattito elettorale in corso.

Fino a qualche anno fa a tale silenzio della Chiesa corrispondeva tuttavia la voce dei cattolici. Che per molto tempo è stata una voce ben udibile in grande prevalenza a favore del centrosinistra (come voce: quanto al voto le cose stavano probabilmente in modo diverso).

Dopo la fine della Democrazia cristiana, infatti, esponenti importanti vecchi e nuovi del mondo cattolico, spesso della stessa Dc, si sono schierati sì con il Pd, ma sempre nella sostanza come dei puri vassalli fiancheggiatori. Con la speranza forse di dare un’anima cristiana a una sinistra rinnovata, e che dal naufragio della Prima Repubblica potesse salvarsi la cultura politica comunista e il suo partito, i quali della Prima Repubblica, invece, avevano condiviso in pratica tutto; fino al 1989 anche le tangenti. Commettendo, insomma, l’errore di credere ingenuamente al mito della «diversità» che il Pci aveva costruito di se stesso; e quindi di pensare che una volta eliminato l’ostacolo rappresentato dalla Dc l’arrivo al potere dell’ex Pci e dei suoi uomini avrebbe rappresentato l’inizio di chissà quale rinnovamento del Paese.

L’evidente fallimento di questo disegno ha lasciato i cattolici italiani come si trovano oggi: di fatto politicamente muti, incapaci di una iniziativa autonoma. Per acquistare la quale dovrebbero convincersi ad accettare due condizioni. Innanzi tutto quella di muoversi sul terreno della politica al di fuori di qualunque ispirazione/tutela/patronage da parte della Santa Sede o della Chiesa italiana (entrambe evidentemente disinteressate, impossibilitate o in altre faccende affaccendate); in secondo luogo accettare in modo esplicito di non ambire a rappresentare né un qualche movimento né il tutto — il mitico «mondo cattolico» che implica l’obbligo di stare nella posizione di un ormai inesistente «centro» — ma di essere necessariamente solo una parte, di destra o di sinistra, e magari decidersi a farlo unendosi anche a chi proviene da fedi o culture politiche differenti ma non incompatibili.

La vicenda dei cattolici italiani è stata troppo importante e ricca di risultati, ancora oggi essi annoverano troppe energie, volontà, capacità, perché tutto sia consegnato definitivamente a un passato senza futuro.

ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA

Da il corriere della sera

 

martedì 23 agosto 2022

COSTRUIRE SEMPRE. DON EMILIO DE ROJA, STORIA DI UNA VITA COSTANTEMENTE ALL’OPERA

LE MOSTRE DEL MEETING

DON EMILIO DE ROJA

«Cosa c'è in comune fra don Emilio De Roja e Pier Paolo Pasolini? Anzitutto il Friuli. Don Emilio è morto trent' anni fa e a lui è dedicata una bella mostra attualmente ospitata dal Meeting di Rimini. Pasolini è nato cento anni fa e a lui - e a suo fratello Guido - è dedicato un libro, appena uscito, di Andrea Zannini, "L'altro Pasolini" (Marsilio). 

Il fratello partigiano di Pier Paolo conosceva don Emilio perché il sacerdote udinese faceva parte, come lui, della brigata partigiana Osoppo. Sono due grandi storie purtroppo dimenticate che si intrecciano. 

La morte di Guido - generoso e idealista - è stata il grande dolore della vita di Pier Paolo che, sebbene più grande, aveva scelto di non andare con lui in montagna. In una sua poesia del 1966 scriverà: "Piango ancora, ogni volta che ci penso / su mio fratello Guido, / un partigiano ucciso da altri partigiani, comunisti". Fu ucciso infatti nel febbraio 1945, con altri della Osoppo, nel massacro di Porzûs (dove venne ammazzato anche Francesco De Gregori, ufficiale degli alpini e zio del cantautore). Una tragedia da cui emerge bene che vi furono due Resistenze, molto diverse. La nascita della formazione partigiana Osoppo era stata ispirata anche dal vescovo di Udine, mons. Nogara il quale - in contatto con il Vaticano - si rendeva conto che in Friuli era necessario, oltre a combattere i nazifascisti, opporsi all'avanzata dei partigiani comunisti titini in territorio italiano. I gruppi partigiani legati al Pci non erano certo un argine. Così nacque la Osoppo, i cui membri erano in gran parte orientati verso la Dc, una parte minore era azionista e poi c'erano degli alpini, comunque tutti anticomunisti. Don Emilio teneva i contatti fra i partigiani e il vescovo. 

SCHELETRI NELL’ARMADIO : GLI ANTIFASCISTI SCOMODI PER I COMPAGNI

OMBRE BOLSCEVICHE. Guido era di idee azioniste e - dal rapporto con le formazioni partigiane comuniste (garibaldine) - ricavò una pessima impressione, come si evince dalla famosa lettera che scrive il 27 novembre 1944 al fratello Pier Paolo: «I comunisti garibaldini hanno intenzione di costituire la repubblica (armata) sovietica del Friuli: pedina di lancio per la bolscevizzazione dell'Italia!!!I presidi garibaldini (incontrati per strada) fanno di tutto per demoralizzarci e indurci a togliere le mostrine tricolori. A Mernicco un commissario garibaldino mi punta sulla fronte una pistola perché gli ho gridato che non ha idea di che cosa significhi essere "Uomini liberi" e che ragionava come un federale fascista (...). A fronte alta dichiariamo di essere italiani e di combattere per la bandiera italiana, non per lo "straccio rosso"... Di"alla mamma che nel caso avesse qualcosa da mandarmi vi aggiunga un fazzoletto tricolore e uno verde» (il fazzoletto verde e il tricolore erano i simboli della Osoppo). Tre mesi dopo si consuma il massacro, durante il quale Guido ha un comportamento eroico e subisce un martirio feroce.

La strage di Porzus, febbraio 1945

Zannini alza il velo su una tragedia che non può essere ridotta solo al fanatismo di alcuni, ma doveva suscitare una seria riflessione da parte comunista. Che invece non c'è stata. Del resto anche quando il Pci è stato costretto a cambiar nome, dal crollo del Muro di Berlino, la sua classe dirigente - che è rimasta in attività ed anzi è andata al potere - non ha mai veramente guardato in faccia la propria storia. Infatti lo stesso Walter Veltroni, che firma la presentazione del libro, parla dell'«uccisione di Guido, ammazzato per mano di gappisti appartenenti al Pci», ma non affrontala questione comunismo. Preferisce concentrarsi sull'altro problema approfondito da Zannini: come e perché Pier Paolo, così provato dall'assassinio del fratello, dal 1947 diventa comunista e resterà fedele al Pci. Veltroni, che da giovane della Fgci, ebbe modo di incontrare più volte Pasolini, la definisce un'«apparente contraddizione».
Ma perché «apparente»? È una delle enormi contraddizioni di Pasolini. 

LA MISSIONE DI DON EMILIO

Come dicevo, la Osoppo torna d'attualità anche per la storia di don Emilio De Roja. E se da parte comunista c'è una rimozione, qui siamo di fronte invece all'inspiegabile dimenticanza della propria storia da parte dei cattolici. Infatti figure come quella di De Roja sono quasi sconosciute. Don Emilio gestì molte situazioni delicate per la brigata Osoppo. Riuscì a far liberare con uno stratagemma i comandanti della Osoppo catturati dai tedeschi e fu lui - che conosceva la lingua tedesca- a trattare con le truppe germaniche in ritirata, nell'aprile 1945, per scongiurare violenze e devastazioni. 

Nel dopoguerra don Emilio dedicò la sua missione ai poveri del villaggio San Domenico, alla periferia di Udine. Un quartiere di emarginati con problemi enormi, materiali e spirituali. Avviò la ricostruzione di case dignitose (al posto delle baracche), una scuola professionale per dare lavoro ai giovani. Fondò un convitto per chi veniva da lontano e da lì nacque la "Casa dell'Immacolata" che infine divenne una grande "casa degli ultimi" dedita a recuperare persone con gravi problemi. Dedicò la vita ai più poveri, infatti ebbe anche la visita di Madre Teresa di Calcutta. 

Morì il 3 febbraio 1992 in fama di santità. Giovanni Paolo II lo definì "generoso apostolo della Carità, esempio di Buon Samaritano"».

ANTONIO SOCCI tratto da LIBERO

LA MOSTRA

A cura di Paolo Benedetti, Giovanni Comelli, Giorgio Lorenzon, Marco Peronio, Roberto Tirelli, Roberto Volpetti

“Era un uomo felice, parlava sempre ed in ogni occasione con felicità, come se il mondo intero gli regalasse felicità e non brandelli umani, come se le miserie fossero occasione per essere felice”.

Così un suo amico descriveva don Emilio de Roja, sacerdote friulano morto nel ’92 che ha segnato in modo significativo la storia recente della sua terra. Si parla, sorprendentemente, di un uomo che avrebbe avuto tutti i motivi per non essere felice. Per essere arrabbiato e sconfortato per le difficoltà e i limiti umani incontrati nella sua stessa famiglia di origine, e poi durante la guerra e infine in un quartiere ‘difficile’ tra ragazzi ‘difficili’. Ma don Emilia aveva un motivo grande per essere felice: il riconoscimento certo dell’amore di Cristo e la fiducia in una Provvidenza che non lo ha mai abbandonato in quello che sentiva essere il suo compito: costruire sempre! Dove il costruire è facilmente visibile nelle opere generate, ma ancor più nella capacità di vedere nelle persone che incontrava il bene che avevano dentro, magari contradditorio al male di cui erano capaci.
Così raccontava:
“Una mamma mi consegnava il suo figliolo e sembrava lei l’accusatore dello stesso. Signora, ma pensa che è il suo figliolo? E che cosa potrei fare io se lei parla così di lui? Ammutolì e sottovoce cominciò: è vero ma a sentirsi lamentare i maestri, le guardie, il sindaco, il parroco, pensavo di dover parlare anch’io così, ma se lei mi dice che mi darà una mano devo sperare di salvare il mio figliolo”.

Si propone con la mostra l’incontro con quest’uomo, la sua passione per Dio e per l’uomo, attraverso la sua storia i suoi scritti, i suoi amici e chi (compresi i curatori) hanno avuto la grazia di conoscerlo.

sabato 20 agosto 2022

AL MEETING DI RIMINI LE TRE SFIDE DEI CATTOLICI NELLA SOCIETÀ

Davide Rondoni

Ogni volta che si avvicina il Meeting ci si interroga sul ruolo dei cattolici nella società. E in articoli e analisi (complice la scadenza elettorale) si assiste a un festival dell’ovvio. I cattolici e i valori, i cattolici e la presenza sociale... . Cose giuste per carità, ripetute piùo meno uguali da Riccardi (Sant’Egidio, ex ministro) o Vittadini (presidente Fondazione sussidiarietà che ispira l’interguppo parlamentare che porta al Meeting da Letta a Salvini, da Lupi alla Meloni). Da cristiano anarchico di rito romagnolo provo a deviare.


Oggi le sfide dei cristiani nella società sono tre.

Primo: la disperazione. C’è un nichilismo enorme, magari coperto da paillettes e narcosocial (o affogato in droghe e antidepressivi). Lo diceva don Giussani, nato 100 anni fa: occorre "sostenere la speranza degli uomini". Se i cristiani non sono realisti, lieti e speranzosi, sono inutili.

Secondo, la confusione tra natura e identità di marca sessuale generata dalla ideologia gender, serva del turbocapitalismo e di un postmarxismo sciocco. Se la mia natura è ciò che voglio io, io sono Dio e Cristo non serve, basta il market delle identità, stile Amazon. Se non si separa il discorso sulla natura umana dalla fiera delle identità e non ci si oppone a una riduzione biologica dell’umano, avremo una società di schiavi atei e ansiosi e già si vede.

Terza sfida, legata alla seconda. La erotizzazione del discorso sulla identità (da Freud via ‘68 a oggi) ha colto alle spalle una Chiesa un po’ sessuofoba (perché borghese), ricattabile (vedi pedofilia) e impaurita. Occorre passare dalla erotizzazione della lettura del fenomeno umano alla lettura affettiva. Don Giussani, padre di C.L., parlava di conoscenza affettiva, di "passione per l’umano", non di moralismo.

Al Meeting ci saranno queste sfide. I visitatori (e politici e vescovi) colgano la originalità di cristiani che non cercano un ’posto’ nella società, ma vanno liberi, operosi e strani.

TRATTO DA IL RESTO DEL CARLINO

 

IL CATTOLICO LETTA CHE SOGNA LA CANNABIS E IL MATRIMONIO GAY

Il segretario del Pd sposa riforme che rappresentano il ribaltamento dell’antropologia cristiana. Un altro atto del dramma che i cattolici vivono dai giorni del Concilio Vaticano II e del Sessantotto

Rodolfo Casadei

Ad annunciare che matrimonio omosessuale e cannabis libera sono punti qualificanti del programma del partito che attraverso varie incarnazioni più a lungo ha governato negli anni della Seconda Repubblica (6.323 giorni su 10.324, cioè il 61,2 per cento di tutto il tempo, secondo i calcoli di Renzo Puccetti), è stato un leader politico proveniente dalle file degli studenti di Azione Cattolica.

I desiderata del cattolico Letta

Per alcuni questo è un vero scandalo, per altri una curiosità trascurabile. La verità è un po’ più profonda: che il cattolico Enrico Letta segretario del Partito Democratico abbia proclamato come obiettivi particolarmente desiderabili per la società italiana due riforme che rappresentano il ribaltamento dell’antropologia cristiana (oltre che di quasi tutte le antropologie tradizionali, comprese quelle di tutte le più grandi religioni) non è un curioso paradosso, ma un altro atto del dramma che il mondo cattolico, italiano e non solo, vive dai giorni del Concilio Vaticano II e del Sessantotto.

Il Concilio ha rappresentato simbolicamente una svolta nell’atteggiamento della Chiesa nei confronti del mondo moderno: non più una condanna globale a partire dalla critica teologica dei suoi presupposti, ma un’apertura di impronta pastorale tesa a valorizzare ogni terreno comune d’intesa che si potesse individuare, in vista di una reciproca purificazione. La Chiesa ha accettato l’impostazione moderna di mettere al centro della riflessione l’uomo, ovvero il soggetto, certa di poter mostrare che l’uomo che prende in considerazione seriamente il suo io scopre che esso esiste solo in relazione a un Tu e a un noi (sociale ed ecclesiale, quindi sacramentale).

La vita della Chiesa nella realtà storica

Su questo don Luigi Giussani aveva anticipato i tempi, il suo movimento ecclesiale (allora Gioventù Studentesca) rappresentava una possibile soluzione della questione che il Concilio Vaticano II avrebbe tematizzato. Ma la vicenda del mondo cattolico post-conciliare, com’è noto, non si esaurisce nella fioritura di Gioventù Studentesca/Comunione e Liberazione e degli altri movimenti ecclesiali. Per molti cattolici l’impegno post-conciliare non è consistito in una valorizzazione critica della modernità, ma piuttosto in un cedimento alle sue sirene, che a quel tempo consistevano nell’illusione che il Regno di Dio potesse essere costruito dall’uomo stesso e in questo mondo.

E non si è trattato di una vicenda puramente intraecclesiale, ma di sommovimenti tettonici che hanno investito l’intera società italiana, perché, come dice don Massimo Camisasca nell’intervista che appare in questo mese su Tempi, «L’Italia è un paese di lunga tradizione cristiana. Ciò che accade nella Chiesa prima o poi influisce fortemente sulla vita sociale e viceversa, perché la Chiesa vive dentro la realtà storica che vivono tutti».

Terroristi rossi e ferventi cattolici

Il terrorismo delle Brigate Rosse non si spiega senza la crisi di fede e i tormenti di coscienza di un’intera generazione di giovani cattolici, sedotti infine dall’idea che l’ingiustizia andava combattuta armi alla mano e la società perfetta non poteva attendere i tempi escatologici. Nel fenomeno del terrorismo rosso in Italia c’è certamente una componente comunista che si ricollega alle esperienze dei partigiani delle Brigate Garibaldi nei due anni della guerra civile in Italia 1943-45 e in quelli immediatamente successivi, ma c’è una componente altrettanto importante che si collega al neo-moralismo cattolico, transitato dai temi sessuali a quelli sociali: Renato Curcio e Mara Cagol erano ferventi cattolici, così come molti altri esponenti dei gruppuscoli extraparlamentari di sinistra che si proponevano percorsi rivoluzionari.

Come scriveva l’allora card. Joseph Ratzinger nel 1991:

«Il processo di formazione del terrorismo italiano dei primi anni ‘70 rimane incomprensibile se si prescinde dalle crisi e dai fermenti interni al cattolicesimo postconciliare. Anche se la fede nell’aldilà era venuta meno o comunque diventata irrilevante, l’unità di misura dell’attesa ultraterrena non venne abbandonata, bensì posta ora in relazione al mondo presente».

Matrimonio gay e cannabis

Quei tempi sono conclusi, e oggi le speranze degli uomini che non hanno più la Speranza non si concentrano sulla politica, ma sulla tecnologia.

Nessuno crede più nella società perfetta perché è venuta meno la fede secolare (dopo quella religiosa) nel senso della storia; moltissimi attendono dalla tecnologia la possibilità di realizzare i personali desideri di onnipotenza, da conciliare per quanto possibile con quelli altrui. In questa ottica l’istituzione del matrimonio omosessuale rappresenta l’istanza più esemplare dell’uomo che si sostituisce impazientemente a Dio, che denuncia l’imperfezione del progetto divino e vi pone riparo; rappresenta l’antiCreazione per eccellenza: la natura, la corporeità, i sessi non comunicano più un senso di cui l’essere umano deve prendersi cura; li può riscrivere, rimaneggiare, ricreare in base a umani ideali di uguaglianza, varietà, creatività, edonismo, ecc. Ma di questo abbiamo già scritto tante volte.

Più intrigante è cercare di capire perché al giorno d’oggi i cosiddetti progressisti (termine anacronistico in epoca di nichilismo, ma si sa che i cattolici che si piccano di essere “conciliari” e che votano a sinistra sono sempre in ritardo sui tempi) attribuiscano tanta importanza alla legalizzazione della cannabis. Certo, sono consapevoli che si tratta della sostanza psicotropa proibita più consumata nel mondo, perciò la cinica ricerca di bacini elettorali certamente li muove. Ma non si tratta solo di ciò. Anche in questo caso ci viene in soccorso il card. Ratzinger, che nel lontano 1987 scriveva:

«Il “grande viaggio”, che gli uomini ricercano nella droga, è la forma pervertita della mistica, il pervertimento dell’aspirazione umana all’infinito, il rifiuto dell’insuperabilità dell’immanenza e il tentativo di oltrepassare le barriere della propria esistenza in direzione dell’infinito. L’umile e paziente avventura dell’ascesi, che a piccoli passi verso l’alto s’avvicina al Dio che si china verso di noi, viene sostituita dal potere magico, dalla magia rivelatrice della droga; l’itinerario morale e religioso dall’applicazione della tecnica. La droga è la pseudo-mistica di un mondo che non crede, ma che tuttavia non può scuotersi di dosso la tensione dell’anima verso il paradiso».

L’epoca della disillusione

La post-modernità è l’epoca della disillusione: disillusione rispetto alle ambizioni della modernità, disillusione rispetto alle promesse della Fede. In qualche modo occorre colmare il vuoto del cuore inquieto dell’uomo, che non può rinunciare ad aspirare alla felicità. La cannabis legale, insieme ai prodotti dell’industria dell’intrattenimento, è la risposta che una classe politica profondamente immorale dà agli esseri umani assetati di senso.

Per tenerli buoni, per farli regredire a una condizione infantile nella quale mamma Stato e papà Mercato si occupano in tutto e per tutto di loro. In attesa che tirino le cuoia.

RODOLFO CASADEI

TEMPI

 

giovedì 18 agosto 2022

A DIO LEO ALETTI, COMBATTENTE PER LA VITA PER CONTO DI MARIA

Nel giorno dell'Assunta muore a 77 anni Leandro "Leo" Aletti. Ginecologo e attivista per la vita ha combattuto la battaglia pro life con determinazione e lontano dai comodi schemi dei cattolici da salotto

Leandro Aletti è morto ieri nel giorno dell’Assunta all’età di 77 anni. Il ginecologo è stato uno dei principali attivisti italiani nel campo della difesa della vita nascente. Nato il 17 giugno 1945 e laureatosi in Medicina, dal 1993 è stato professore presso la Seconda Clinica Ostetrica e Ginecologica dell’Università di Milano e medico ospedaliero alla Clinica Ostetrica Mangiagalli di Milano. Nel 1999 Aletti è divenuto primario ospedaliero presso l’Azienda Ospedaliera di Melegnano. I funerali si svolgeranno domani alle 11 nella chiesa di Sant'Andrea a Milano.

 


Il ricordo della Bussola nelle parole di Benedetta Frigerio. 

Ti immagino mentre vieni accolto sulle soglie del Paradiso dal piccolo Leandro («Nel mondo c'è posto per tutti», La Nuova Bussola Quotidiana), da te così battezzato, sopravvissuto per alcune ore all’aborto e trasportato dal cestino di una sala parto ad una culla calda dove avevi ordinato che venisse dissetato fino alla morte. Ti penso con lui e circondato da altri bambini non nati, mentre finalmente riabbracci tuo figlio Stefano, sesto di otto, per la cui morte prematura hai tanto sofferto.

Ma soprattutto gioisco, pur con le lacrime della nostalgia, sapendo che ora sei a faccia a faccia con Colui che hai voluto servire senza sosta né compromessi per tutta la tua vita: «Venite, benedetti del Padre mio – dice Gesù – ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere…».

Mai comodo in questo tuo dare, Leo, come uno che non ha dove poggiare il capo, se non sul seno di Maria, la Madonna, che hai tanto amato, e la tua moglie fedele che ti ha seguito con tanta dedizione, discrezione e intelligenza nella tua missione. Che era quella, come mi ricordavi ogni volta che mi telefonavi o che ci vedevamo, di «voler bene a Gesù... è la cosa più importante della vita» e che per te coincideva soprattutto con la lotta contro l’aborto («cosa vuoi che ti dica, se Dio mi ha messo dentro questo pungolo cosa posso farci?», mi ricordavi quando mi lamentavo se mi sentivo sola o non compresa).

Mai tranquillo Leo, segno costante di contraddizione, impresentabile ai cattolici da salotto che non riescono ad abbandonare le logiche mondane del cosiddetto “male minore”. Quello che tu mi hai insegnato a non assecondare, spiegandomi che ci sono cose, come la vita e la morte, appunto, che non possono mai essere messe ai voti, e cose intrinsecamente malvagie. È da te che ho imparato il significato dei “princìpi non negoziabili”, da te ho compreso che le Dat (“testamento biologico”) cattoliche non esistono, che la fecondazione assistita non andava appoggiata nemmeno in via referendaria in nome dei cosiddetti “paletti” che avrebbero dovuto arginare il “far west”: «Una volta che li accettiamo, ammettiamo che la fecondazione è in qualche modo lecita e così di qui a poco si tornerà alla fecondazione selvaggia», mi spiegavi mentre ti arrabbiavi perché eri sicuro che la battaglia referendaria condotta dalla Cei avrebbe portato tanti cristiani a credere che la “provetta omologa” fosse morale. Eri il primo che sentivo ragionare così ma capivo che avevi ragione. E ora la realtà ne dà la prova.

L’uomo, immagine di Dio, non doveva essere ridotto da alcun potere, per tutto questo ti ho visto alzarti una infinità di volte in piedi. Non solo quando venivi alla veglia delle Sentinelle contro il Ddl Scalfarotto, ma anche quando ti recavi in piazza a pregare per i cristiani perseguitati in Medio Oriente: con Maria prendevi i mezzi pubblici e attraversavi Milano in qualsiasi condizione climatica solo per recitare una Corona del Rosario, mostrando un cuore più giovane di tanti giovani.

Ti ho visto alzarti durante un convegno organizzato da una donna che ha salvato tante vite in grembo ma che parlava di una necessaria “applicazione giusta” della 194 senza però lottare per abolirla: pur essendole amico hai avuto il coraggio di dirle, di fronte ad una platea che la osannava, che si sbagliava. Non so quanto ti è costato (QUI il suo video per la Bussola)

Ti ho visto partire per raggiungere una chiesa italiana che ospitava Emma Bonino a parlare di immigrazione (coprendo il tabernacolo) solo per dirle che la prima accoglienza è quella dei bambini che vengono al mondo. L’hai incalzata, mostrando che il Re era nudo, nonostante i presenti ti gridassero di tacere. Ti ho visto affermare cose scomode in mezzo a folle di cattolici perbene, che per togliersi dall’imbarazzo riducevano il tuo amore per il Vero a bizzarìa. Ti ho visto sollevare discussioni sulla morte anche all’interno della tua bellissima famiglia (che dice tanto dell’uomo, marito e padre che sei).

Ti ho immaginato a parlare contro l’aborto ad una donna decisa a uccidere il frutto del suo grembo pur sapendo che ti sarebbe costato il posto di lavoro o l’ennesimo processo. E quando una volta ti chiesi se non ti eri stancato, se non ti veniva il pensiero della tua prole numerosa, tu come un bambino mi rispondesti ancora: «E che cosa dovrei fare io?», come a dire che non potevi agire altrimenti. E capivo che non temevi (quante volte mi hai ripetuto di «non temere...») perché eri certo che «la verità unisce».

In te, infatti, la verità era sempre piena di carità. Giudicavi i fatti e gli atti, come una spada questi sì che li dividevi imitando il tuo amico Chesterton, ma mai le persone. A casa tua, insieme a tua moglie hai sempre accolto ogni sorta di peccatori e bisognosi. Io ero una di quelli. E mi ritengo privilegiata per il fatto di essere stata così preferita da te e da Maria, per aver passato diversi anni a tavola (e che tavole!) con voi a discutere della nostra vita privata e di quella sociale, per aver ricevuto spesso le tue telefonate in cui mi aiutavi a giudicare quanto accadeva alla luce della fede, a volte, quando soffrivo per qualcosa, mi facevi anche pregare. 

lunedì 15 agosto 2022

L’ASSUNTA, SPERANZA PER LA NOSTRA EPOCA SMARRITA

Pubblichiamo di seguito l’omelia che il cardinale e arcivescovo 

GIACOMO BIFFI (1928-2015)

tenne il 15 agosto 1999, a Bologna (Villa Revedin), per la solennità dell’Assunzione di Maria.

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Oggi ci stringiamo festosi alla Vergine Maria, madre di Gesù e madre nostra, ricordando e celebrando il trionfo che ha coronato la sua umile vita: una vita intessuta di fede, di amore, di dolcezze ineffabili e di ansie pungenti, di intime gioie e di lancinanti dolori. Giunta al termine dei suoi giorni, è entrata in cielo non solo con la sua anima immacolata, ma anche con le sue membra trasfigurate dalla luce dell’immortalità: questa è la certezza che ispira e giustifica l’odierna letizia dei nostri cuori.

Francesco Botticini, Assunzione della Vergine, 1475

Nella realtà dell’Assunzione corporea di Maria trova saldezza e conforto la nostra speranza per il futuro che ci attende oltre la morte e per il nostro tribolato presente. L’Assunzione della Madonna dà sostegno alla nostra fiducia nella vita futura, perché rappresenta la primizia e la concreta caparra della risurrezione dei nostri corpi. Contemplando la sorte felice di Maria siamo confermati nella piena verità dell’annuncio pasquale: la risurrezione del Figlio di Dio, crocifisso per noi, non è un destino soltanto suo. È il sorprendente destino di tutti i figli di Adamo che in lui sono stati riscattati e rinnovati, a cominciare dalla sconosciuta fanciulla di Nazaret chiamata a diventare la madre del Signore.

Maria è una di noi, donna tra le donne: anche lei come tutte le madri avvolse il suo bambino tra le fasce, lo nutrì al suo seno, lo crebbe con amorosa pazienza. E un giorno, quando divenne adulto, lo vide partire da casa, provando lo stesso struggimento che prende le mamme quando vedono il frutto delle loro viscere andarsene per la sua strada. Se dunque una di noi, dietro a Gesù, è entrata nel Regno dei cieli con l’integrità della sua persona, vuol dire che la redenzione del nostro corpo (cf. Rm 8,23) è già cominciata. Oggi dunque possiamo pronunciare con rinnovata sicurezza e con più vibrante emozione le splendenti parole del Credo, che ci toccano così intimamente: “Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà”.

Nessuno però sia tratto in inganno dalla scena di gloria che la prima lettura, desunta dall’Apocalisse, ha delineato davanti ai nostri occhi: “Una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle” (Ap 12,1). Davvero questo è un “segno grandioso”, che domina il cielo al cospetto di Dio; ma non deve farci dimenticare che l’Assunta, pur nella sua straordinaria esaltazione, non si è allontanata da noi. Il cielo, cui ella è salita, non è quello degli astronomi e degli astronauti (che ancora fa parte dell’universo fisico e materiale). Il cielo, cui ella è salita, è il mondo invisibile e più vero, dove dimora Dio coi suoi santi; ed è vicinissimo a noi perché il Creatore non è mai remoto dalle sue creature. Siamo noi piuttosto a esserne lontani, quando coi nostri atti usciamo dalla verità e dall’amore del Padre.

L’Assunta ci è dunque vicina e non è ignara o smemorata di noi. Nella luce di Dio ci vede tutti, sa tutto di noi: conosce le nostre pene e le nostre speranze; conosce perfino i pericoli che noi con la nostra corta vista ancora non vediamo, i nostri bisogni che ancora non arriviamo a percepire. E anche in questo momento la Madonna è al lavoro per noi. Perché nel cielo tutto è attività, attività affettuosa e appassionata. Nessuno dei santi è inoperoso e tanto meno lei che - come ci insegna il Concilio Vaticano II - “con la sua bontà materna si prende cura dei fratelli del Figlio suo ancora peregrinanti e posti tra pericoli e affanni, fino a che non siano introdotti in patria” (Lumen gentium 62 e 65).

Perciò possiamo e dobbiamo interessarla alle intenzioni che più ci stanno a cuore. E ciascuno di noi ha nel suo intimo qualcosa da dire e da chiedere alla Madonna. Preghiamo soprattutto per la pace delle genti e degli animi, in un’umanità che quanto più si allontana dal Vangelo tanto più si fa disumana e feroce.

Preghiamo perché sia data un po’ di saggezza a un’epoca che sembra diventare sostanzialmente insipiente e mentalmente smarrita, a misura che vede crescere le sue spesso inutili bravure e le sue capacità di manipolazione spericolata, di sperimentazione selvaggia, di calcoli senza buon senso e senza misericordia.

Preghiamo perché quanti continuiamo a volerci dire cristiani abbiamo gli occhi giusti per vedere e ammirare la bellezza, la santità indefettibile, la forza salvifica della Chiesa, di cui Maria è “la primizia e l’immagine”.

Preghiamo perché tutti gli uomini senza eccezioni - dissolti tutti gli errori, dissipate tutte le fole, oltrepassate le verità parziali e insufficienti - riconoscano e adorino Gesù di Nazaret come l’unico Signore, l’unico Maestro, l’unico che può riscattare le nostre esistenze dalle mille assurdità che le soffocano e dai mille egoismi che, magari sotto il nome di progresso civile, le snaturano e le deturpano.

Ormai alle soglie della celebrazione bimillenaria, ci ottenga lei un incontro davvero trasformante con il Figlio suo benedetto, che è anche l’Unigenito eterno del Padre, e scolpisca negli animi, come regola di tutta la nostra vita, la perfetta docilità all’esortazione che ella ha fatto risonare al banchetto di Cana: “Fate quello che vi dirà” (Gv 2,5).